Danno da cose in custodia: dalla Suprema Corte conferme e importanti precisazioni

Mauro Di Marzio
20 Febbraio 2018

Con tre ordinanze del 1 febbraio 2018, le nn. 2480, 2481 e 2482, sostenute da un apparato motivazionale approfondito e pressoché identico, all'evidente scopo di sottolineare l'univoco rilievo nomofilattico delle decisioni, la III sezione civile della Corte di cassazione prova ad offrire una puntualizzazione — e una importante precisazione — dei principi in materia di responsabilità per danni da cose in custodia, con attenzione specifica alla custodia dei beni demaniali e, tra questi, di quelli di grande estensione, come strade e loro accessori e pertinenze
Le tre fattispecie e il tratto che le accomuna

Uno sventurato ragazzino percorre un viadotto alla guida di un ciclomotore, ne perde — non si sa come — il controllo, il mezzo urta contro il guard-rail, che è conforme alle specifiche tecniche previste ed in normale stato di manutenzione, sicché il conducente, a seguito dell'urto, è proiettato nella sottostante scarpata, perdendo la vita. Una donna attraversa a piedi una strada e, invece di utilizzare uno degli appositi passaggi, percorre un tratto di selciato, fatto di grossi ciottoli, di un canale di scolo delle acque piovane, diremmo una «cunetta», si imbatte in un ciottolo instabile, che al suo passaggio subisce una rotazione, cade e riporta lesioni. Un fondo subisce danni a causa di un allagamento provocato da precipitazioni atmosferiche particolarmente intense, che le opere di canalizzazione poste a servizio della strada e di un sottopasso ferroviario latistanti non riescono ad imbrigliare.

In tutti e tre i casi, ciò che viene in questione è la responsabilità per danni da cose in custodia, ed in particolare la responsabilità in capo ai proprietari delle strade e del sottopasso dai quali il danno, secondo i danneggiati — i congiunti del defunto, la donna rimasta vittima della caduta e la proprietaria del fondo allagato — si sarebbe generato.

I giudici di merito respingono tutte le domande risarcitorie, eccezion fatta, ma solo in primo grado, per quella proposta dai genitori del ragazzo deceduto. In ciascuna delle tre vicende è infine esclusa, in buona sostanza, la responsabilità del custode; nel primo e nel secondo caso perché l'evento è da ascrivere a colpa del danneggiato, il centauro per aver perso il controllo del motociclo, la donna che attraversava per essersi avventurata su un tratto di selciato intuitivamente pericoloso, nel terzo caso perché l'allagamento è da ascrivere ad un eccezionale nubifragio. Il che val quanto dire che in tutti e tre i casi viene riconosciuto il fortuito, giacché, come è noto, e come ribadiscono anche le ordinanze in commento, esso può consistere, oltre che in un evento esterno o nel fatto del terzo, anche nel fatto dello stesso danneggiato.

Mi sembra utile anche segnalare che due delle cause, la seconda e la terza, sono state decise in appello con ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., il che segnala come, secondo le Corti d'appello, le soluzioni adottate in primo grado non richiedessero particolare approfondimento.

E, in effetti, le pronunce di rigetto vengono in prevalenza confermate dalla S.C., o meglio, viene sostanzialmente confermato l'impianto argomentativo che le sostiene, anche se una delle decisioni, l'ultima, è cassata per aver errato nel considerare un nubifragio eccezionale quella che, forse, era stata solo un'abbondante pioggia: difatti, dice la Corte, e mi pare condivisibilmente, che l'eccezionalità delle precipitazioni atmosferiche va desunta da oggettivi dati pluviometrici, non essendo sufficienti atti della pubblica amministrazione (p. es. la dichiarazione dello stato di calamità) che hanno tutt'altro scopo.

La responsabilità per danni da cose in custodia in generale

La S.C. ha per lungo tempo ritenuto che l'art. 2051 c.c., secondo cui ciascuno risponde dei danno cagionati dalle cose che ha in custodia, salva la prova del fortuito, ponesse un'ipotesi non di responsabilità oggettiva, ma di colpa presunta: ovvia ed importante la differenza, giacché, se si tratta di colpa presunta, il custode si libera dimostrando di non essere incorso in colpa e, cioè, di essere stato diligente; se si tratta di responsabilità oggettiva, il custode si libera dando la prova del caso fortuito, ossia, in prima approssimazione, di un evento che interviene ab externo, sia pure anche sotto specie di fatto del terzo o del danneggiato, recidendo il nesso di causalità. Ma, in effetti, è da molto che la S.C. riconduce l'art. 2051 c.c. all'ambito della responsabilità oggettiva, fondata come tale sulla sola sussistenza del nesso di causalità materiale: la sentenza della svolta oggettivista può essere individuata in Cass. civ., 20 maggio 1998 n. 5031, dopodiché si sono alternate decisioni in un senso e nell'altro, ma le ultime che hanno letto nell'art. 2051 c.c. una presunzione di colpa risalgono al 2006-2007 (l'ultima, se non m'inganno, è Cass. civ., 2 febbraio 2007 n. 2308, che, in caso di sinistro cagionato da una strada mal tenuta, ha affermato che l'amministrazione si libera dalla presunzione di colpa dimostrando di aver fatto tutto quanto previsto dalla normativa applicabile), mentre la giurisprudenza successiva si è tutta attestata sul fronte della responsabilità oggettiva (Cass. civ., 27 novembre 2014 n. 25214; Cass. civ., 13 marzo 2013 n. 6306).

Va quindi rammentato che, in un passato ormai remoto, si tendeva ad escludere l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. alla pubblica amministrazione, in particolare nel settore dei sinistri cagionati da irregolarità o anomalie del manto stradale. Come tutti sanno, si faceva applicazione della costruzione pretoria del danno da «insidia o trabocchetto» (pericolo occulto, oggettivamente non visibile e soggettivamente non prevedibile, tale da determinare il danno), inquadrato nell'ambito di applicazione dell'art. 2043 c.c., con il conseguente carico (pressoché integralmente spostato sul danneggiato) degli oneri probatori.

La giurisprudenza ha in seguito modificato questa impostazione, vista da più parti come ingiustificato privilegio riconosciuto alla pubblica amministrazione: è stata così riconosciuta l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. nel caso dei sinistri cagionati dalle strade, ma non si è trattato di un riconoscimento incondizionato, giacché l'oggettiva impossibilità di un controllo costante ed efficace della rete stradale è, come si diceva, un fatto innegabile.

Il banco di prova del nuovo indirizzo, inaugurato da Cass. civ., 13 gennaio 2003 n. 298, è stato quello degli incidenti sulle autostrade. Nella menzionata pronuncia, la S.C., dopo aver ribadito il tradizionale principio secondo cui l'art. 2051 c.c. non si applica a beni di estensione tale da non consentire un'efficace controllo, ha tuttavia aggiunto che, considerate le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico, la norma deve ritenersi applicabile alle autostrade, «per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza». La pronuncia, tuttavia, contiene un'importante distinguo, giacché evidenzia come debbano essere trattate diversamente:

i) le situazioni di pericolo «immanentemente connesso alla struttura o alle pertinenze dell'autostrada» (ad es., irregolarità del manto stradale, insufficienza delle protezioni laterali, segnaletica inadeguata);

ii) le situazioni di pericolo «provocato dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l'incolumità degli utenti e l'integrità del loro patrimonio».

Ebbene, nel primo caso si configura la responsabilità dell'ente ex art. 2051 c.c.; il pericolo provocato dagli stessi utenti o dall'imprevedibile alterazione dello stato della cosa configura per l'appunto, invece, secondo la citata decisione del giudice di legittimità, ipotesi di caso fortuito, a meno che tale pericolo, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimosso o segnalato, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere. Quest'indirizzo è stato successivamente più volte ribadito (Cass. civ., 29 marzo 2007 n. 7763; Cass. civ., 3 aprile 2009 n. 8157; Cass. civ., 20 novembre 2009 n. 24529; Cass. civ., 28 settembre 2012, n. 16542; Cass. civ., 12 marzo 2013, n. 6101; Cass. civ., 27 marzo 2017, n. 7805).

Le regole riassuntivamente affermate

Le ordinanze si propongono di riassumere e sistematizzare una serie di principi formati con riguardo al tema della responsabilità per danni da cose in custodia in generale, ma, a me sembra contengono anche talune precisazioni volte a chiarire alcuni aspetti — uno in particolare, direi — recentemente emersi. Esaminiamo i diversi punti.

Scelta dell'azione. Il danneggiato, agendo in giudizio, deve scegliere se far valere la responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) del preteso danneggiante oppure la sua responsabilità per danno da cose in custodia (art. 2051 c.c.), azioni che presentano distinti tratti caratteristici, presupposti, funzioni ed oneri processuali. Ne discende, può aggiungersi, che il giudice non può perciò accogliere ai sensi dell'art. 2043 c.c. la domanda spiegata ex art. 2051 c.c., e viceversa, e che il passaggio dall'una all'altra domanda determina una radicale innovazione di essa.

Natura della responsabilità. La responsabilità ex art. 2051 c.c. è responsabilità oggettiva, che discende dal rapporto di custodia, in ragione del quale il custode, sulla base di una situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res, ha il potere di controllare la cosa e di eliminare le situazioni di pericolo, sicché è irrilevante accertare se il custode sia o meno incorso in colpa nell'esercitare il proprio potere di vigilanza. Ne discende che la responsabilità sussiste in presenza del solo nesso di causalità tra la cosa e il danno, punto e basta. Viceversa, la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della sua attitudine a recare danno, ai fini della prova del rapporto causale tra l'una e l'altro.

Onere della prova. Quanto precede si riflette sul riparto dell'onere della prova: il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza del nesso causale tra la cosa e il danno, mentre il custode ha l'onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo.

Caratteristiche della cosa. Non importa se la cosa sia o meno pericolosa: può essere del tutto inerte e nondimeno cagionare il danno nell'interazione con la condotta del danneggiato (come nel caso del pedone che incespica su un ciottolo malfermo), così come può essere dotata di un proprio intrinseco dinamismo tale da cagionare il danno senza che la condotta del danneggiante assuma alcun rilievo (come nel caso del passante colpito da un pezzo di cornicione caduto giù da un tetto).

Nesso di causalità. È regolato anche in questa materia dalla disciplina penalistica (artt. 40 e 41 c.p.). Opera il principio della condicio sine qua non, sicché un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. Il principio della condicio sine qua non ed il collegato principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41, comma 1, c.p. (in caso di più cause, tutte vanno considerate determinanti dell'evento), è temperato per un verso dal principio di causalità efficiente, posto dall'art. 41, comma 2 (le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento), per altro verso dal principio della causalità adeguata o regolarità causale, in forza del quale devono addebitarsi all'agente, in questo caso al custode, le sole cause che, secondo una valutazione operata ex ante risultano idonee a determinare l'evento secondo l'id quod plerumque accidit, ossia in base ad un criterio di regolarità. In breve, la sussistenza del nesso di causalità si verifica in termini di «ordinaria rapportabilità causale».

Verifica oggettiva della causalità adeguata o regolarità causale. Il controllo sul punto va effettuato non già chiedendosi se il custode potesse soggettivamente prevedere l'evento (altrimenti si ricadrebbe nella valutazione di un profilo di colpa), ma se esso fosse prevedibile in termini oggettivi, e cioè in base a regole statistiche o scientifiche applicabili.

Caso fortuito. Il caso fortuito è ciò che non può prevedersi. La forza maggiore è ciò che non può evitarsi. Anche la condotta del danneggiato può integrare il caso fortuito ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell'art. 2051 c.c., ma — dice la S.C., riprendendo Cass. civ., 31 ottobre 2017, n. 25837 — «solo purché abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode». Requisiti che devono simultaneamente sussistere. Questo è il punto con riguardo al quale mi pare la Corte, nelle tre ordinanze in commento, abbia voluto effettuare alcune opportune precisazioni, consigliate dalla perentorietà di un passaggio motivazionale della pronuncia richiamata: «Potremo dunque avere condotte del danneggiato prudenti e imprevedibili, prudenti e prevedibili, imprudenti ed imprevedibili, imprudenti e prevedibili. Le prime due ipotesi non escludono mai la colpa del custode; la terza ipotesi la esclude sempre; la quarta ipotesi può escluderla in parte».

Devo dire che non avrei personalmente utilizzato, per ovvie ragioni, l'espressione «colpa del custode». Ma non è questo il punto. L'aspetto problematico concerne invece il rilievo della prevedibilità della condotta del danneggiato, la quale impedirebbe sempre di escludere — almeno di escludere del tutto — la responsabilità del custode. Ebbene, pensate a questo caso: erigo un'impalcatura intorno alla mia casa perché devo fare dei lavori di tinteggiatura, ma rinvio a domani l'installazione delle paratie laterali di protezione; la cosa è al momento pericolosa, ma a me poco importa, perché vivo in un casale recintato, e su quell'impalcatura non deve nell'imminenza salirci nessuno; nottetempo, invece, un ladro si arrampica sull'impalcatura e precipita giù per l'assenza delle paratie. Ora, che un ladro sfrutti le impalcature per introdursi in una casa e rubare non è certo cosa oggettivamente imprevedibile, le cronache ne sono piene. Dica il lettore: come parrebbe dall'inciso poc'anzi trascritto, il povero ladro con le ossa rotte lo devo ripagare forse, in tutto o in parte, io?

Condotta del danneggiato. Vi sono, come detto, casi in cui la cosa cagiona il danno indipendentemente dalla condotta del danneggiato e casi in cui lo cagiona per l'interazione con la condotta del danneggiato. Nel caso di compresenza di una condotta del danneggiato, questa può rilevare, sul piano eziologico, sotto due aspetti: sia al fine di escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode, ove tale condotta integri gli estremi del fortuito di cui all'art. 2051 c.c.; sia al fine del concorso del fatto colposo del danneggiato, di cui all'art. 1227, comma 1, c.c., concorso che va verificato dal giudice anche di ufficio.

In particolare, quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso. Occorre tener conto, insomma, di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa, dovere per dimostrare la cui sussistenza la S.C. ritiene di doversi dilungare scomodando addirittura l'art. 2 Cost.: ma — mi sentirei proprio di dire — per affermare che ciascuno è responsabile di ciò che fa e che è sotto il suo controllo il codice civile sarebbe bastato ed avanzato. In particolare, aggiunge la Corte, quando manchi l'intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di questa siano agevolmente percepibili, ove la situazione comunque ingeneratasi sia superabile mediante l'adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell'evento, e ritenuto integrato il caso fortuito.

Viene poi precisato — e qui la precisazione riguarda evidentemente la già citata Cass. civ., 31 ottobre 2017, n. 25837 — che la disattenzione da parte del danneggiato è sempre prevedibile come evenienza, ma la stessa cessa di esserlo — ed elide il nesso causale con la cosa custodita — quando risponde alla inottemperanza ad un invece prevedibile dovere di cautela da parte del danneggiato in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Sicché, nell'ipotetica causa di risarcimento del danno intentatami dal povero ladro caduto dall'impalcatura credo che, con tali precisazioni, avrei discrete possibilità di cavarmela.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario