Quando le dichiarazioni rese dall’indagato possono ritenersi spontanee?

Valeria Crudo
31 Gennaio 2018

Con la pronuncia n. 29061/2017, la Corte di cassazione, nel ribadire il compito del giudice del merito di accertare – anche di ufficio – la natura libera e volontaria delle dichiarazioni rese dall'indagato e qualificate come spontanee dalla polizia giudiziaria, approfondisce il contenuto di tale verifica attribuendo specifico rilievo anche ad elementi di natura fattuale. La struttura complessa dell'articolo 350 c.p.p., che disciplina tre diversi istituti distinti per presupposti e regime di utilizzabilità, di certo non facilita l'esegesi della norma ...
Abstract

Con la pronuncia n. 29061/2017, la Corte di cassazione, nel ribadire il compito del giudice del merito di accertare – anche di ufficio – la natura libera e volontaria delle dichiarazioni rese dall'indagato e qualificate come spontanee dalla polizia giudiziaria, approfondisce il contenuto di tale verifica attribuendo specifico rilievo anche ad elementi di natura fattuale.

L'inquadramento normativo dell'istituto

Va detto che la struttura complessa dell'articolo 350 c.p.p., che disciplina tre diversi istituti distinti per presupposti e regime di utilizzabilità, di certo non facilita l'esegesi della norma, oggetto di varie questioni interpretative attualmente non tutte risolte.

Brevemente, i primi quattro commi della previsione normativa sono dedicati all'assunzione di sommarie informazioni rese dall'indagato «che non si trovi in stato di arresto o di fermo» da parte dell'ufficiale di polizia giudiziaria, con la necessaria presenza del difensore, le garanzie di cui all'art. 64 c.p.p. e previa contestazione dell'addebito in forma chiara e precisa (pur in mancanza di un espresso richiamo all'art. 65 c.p.p.).

Di seguito, il quinto e il sesto comma introducono, invece, uno strumento più agile ai fini investigativi, prevedendo che, sul luogo o nell'immediatezza del fatto, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono ricevere informazioni e indicazioni utili dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini anche senza la presenza del difensore e seppure il soggetto sia in vinculis ma al limitato fine dell'immediata prosecuzione delle indagini. Sicchè – ed è lo stesso Legislatore, opportunamente, a precisarlo – delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva è vietata ogni forma di documentazione ed utilizzazione.

Infine, il settimo ed ultimo comma disciplina l'istituto delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato e ricevute dalla polizia giudiziaria (formula atta a ricomprendere tanto gli ufficiali che gli agenti), prevedendone la necessaria verbalizzazione e una utilizzabilità “relativa”, in quanto limitata solo ai fini contestativi, ai sensi dell'art. 503, comma 3, c.p.p.

Contrariamente alle precedenti disposizioni, dunque, in caso di dichiarazioni spontanee sembrerebbe che il Legislatore abbia voluto preservare il contributo conoscitivo proveniente dall'indagato, non prevedendo la necessaria presenza del difensore né l'operatività delle garanzie di cui all'art. 64 c.p.p. e mostrandosi finanche indifferente allo status libertatis del soggetto.

È per tali ragioni che la giurisprudenza maggioritaria ha ripetutamente affermato che la norma posta dall'art. 350, comma 7, c.p.p. fa eccezione alle disposizioni più generali poste dai commi precedenti – e, in particolare, a quelle di cui ai commi 5 e 6 – oltreché al generale principio del nemo tenetur se detegere, di cui sono espressione gli artt. 63 e 64 c.p.p.

Ciò significa, in altri termini, che il settimo comma dell'art. 350 c.p.p. non può essere oggetto di applicazione analogica, imponendosi – anzi – una interpretazione restrittiva, nel senso di dover ricondurre nell'ambito delle dichiarazioni spontanee esclusivamente quelle dichiarazioni ricevute in assenza di qualsiasi pressione o sollecitazione, palese o surrettizia, diretta od indiretta, da parte degli inquirenti. Da qui la precipua rilevanza del compito demandato al giudice del merito.

L'accertamento della natura libera e volontaria delle dichiarazioni: il caso deciso

Nella fattispecie, con sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato e integralmente confermata in grado di appello, l'imputato era stato condannato per molteplici reati (tra cui: detenzione illecita di arma da fuoco; detenzione di arma clandestina in quanto avente matricola abrasa; detenzione illecita di sostanze stupefacenti; ricettazione e detenzione illecita di cartucce di arma da fuoco).

Poiché l'affermazione di responsabilità era fondata essenzialmente sulle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato nei locali della squadra mobile, il ricorrente aveva presentato impugnazione deducendo, inter alia, violazione di legge e vizio di motivazione in punto di ritenuta spontaneità ed utilizzabilità delle predette dichiarazioni, evidenziando nello specifico i seguenti presupposti fattuali: a) il giorno 10/7/2015, alle ore 13:45, gli accertatori avevano effettuato le attività di perquisizione presso l'abitazione dell'indagato, redigendone verbale; b) dopo circa mezz'ora (e precisamente alle ore 14:15 dello stesso giorno), al termine della perquisizione, il medesimo era stato tratto in arresto; c) dell'arresto era stato notiziato, alle ore 15:55, il pubblico ministero di turno presso la Procura della Repubblica del posto, che aveva disposto il suo accompagnamento presso la propria abitazione in stato di arresti domiciliari; d) il personale operante di polizia giudiziaria, anziché procedere alla sua immediata traduzione, lo aveva trattenuto negli uffici della Questura per poi renderlo edotto della propria posizione ‘solo' alle ore 18:00 e condurlo agli arresti domiciliari alle successive ore 18:45; e) nel lasso di tempo in cui quest'ultimo era rimasto nella disponibilità del personale di polizia giudiziaria, peraltro in vinculis e senza assistenza difensiva, aveva reso “spontanee” dichiarazioni fornendo agli accertatori una versione dei fatti circostanziata e di carattere confessorio.

La IV Sezione della Corte di cassazione, dopo aver ribadito il carattere eccezionale della disposizione posta dall'art. 350, comma 7, c.p.p., ha richiamato il principio di diritto oramai consolidato secondo cui le dichiarazioni rese dall'indagato non possono essere ritenute spontanee soltanto perché tali sono state qualificate dalla polizia giudiziaria, spettando al giudice del merito il compito di accertare, anche d'ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione (anche di ordine logico) se siffatte dichiarazioni avevano effettivamente natura libera e volontaria (e, quindi, siano autonomamente promanate dall'indagato, senza alcuna sollecitazione o domanda della polizia giudiziaria). Ed è onere del giudice dare atto di questa valutazione con motivazione congrua ed adeguata.

In tale contesto interpretativo, i giudici di legittimità hanno valorizzato elementi marcatamente fattuali nell'accertamento della genesi spontanea delle dichiarazioni, ponendo in particolare evidenza che il ricorrente aveva reso le dichiarazioni in oggetto dopo essere stato trattenuto presso i locali della questura (in stato di arresto) per ben tre ore, nonostante l'ordine di traduzione agli arresti domiciliari presso la sua abitazione emesso dall'autorità giudiziaria.

In tal modo, distinguendosi da una prassi principalmente attenta al tenore e, quindi, al dato testuale delle dichiarazioni (con la verifica della sussistenza o meno dello schema domanda-risposta), con la sentenza n. 29061/2017 la Suprema Corte ha attribuito specifica e preminente rilevanza anche a quelle circostanze temporali e spaziali in grado di incidere sulla spontaneità delle stesse dichiarazioni.

Approfondendo i dubbi interpretativi e il (debole?) contrasto giurisprudenziale sulla norma

Deve ammettersi che la disciplina delle dichiarazioni spontanee è particolarmente dibattuta nella parte in cui non prevederebbe l'assistenza difensiva e neppure gli avvisi previsti dall'art. 64 c.p.p.

Va dato atto, infatti, della esistenza di una lettura alternativa della norma sostenuta da una parte della dottrina ed anche da pronunce di legittimità, sebbene minoritarie (v. Cass. pen.,Sez. III, 15 giugno 2015, n. 24944; Cass. pen. Sez. III, 7 giugno 2012, n. 36596; Cass. pen., Sez. VI, 29 aprile 2005, n. 12174).

In sintesi, si ritiene che qualunque dichiarazione sia essa spontanea che sollecitata assunta senza le garanzie previste dall'art. 64 c.p.p. è radicalmente inutilizzabile, in quanto la regola prevista dall'art. 63, comma 2, c.p.p. ha una portata generale certamente estensibile anche alle dichiarazioni rese spontaneamente dall'indagato alla polizia giudiziaria. Non a caso – si sostiene –, la norma di cui all'art. 63 c.p.p. non distingue tra dichiarazioni sollecitate e dichiarazioni spontanee, richiedendo ‘solo' di stabilire quando un soggetto venga a trovarsi nella sostanziale condizione, pur non avendone assunta la veste formale, di imputato o di persona sottoposta alle indagini.

Tuttavia, sebbene più garantista, questa interpretazione sembra collidere già con la lettera della norma di cui all'art. 350, comma 7, c.p.p., che è esplicita nel prevedere l'inutilizzabilità "relativa" ovvero ‘solo' dibattimentale delle dichiarazioni spontanee; il che impedirebbe di ritenere che la regola specifica in essa prevista possa essere "vanificata" dalla disciplina generale che sancisce l'inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall'indagato senza garanzie (v. in questi termini, Cass. pen., Sez. II, 28 novembre 2017, n. 53662; Cass. pen., Sez. II, 25 luglio 2017, n. 26246).

Allo stato, dunque, la formulazione testuale della disposizione - a prescindere dalla condivisibilità o meno della conclusione - confermerebbe il carattere eccezionale della disciplina prevista per le dichiarazioni spontanee, nell'intento di valorizzare al massimo la scelta personalissima dell'indagato di offrire la propria versione dei fatti.

La stessa lettera della disposizione normativa, in buona sostanza, sarebbe di ostacolo ad interpretazioni maggiormente garantiste.

Epperò, neppure può sfuggire che la previsione di utilizzabilità “relativa” prevista dall'art. 350, comma 7, c.p.p. era stata già oggetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale (ci si riferisce alla sentenza del 1 giugno 1991, n. 259), successivamente raggirata (ma non di certo superata) dall'intervento legislativo attuato con il decreto legge 306 del 1992.

In conclusione

Nell'attesa di chiarimenti giurisprudenziali ‘definitivi' sul dibattuto rapporto tra gli articoli 63 e 350, comma 7, c.p.p., si ribadisce che:

  • ai fini dell'utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato (senza assistenza difensiva), assume fondamentale importanza l'accertamento del giudice del merito sulla natura effettivamente libera e volontaria delle medesime dichiarazioni, a prescindere dalla qualificazione attribuita alle stesse dalla polizia giudiziaria;
  • nell'ambito di tale verifica assumono rilievo tutti gli elementi a disposizione del giudicante (anche di ordine logico), ivi compresi quelli di natura fattuale, come le circostanze di tempo e di luogo in cui le stesse dichiarazioni venivano rese dall'indagato, sì da scongiurare qualsiasi ‘abuso' dell'istituto.
Guida all'approfondimento

CATALANO, Riflessione breve sul regime giuridico di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee, in Cass. pen., 1996, 1231 ss.;

CERESA GASTALDO, Le dichiarazioni spontanee dell'indagato alla polizia giudiziaria, Torino, 2001, 69;

Id., Sulla non utilizzabilità (neppure) per le contestazioni dibattimentali delle “dichiarazioni spontanee” ex art. 350 comma 7 c.p.p. rese senza l'assistenza del difensore, in Cass. pen., 2000, 1704;

FERRUA, Dichiarazioni spontanee dell'indiziato, nullità dell'interrogatorio di polizia ed invalidità derivata, in Cass. pen., 1984, 1981 ss.;

MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell'indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000;

SECHI, L'utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee fra vecchio e nuovo processo penale, in Cass. pen., 1989, 1520.

SPANGHER (diretto da), AA.VV., Atti processuali penali: patologie, sanzioni, rimedi, sub Art. 350 c.p.p., Milano, 2013, 1920 ss.;

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