Il Senato approva la legge sul consenso informato e sul “fine vita”: la “storia” scritta dalla giurisprudenza diventa ius positum

Daniela Zorzit
12 Gennaio 2018

Brevi note frutto di una prima lettura della nuova disciplina introdotta dalla Legge approvata dal Senato lo scorso 14 Dicembre (d.d.l. 2801), nella quale confluiscono piccoli frammenti del passato (i casi risolti nelle aule giudiziarie) e qualche osservazione “di insieme”.

Queste brevi note non mirano ad illustrare in modo compiuto ed analitico la nuova disciplina introdotta dalla Legge approvata dal Senato lo scorso 14 Dicembre (d.d.l. 2801). Sono frutto, piuttosto, di una impressione, di una prima lettura, nella quale (al di là dell'innegabile impatto emotivo che i temi suscitano) confluiscono piccoli frammenti del passato (i casi risolti nelle aule giudiziarie) e qualche osservazione “di insieme”. Si chiede sin d'ora venia per la inevitabile incompletezza e per la approssimazione che i più attenti e critici lettori vi troveranno, ma le righe che seguono vorrebbero, soltanto, essere un segno di riconoscimento, un “tributo”: alla giurisprudenza, da un lato, ed al Legislatore, dall'altro.

Ai Giudici, anzitutto: perché sono le Corti (di merito e di legittimità) che hanno scritto la “storia” del consenso informato e ne hanno declinato l'essenza e gli sviluppi sino ai confini estremi del “fine vita”.

Di fronte alla impossibilità del “non liquet”, la magistratura si è fatta carico di un ruolo nobile e di una funzione al tempo stesso altissima ed estremamente delicata: interpretare le norme, individuare ed attuare i principi espressi dalla Costituzione, al fine di dare risposte, di sciogliere attraverso decisioni motivate la complessità e - spesso la drammaticità – delle istanze e dei bisogni concreti.

Vengono alla mente le vicende - umane, ma anche giuridiche, sociali, politiche e non da ultimo “mediatiche” - di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno segnato momenti di forte tensione, ponendo sulla ribalta questioni “nuove” ed al tempo stesso cariche di pathos: temi oltremodo “sensibili” – per le implicazioni e le suggestioni che evocano -, in cui la linea di demarcazione tra diritto ed etica diviene labile, oscillante, a volte imprendibile. E nei quali è alto il rischio di commistioni, di ingerenze, di fraintendimenti e di strumentalizzazioni.

E sia consentito qui accennare alla accesa contrapposizione tra le due tesi che – in quel contesto – si contendevano il campo: da un lato, l'idea secondo cui la vita è bene indisponibile, di cui neppure il diretto interessato potrebbe decidere; dall'altro, l'orientamento opposto che, valorizzando la libertà dell'individuo, respinge qualsiasi tentativo di “imposizione esterna” (nel ricorso presentato alla Corte di Cassazione dal padre di Eluana Englaro si sottolinea «come il diritto alla vita, proprio perché irrinunciabile ed indisponibile, non spetti che al suo titolare e non possa essere trasferito ad altri, che lo costringano a vivere come essi vorrebbero»).

La Suprema Corte - nella notissima sentenza del 16 ottobre 2007 n. 21748 - scelgono questa seconda via: e nella stesura della motivazione danno corpo e respiro ai principi, affidano la trama del decisum ai valori che i Costituenti hanno posto a fondamento del sistema (e che trovano riconoscimento e tutela anche a livello sovranazionale). La Corte d'appello di Milano, in sede di rinvio, deve dunque attenersi alla regola, che da quella trama deriva, che vede nel rispetto della volontà del malato - persona il nuovo baricentro.

E qui si registra la res maximi momenti che dimostra, nella sua caratura e dimensione, la natura – straordinaria e sofferta - del problema: di fronte a quelle sentenze, la Camera ed il Senato propongono conflitto di attribuzione innanzi alla Consulta. E sostengono che la giurisprudenza avrebbe “usurpato” le funzioni del Parlamento, “dettando” ex novo una disciplina che era riservata al Legislatore.

I ricorsi vengono dichiarati inammissibili (C. Cost., ordinanza 8 ottobre 2008 n. 334); si chiude così una prima fase della storia; il dibattito continua, ma i principi, per come lucidamente espressi dalla Cassazione, restano: segni indelebili che annunciano una nuova era.

Un “riconoscimento” - si diceva in exordium - al Legislatore: perché, finalmente, è intervenuto in una materia così complessa, e perché, sciogliendo e superando le tensioni del passato, ha fatto tesoro della – lunga, difficile, travagliata - elaborazione giurisprudenziale, recependola e consegnandola allo “ius positum”.

Una presa di posizione su temi così delicati e profondi era (ed è) scelta estremamente ardua, per le commistioni (etiche, filosofiche, religiose) di cui essa è intrisa. I piani di valutazione si sovrappongono e le interferenze tra le possibili “visioni” si fanno, qui più che altrove, assai difficili da districare.

Viene alla mente – sia perdonata la suggestione – quel bellissimo quadro che attrae ed affascina i visitatori della casa del Vasari, che rappresenta le figure allegoriche della «Virtù che ha sotto i piedi l'Invidia e, presa la Fortuna per i capelli, bastona l'una e l'altra» (G.VASARI, “Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani”, 1550) : ma la peculiarità dell'opera sta nel fatto che, a seconda di come si volga lo sguardo, cambiando cioè il punto di osservazione, la scena si rovescia e sembra che siano ora l'una ed ora l'altra ad avere il sopravvento.

Ebbene, tra questi molteplici “punti di vista” il Legislatore non poteva che scegliere quello “oggettivo e neutro”, proprio di uno Stato di diritto.

Così, quel diritto alla autodeterminazione che la Cassazione aveva già da tempo posto a cardine e presidio della libertà di scelta del paziente diviene il fuoco prospettico della Novella: l'art. 1 si apre con un solenne richiamo agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e agli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea; un rinvio che, in realtà, riempie di contenuto la norma, rappresentandone l'essenza stessa.

Non è questa la sede per una analisi dettagliata: siano solo consentite alcune brevi osservazioni.

Non è certo un caso se la Legge ha sentito la necessità di ricondurre espressamente la nutrizione e l'idratazione artificiali entro la definizione di “trattamento sanitario” (al quale, per espressa previsione dell'art. 32 comma 2 Cost., «nessuno può essere obbligato se non per disposizione di legge»). Si tratta di uno snodo fondamentale – su cui la stessa Cass. civ., n. 21748/2007 si era soffermata – perché la tesi che proclamava l'indisponibilità della “vita” negava una siffatta equiparazione, sostenendo, per converso, che il principio di solidarietà imponeva allo Stato di intervenire al fine di “non far morire di fame o di sete” una persona.

Oggi, nell'ottica prescelta dal Legislatore – che ha raccolto e trasformato in norma gli approdi cui era già giunta la Suprema Corte – la prospettiva è rovesciata: il rispetto della dignità e della libertà dell'individuo è in primo piano e giustifica “il rifiuto” delle cure (purché consapevole ed informato), anche quando siano necessarie «alla propria sopravvivenza».

Ed è oltremodo significativo che l'art. 1 abbia stabilito che il medico ha l'obbligo di rispettare la volontà del paziente ed «è esente da responsabilità civile o penale»: un brevissimo comma, in cui è condensata tutta “la storia”, ed in cui è contenuta tutta la strada che ha percorso la giurisprudenza. Basti qui accennare al fatto che il medico che – su richiesta di Piergiorgio Welby, affetto da una gravissima malattia che ne aveva ormai irreversibilmente segnato le sorti – ebbe a “staccare la spina”, venne imputato del reato di “ omicidio del consenziente”(ex art. 579 c.p.) .

Ebbene, il G.U.P. pronunziò sentenza di proscioglimento, fondando la propria decisione sul disposto dell'art. 51 c.p., affermando, in relazione agli artt. 32 comma 2 e 13 Cost., che «La fonte del dovere per il medico, quindi , risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale che è fonte di rango superiore rispetto alla legge penale e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico che, da un parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio» (G.U.P. Trib. Roma, 23 luglio 2007, in Cassazione penale n. 5- 2008, 57 ss.).

E conviene altresì chiarire un equivoco: non si tratta certo (come talvolta, nella confusione anche emotiva, si è superficialmente detto da taluni) di autorizzare una forma di eutanasia: il medico non è affatto legittimato a somministrare sostanze venefiche a chi gli chieda di farlo. Per converso, è obbligato a rispettare la volontà del paziente di rifiutare un trattamento sanitario (per es. la nutrizione e l'idratazione artificiali o il collegamento ad un ventilatore meccanico), pur quando si tratti di interventi indispensabili per consentire la sopravvivenza.

Il tutto, peraltro, in un contesto normativo che valorizza, ed anzi, pone in primo piano il recupero del dialogo con il paziente, l'affidamento, la fiducia, la leale e trasparente «comunicazione» che, se nella prassi appare talvolta un poco relegata ad “accessorio”, deve essere invece, essa stessa, «tempo di cura».

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.