Taricco-bis: la Corte di Giustizia inverte improvvisamente la rotta

Angelo Valerio Lanna
02 Febbraio 2018

La Corte di Giustizia europea si è espressa a seguito di una domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 267 T.F.Ue, che era stata inoltrata dalla Corte costituzionale italiana e che verteva sul tema dell'interpretazione da attribuire al dettato dell'art. 325 par. 1 e 2 T.F.Ue ...
Massima

La Corte di Giustizia europea si è espressa a seguito di una domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 267 T.F.Ue, che era stata inoltrata dalla Corte costituzionale italiana e che verteva sul tema dell'interpretazione da attribuire al dettato dell'art. 325 par. 1 e 2 T.F.Ue (a seguito della lettura che del medesimo testo era stata offerta dalla stessa Corte, con la sentenza c.d. Taricco emessa in data 8 settembre 2015). I Giudici hanno dunque espresso il seguente principio: «L'articolo 325, paragrafi 1 e 2, T.F.Ue dev'essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell'ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all'inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell'insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell'applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».

Il caso

Un preambolo si impone. È ben noto – in quanto ampiamente sviscerato nella recente elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria - il precedente rappresentato dalla succitata sentenza Taricco. In chiave di estrema sintesi, si può allora ricordare quanto segue. A mezzo di tale pronuncia, la Corte di giustizia rilevò come il vigente sistema italiano regolativo del fenomeno dell'estinzione dei reati per prescrizione fosse – almeno potenzialmente - atto a compromettere il rispetto degli obblighi repressivi gravanti sugli Stati membri ex art. 325 T.F.Ue. Segnatamente, evidenziavano i giudici lussemburghesi in tale decisione come il combinato disposto degli artt. 157, 160 ultimo comma e 161 c.p. - nella parte in cui tali norme prevedono, a fronte dell'intervento di atti interruttivi, l'aumento del relativo termine nella misura solo di un quarto rispetto alla durata ordinaria - fosse idoneo ad impedire l'inflizione di sanzioni incisive e deterrenti, in un ragguardevole numero di ipotesi di frodi gravi, lesive queste di interessi finanziari dell'Unione. Analoga censura concerneva tali disposizioni interne in tema di prescrizione, laddove esse sanciscono – in relazione appunto alle frodi atte a ledere interessi finanziari del singolo Stato membro – termini prescrizionali più ampi, rispetto ai casi di frode idonei a danneggiare interessi finanziari dell'Unione nel suo complesso. La conclusione assunta dalla sentenza Taricco era, almeno apparentemente, di univoca interpretazione: il giudice interno – laddove avesse rilevato l'esistenza del sopra enucleato contrasto – sarebbe stato tenuto a disapplicare la normativa nazionale, così dando piena attuazione al disposto dell'art. 325 T.F.Ue.

Questo – almeno per quanto ora di interesse - il quadro originario.

Sia la Corte di cassazione, sia la Corte d'appello di Milano hanno poi rimesso alla Consulta una questione di costituzionalità, concernente la possibilità di disapplicare la normativa italiana in tema di prescrizione, in relazione a reati ex art. d.lgs. 74/2000 valutabili come gravi. La Corte d'appello dubita inoltre del rispetto degli obblighi derivanti dal dettato dell'art. 325 T.F.Ue, con riferimento al reato ex art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di T.L.E.). Fattispecie quest'ultima che – pur presentando delle indubbie similitudini con i reati finanziari di cui al d.lgs. 74/2000 – non è disciplinata in maniera analoga a questi, quanto all'istituto della prescrizione. La domanda pregiudiziale in esame attiene dunque alla eventualità che tale disapplicazione di norme in tema di prescrizione – attualmente vigenti nel sistema italiano – possa comportare una lesione dei principi cardine dell'ordinamento interno e dei diritti inalienabili della persona. Si dubita, ancor più nello specifico, che tale disapplicazione possa cagionare una lesione al principio di legalità dei reati e delle pene contenuto nell'art. 25 Cost.; principio che tra l'altro si sostanzia proprio nell'obbligo di precisa determinazione e di non retroattività delle norme penali sostanziali (la natura sostanziale del meccanismo della prescrizione, nel sistema italiano, rappresenta ormai un ancoraggio sicuro e non più revocabile in dubbio).

La questione

A corollario della questione posta, la Consulta ha anche esplicitato in maniera esaustiva i profondi dubbi interpretativi, posti dall'esegesi contenuta nella sentenza Taricco. Eccoli di seguito brevemente riassunti.

a) Il primo tema concerne il profilo della conoscibilità delle fattispecie incriminatrici. Ci si è infatti chiesto se sia esigibile – da parte del soggetto interessato – una perfetta conoscenza dei complessi rapporti esistenti, fra la normativa nazionale e il diritto dell'Unione. Ossia – per dirla in maniera più esplicita – se al momento della commissione di un reato l'interessato possa mai davvero avere contezza dell'esistenza di una norma, atta a legittimare la disapplicazione delle norme sulla prescrizione da parte del giudice italiano. Quindi: se si possa pretendere la conoscenza dell'esistenza di una norma sovranazionale, che sia idonea a consentire il prolungamento dei termini di prescrizione pur specificamente cristallizzati nella legislazione nazionale.

b) Si dubita poi della possibile lesione al principio di determinatezza delle fattispecie incriminatrici. Queste infatti – come preteso già dall'art. 7 Cedu (vedi punto 16 della sentenza in commento) – devono essere preventivamente e distintamente determinate, così da poter essere indubitabilmente comprese dall'autore di una condotta illecita. La sentenza Taricco lascia invece un evidente margine di ampia discrezionalità, soprattutto nella delimitazione dei concetti di numero considerevole di casi e di frode grave.

c) Ancora. La sentenza Taricco non sembra aver enunciato alcuna disciplina interpretativa, capace di regolare i rapporti tra i principi di diritto colà enunciati ed i principi costituzionali nazionali.

d) Infine, molti interpreti si dolgono dell'esistenza di una palese lesione al principio di irretroattività delle norme penali sostanziali.

Le soluzioni giuridiche

La Corte è partita, dunque, precisando come la lotta alle attività illecite lesive di interessi finanziari dell'Unione rappresenti un preciso obbligo gravante sugli Stati membri, a norma del sopra richiamato art. 325 T.F.Ue. Dal momento poi che – al vasto alveo delle risorse disponibili per l'Unione – sono riconducibili anche le entrate ricavabili dall'imposizione dell'Iva, esiste un legame diretto e immediato, fra la riscossione del relativo gettito (secondo le aliquote comunitarie e le regole europee) e la messa a disposizione delle relative poste nel bilancio dell'Unione. In altri termini: ogni flessione nella rigorosa riscossione determina un immediato decremento delle risorse disponibili. Da ciò, l'obbligo per gli Stati di assicurare il costante recupero dell'Iva e la repressione delle frodi in tale materia. Laddove poi la gravità delle evasioni postuli l'applicazione di sanzioni penali, queste devono essere effettivamente adeguate allo scopo e dotate di una idonea valenza deterrente, pena la violazione degli obblighi di cui sopra.

Trattandosi inoltre dell'obbligo di raggiungimento di un determinato risultato, non sono stabilite condizioni predeterminate; è invece lasciato ai giudici interni il compito di attribuire piena efficacia al dovere contenuto nell'art. 325 T.F.Ue, provvedendo alla disapplicazione delle norme che con lo stesso si rivelino incompatibili (tra le quali figura proprio la normativa che regolamenta l'istituto della prescrizione). Più in generale occorrerebbe peraltro – a giudizio dei giudici – che il Legislatore nazionale disciplinasse tale istituto in maniera diversa rispetto a quanto accade attualmente; che procedesse dunque all'adozione di disposizioni atte ad ottemperare ai suddetti obblighi repressivi, così evitando il fenomeno della diffusa impunità.

Il campo delle disposizioni penali concernenti la salvaguardia degli interessi finanziari dell'Unione è poi sottoposto alla competenza concorrente dell'Unione e dei singoli Stati. E dal momento che – alla data di commissione dei fatti in ordine ai quali si è proceduto nel processo a quo – la disciplina della prescrizione valevole per la materia dell'Iva non era stata ancora regolamentata in modo uniforme, lo Stato italiano conservava ancora una piena autonomia legislativa (qui la Corte incidentalmente ricorda come tale parziale armonizzazione sia coincisa, in seguito, con l'emanazione della direttiva Ue 2017/1371). L'Italia poteva quindi legittimamente attribuire al regime della prescrizione una natura sostanziale, come tale assimilabile alla tipizzazione delle fattispecie di reato ed alla previsione delle sanzioni penalistiche, oltre che assoggettato al giù generale principio di legalità.

I giudici europei hanno poi rammentato come il principio di legalità dei reati e delle pene – nelle sue fondamentali articolazioni della accessibilità e prevedibilità, nonché della determinatezza e della irretroattività della legge penale – costituisca uno degli ancoraggi sicuri sia della legislazione dell'Unione, sia degli ordinamenti nazionali. Ne deriva come l'obbligo di reprimere le frodi - al fine di garantire il flusso economico delle risorse per l'Unione - non possa che essere recessivo, a fronte dell'ossequio dovuto al principio di legalità e delle pene.

Per concludere, ecco allora di seguito una sintesi delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte:

a) Spetta in primo luogo al giudice italiano il compito di verificare se il rilievo contenuto nella sentenza Taricco – a mente della quale la normativa codicistica interna inibirebbe, in un numero considerevole di casi, la repressione di frodi gravi lesive di interessi finanziari dell'Unione – possa determinare uno stato di dubbio e di indeterminatezza, in ordine alla disciplina applicabile in tema di prescrizione. Una situazione di incertezza che si porrebbe però in stridente contrasto con il generale principio di determinatezza della legge penale; in tale contesto, verrebbe meno l'obbligo per il giudice italiano di procedere alla disapplicazione della normativa italiana in tema di prescrizione.

b) La vigenza del principio di irretroattività impedisce che – nell'ambito di un procedimento penale – si possa irrogare una sanzionare per una condotta che non prevista come reato da una norma adottata in epoca antecedente, rispetto alla commissione del fatto stesso.

c) Il giudice italiano – laddove reputi che la disapplicazione del vigente regime in tema di prescrizione, possa comportare un contrasto con il principio di legalità dei reati e delle penenon è tenuto a procedere a tale disapplicazione; ciò neppure al fine di uniformare il diritto nazionale a quello dell'Unione.

d) È invece demandato al legislatore nazionale il compito di conformare la disciplina interna ai principi comunitari.

Osservazioni

Dopo questa articolata pronuncia della Grande Sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea, si può dire che nessuna delle questioni che già prima si agitavano tra gli interpreti della materia sia veramente risolta. Nello specifico. La sentenza c.d. Taricco aveva lasciato sul tavolo una serie di tematiche ermeneutiche particolarmente rilevanti, attinenti anzitutto al rapporto fra la legislazione sovranazionale ed il diritto penale interno. Non si era poi mancato di sottolineare come la lettura offerta dalla Corte, rispetto ad alcune norme del diritto dell'Unione, risentisse di una forte vaghezza contenutistica della sentenza medesima. E infatti - richiamando i concetti sopra esposti – si può ritenere che fossero rimaste alquanto generiche nella definizione le nozioni di:

  • sanzioni effettive e dissuasive (che sarebbero state impedite dal meccanismo italiano di calcolo della prescrizione);
  • numero considerevole di casi (trattandosi di previsione sprovvista della necessaria delimitazione oggettiva);
  • frodi gravi lesive degli interessi finanziari dell'Unione (essendo soprattutto il concetto di gravità estremamente sfuggente, nonché foriero di interpretazioni di puro stampo apodittico e tautologico).

La disapplicazione del sistema interno regolativo della prescrizione, in tali casi, restava allora inevitabilmente affidata ad una pericolosa forma di intuizionismo giudiziario, ossia a presunzioni e deduzioni di saporemarcatamente soggettivistico promananti dal giudice.

È qui forse utile ricordare come esista un obbligo di interpretazione delle leggi interne in conformità ai principi comunitari, discendente nel nostro ordinamento dal dettato dell'art. 117 Cost. In caso poi di discrasie con i superiori principi costituzionali, il giudice nazionale potrà ricorrere alla domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia europea; ciò accadrà, allorquando si ritenga che le soluzioni interpretative offerte dalle sentenze emesse da quest'ultima si pongano in conflitto, con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale italiano e con i diritti inalienabili della persona.

La genesi logica della pronuncia ora in esame è infatti proprio questa: verificare se la disapplicazione del sistema italiano della prescrizione sia o meno compatibile con i principi supremi di legalità dei reati e delle pene, contenuti nell'art. 25 Cost.; ciò in particolare per quanto inerisce al profilo della sufficiente determinatezza delle fattispecie, nonché dell'applicazione retroattiva delle norme incriminatrici. Insomma, il dubbio fondamentale ricavabile dalla lettura della sentenza Taricco è stato diffusamente condiviso dagli interpreti. Affermare che si possa (rectius, si debba) disapplicare il meccanismo regolativo della prescrizione ex art. 157 e ss. c.p. (e dunque violare uno dei principi cardine dell'ordinamento, ossia quello della irretroattività delle norme più sfavorevoli), quando appaia impossibile così comminare sanzioni gravi e effettive in un numero considerevole di casi di frode grave lesive di interessi comunitari costituisce previsione talmente vaga e approssimativa, da lasciare francamente basiti.

La soluzione offerta qui dalla Corte è però davvero anodina.

I principi di conoscibilità e determinatezza delle norme incriminatrici, nonché di irretroattività delle stesse, costituiscono la spina dorsale del sistema costituzionale degli Stati membri e del diritto dell'Unione; essi devono allora prevalere sull'obbligo – pure gravante su tali Stati – di assicurare l'efficace riscossione del gettito delle entrate finanziarie, mediante anche la repressione delle frodi. Sin qui, tutto pacifico.

Spetterà però poi al Giudice italiano verificare se – nella pratica applicazione – il rispetto dei principi dettati dalla sentenza Taricco in materia di prescrizione (laddove è appunto sancito il suddetto obbligo di disapplicazione), possa produrre o meno una situazione di indeterminatezza della regime applicabile. Ossia. Par di capire che il Giudice italiano resti praticamente libero di accertare se - sposando la lettura dell'art. 325 T.F.Ue ricavabile dalla sentenza Taricco - si venga poi a produrre una lesione al principio di legalità dei reati e delle pene (sub specie di difetto di tassatività e di violazione della non retroattività). E in tal caso, sarà tenuto ad astenersi dal procedere alla disapplicazione delle norme italiane in tema di prescrizione, dovendo comunque prevalere i supremi principi costituzionali. Insomma, la Sibilla non avrebbe saputo fare di meglio: ibis redibis non morieris in bello.

La strada percorribile è infatti duplice e variegata. Diversi Giudici nazionali potrebbero pervenire a soluzioni esegetiche radicalmente difformi; ciascun interprete ben potrebbe colmare di contenuti i concetti quadro dettati dalla Taricco, così riscontrando o meno un vulnus rispetto ai principi costituzionali suddetti.

Non è in realtà difficile rendersi conto di come l'intera decisione sia percorsa – quasi fosse una corrente invisibile – dalla volontà di lasciare sostanzialmente impregiudicate alcune questioni. Il tutto al fine – questo invece palese e sicuramente giustificato – di operare una sorta di rinvio ad un futuro intervento legislativo nazionale. E infatti, il punto 61 della sentenza in commento testualmente così si esprime: «Se il giudice nazionale dovesse quindi essere indotto a ritenere che l'obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, esso non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell'Unione […]. Spetta allora al legislatore nazionale adottare le misure necessarie, come rilevato ai punti 41 e 42 della presente sentenza».

Alla luce delle argomentazioni che precedono, non è quindi peregrino auspicare finalmente una radicale modifica nella normativa nazionale in materia. Un intervento che sia questa volta davvero chiarificatore, oltre che in grado di eliminare definitivamente quella che è una anomalia tipicamente italiana: un sistema che disciplina l'istituto della prescrizione in maniera incongrua e inefficace sia sotto l'aspetto generalpreventivo, sia per quanto concerne il momento repressivo. Volendo allargare rapidamente lo sguardo, si potrebbe chiosare dicendo che l'auspicio riguarda qualcosa di molto diverso dalla recente riforma Orlando.

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