Risoluzione del preliminare di compravendita e mancata restituzione dell'acconto: non é appropriazione indebita

08 Febbraio 2018

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla responsabilità a titolo di appropriazione indebita aggravata, in seguito alla mancata restituzione di una somma ricevuta come acconto nell'ambito di un precedente contratto preliminare di compravendita immobiliare poi risolto.
Massima

La mancata restituzione di una somma versata a titolo di acconto nell'ambito di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, in seguito risolto, non configura il delitto di appropriazione indebita, trattandosi di un inadempimento di natura civilistica.

Il caso

La vicenda trae origine dalla stipula di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, in occasione del quale la promissaria acquirente aveva versato al promittente venditore una cospicua somma a titolo di acconto.

Il contratto veniva però risolto tra le parti. Seguiva la sottoscrizione di una scrittura privata, denominata “mandato a vendere”, che impegnava il promittente a reperire un nuovo acquirente a cui vendere l'appartamento, provvedendo così alla restituzione integrale delle somme percepite a titolo di acconto dal precedente acquirente.

L'agente immobiliare riusciva ad individuare un nuovo acquirente al quale trasferiva con regolare rogito notarile l'immobile. Lo stesso però non provvedeva alla restituzione delle somme precedentemente ricevute come acconto (a eccezione di euro 10.000), trattenendole a sé.

Per tale ragione veniva denunciato per appropriazione indebita (art. 346 c.p.), con l'aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.). Al contempo, gli veniva pure contestata la tentata estorsione (artt. 81, 56, 629 c.p.) perché, con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, aveva posto in essere atti diretti in modo non equivoco a costringere il promissario acquirente a non presentare denuncia.

In primo grado l'imputato veniva ritenuto responsabile per i reati a lui ascritti.

Diversamente, la Corte d'appello pronunciava sentenza di assoluzione con formula perché il fatto non sussiste, in relazione all'appropriazione indebita aggravata. Riqualificava invece il reato di tentata estorsione nel meno grave delitto di tentata violenza privata (artt. 56, 610 c.p.), con conseguente declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione.

La parte civile presentava ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 646 c.p., in quanto l'agente immobiliare era entrato in possesso del denaro con il preciso scopo di cedere la proprietà dell'appartamento. Ed è chiaro che, essendo venuto meno lo scopo originario per essere stato peraltro lo stesso inadempiente, non aveva più titolo alcuno per trattenere il cospicuo acconto versatogli. Si aggiunga che, con successiva scrittura privata, si era espressamente obbligato a restituire le somme nel caso avesse reperito un nuovo acquirente. Egli pertanto non aveva titolo per trattenere l'intero prezzo ottenuto dal nuovo acquirente, ma avrebbe dovuto rimettere la parte di prezzo non di sua spettanza alla persona offesa.

La questione

Alla Suprema Corte è chiesto, pertanto, di pronunciarsi in ordine alla responsabilità a titolo di appropriazione indebita aggravata, in seguito alla mancata restituzione di una somma ricevuta come acconto nell'ambito di un precedente contratto preliminare di compravendita immobiliare poi risolto.

Le soluzioni giuridiche

Nell'affrontare tale delicata questione, la Suprema Corte si riporta ad alcuni precedenti in materia (tra cui la recentissima Cass. pen., Sez. II, 29 marzo 2017, n. 15815).

Partendo da ciò, la Corte afferma il principio secondo cui il mancato adempimento del successivo obbligo di restituzione – derivante dalla risoluzione del contratto – e assunto altresì con scrittura privata – va considerato un inadempimento di natura civilistica, non configurando il delitto di appropriazione indebita.

Di conseguenza, non è ipotizzabile un vincolo di destinazione neppure rispetto alla somma che l'imputato ha ricevuto dal nuovo acquirente per effetto del nuovo e diverso contratto di vendita. Si tratta infatti di denaro che non proviene dalla persona offesa ma da un soggetto terzo e finalizzato unicamente all'acquisto dell'immobile.

A ciò va aggiunto che, per definizione, nel delitto di appropriazione indebita, il denaro e la cosa mobile altrui di cui il soggetto si appropria non entrano mai a far parte ab origine del suo patrimonio.

Ciò è possibile nella sola ipotesi in cui si costituisca uno specifico vincolo di destinazione. Diversamente il denaro e la cosa mobile altrui risultano destinati a entrare nel patrimonio del soggetto agente, in linea con quanto previsto dalla disciplina civilistica in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili.

Pertanto, ove l'agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero nonostante la richiesta o la scadenza, non provveda alla restituzione, si ha l'appropriazione indebita.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione ha quindi ribadito che la somma versata a titolo di acconto non può di per sé costituire un vincolo di destinazione idoneo a configurare il delitto dell'art. 646 c.p.

Di conseguenza, in difetto del presupposto del reato costituito dall'impossessamento di cosa altrui, in quanto la somma consegnata è fin dall'inizio confluita nel patrimonio dell'accipiens (che ne è divenuto quindi proprietario), si configura, in caso di successiva mancata restituzione del tantundem, una mera questione civilistica.

La Suprema Corte ha preferito quindi dare continuità all'orientamento più garantista, nonostante la formulazione della norma incriminatrice, in particolar modo nell'inciso impossessamento di cosa altrui consenta una più ampia interpretazione rispetto alla nozione civilistica (Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 2010, n. 7770; Cass. pen., Sez. unite, 25 maggio 2011, n. 37954; Cass. pen., Sez. unite, 27 ottobre 2005, n. 1327, Li Calzi).

Si è pertanto discostata da altra decisione (Cass. pen., Sez. II, 21 novembre 2013, n. 48136) in cui però veniva messo in evidenza che, in mancanza della prova che la somma versata fosse a titolo di acconto, valeva il principio per cui la mancata restituzione della “caparra” configurasse il delitto di appropriazione indebita.

Per completezza, va ricordato che la Suprema Corte ha riconosciuto l'operatività dell'art. 646 c.p. e, dunque, la sussistenza di un vincolo di destinazione in fattispecie in cui il denaro veniva consegnato perché fossero estinte delle ipoteche (Cass. pen., n. 47533/2015) o per pagare i diritti doganali (Cass. pen., n. 25281/2016).

Il delitto è stato riconosciuto anche in riferimento alla condotta del trustee che abbia destinato i beni conferiti a finalità proprie o comunque diverse da quelle per cui era stato istituito il negozio fiduciario. Con la precisazione che l'intestazione formale del diritto di proprietà al trustee ha solo la valenza di una proprietà temporanea e funzionalizzata, che non consente pertanto di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva (Cass. pen., Sez. II, 3 dicembre 2014, n. 50672).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.