La riscossione di un credito con violenza o minaccia integra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni o quello di estorsione?

23 Febbraio 2018

Come si distingue il reato di estorsione da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni? E più specificamente: nel caso di condotte violente o minacciose volte ad ottenere un pagamento, va sempre esclusa la configurabilità del delitto di estorsione?
Massima

Nel caso di riscossione di un credito con violenza o minaccia è configurabile il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni: a) una finalità costrittiva dell'agente, volta non già a persuadere, ma ad annullare le capacità volitive della vittima; b) l'estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare o di accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l'esazione del credito altrui; c) una condotta minacciosa o violenta rivolta al recupero del credito, diretta nei confronti non soltanto del debitore, ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale.

Il caso

La Corte di appello, riformando parzialmente la sentenza del tribunale, condannava gli imputati per il reato di estorsione e di lesioni dolose (nonché uno di essi anche per quello di porto abusivo di arma da sparo). Essi, infatti, dopo aver richiesto in più occasioni, con minacce, il pagamento di un credito, si facevano consegnare dalla persona offesa la somma di € 600,00, venendo arrestati in flagranza.

Avverso questa decisione, gli imputati proponevano ricorso per cassazione, deducendo, tra l'altro, che la condotta dovesse essere ricondotta alla fattispecie dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, prevista dall'art. 393 c.p., ovvero a quella della violenza privata, punita dall'art. 610 c.p., piuttosto che a quella più grave di estorsione ritenuta nella sentenza impugnata, perché la persona offesa non aveva smentito la richiesta di soddisfazione del credito, che sarebbe stata avanzata, anche per interposta persona, da uno degli imputati. Il delitto di estorsione, infatti, non si differenzia da quello di esercizio arbitrario per le modalità dell'azione posta in essere, ma solo in ragione dell'elemento soggettivo, in quanto, nel secondo caso, l'agente mira a soddisfare un proprio diritto. La mancanza di un documento che dimostrasse l'esistenza del credito preteso, in particolare dell'emissione di una fattura a fronte di una qualche prestazione, sarebbe del tutto irrilevante, in quanto la sua sussistenza non sarebbe stata contestata.

La questione

La sentenza ha affrontato una questione ricorrente nella pratica: Come si distingue il reato di estorsione da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni? E più specificamente: nel caso di condotte violente o minacciose volte ad ottenere un pagamento, va sempre esclusa la configurabilità del delitto di estorsione?

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha osservato che le doglianze proposte dai ricorrenti, in quanto dirette ad ottenere la riqualificazione della condotta nei termini dell'art. 393 c.p. e, consistendo, dunque, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., nella deduzione di un difetto della motivazione della sentenza di appello, avrebbero dovuto fare emergere una manifesta illogicità o una contraddittorietà della pronuncia impugnata in relazione all'assenza del diritto esercitato. Non è sufficiente, infatti, la semplice contrarietà di qualche argomento speso nella motivazione rispetto ad alcuno degli elementi di prova.

A tal proposito, ai fini del controllo di legittimità, la sentenza di appello, che conferma quella di primo grado, si salda con quest'ultima, formando un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima pronuncia, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. pen., n. 44418/2013).

Nel caso in esame, il ragionamento seguito dalla sentenza impugnata non presenta detto vizio, in quanto, «a fronte di deposizioni testimoniali che introducevano principi di prova circa l'esistenza del credito», sono stati sottolineati altri dati di fatto che deponevano per l'insussistenza di tale credito, come la circostanza che si facesse riferimento ad una vicenda che risaliva a ben sette anni prima, l'assenza in questo lungo frangente temporale di qualsiasi iniziativa per il recupero del credito e la mancata emissione di una fattura per l'importo preteso.

Sulla base di tali profili, secondo la Corte, il giudice di merito, con una valutazione che rispetta l'obbligo di motivazione e, quindi, non è censurabile in Cassazione, ha qualificato il fatto come estorsione, affermando la natura del tutto illecita della richiesta di pagamento degli imputati ed escludendo che potesse fondarsi su una precedente ragione di credito.

La Corte di appello, pertanto, ha applicato l'indirizzo giurisprudenziale consolidato secondo cui il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all'autorità giudiziaria del preteso diritto cui l'azione del reo era diretta, giacché tale requisito deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo (Cass. pen., n. 52525/2016).

A questa considerazione, la Corte ha aggiunto che, anche a voler ritenere sussistente il credito e dunque, focalizzando l'attenzione sulle modalità adoperate per sollecitare il pagamento di un presunto debito derivante dalla fornitura di materiale edile, il fatto dovrebbe comunque qualificarsi come estorsione.

Nel caso in cui ad una iniziale richiesta di adempimento effettuata con minaccia o violenza nei riguardi del debitore, inquadrabile nell'ipotesi di cui all'art. 393 c.p., seguano ulteriori condotte di minaccia e di violenza poste in essere da terzi, che perseguano anche un interesse personale e che impieghino modalità particolarmente intense ovvero si rivolgano a soggetti diversi dalla vittima, ma ad essa variamente collegati, la pretesa inizialmente riconducibile al parametro dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni si trasforma in richiesta estorsiva, sia per la forma di esercizio, sia per l'estraneità dei soggetti minacciati od aggrediti rispetto al rapporto originario. È configurabile il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, pertanto, anche nel caso di esazione violenta o minacciosa di un credito in presenza di una delle seguenti condizioni: a) la sussistenza di una finalità costrittiva dell'agente, volta non già a persuadere, ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive; b) l'estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare o di accrescere il proprio prestigio criminale per mezzo dell'esazione con violenza e minaccia del credito altrui; c) la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito diretta nei confronti non soltanto del debitore, ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale (Cass. pen., n. 11453/2016).

Nel caso in esame, la Corte rileva la sussistenza di tutti i predetti requisiti che consentono comunque di affermare l'illiceità ex art. 629 c.p. della condotta degli imputati, in quanto la vittima è stata aggredita fisicamente e minacciata più volte; è stata convocata presso un esercizio pubblico per versare una somma in denaro contante così da annullarne qualsiasi capacità volitiva; è stata attuata una condotta di appostamento nei confronti di sua moglie e di suo figlio; l'azione per la riscossione del credito è stata posta in essere da parte di soggetti ad esso del tutto estranei al supposto rapporto negoziale; la condotta minacciosa e violenta è stata compiuta nei riguardi non soltanto della persona offesa, ma anche dei suoi familiari, che comunque dovevano considerarsi del tutto estranei a ogni preteso rapporto debitorio.

Secondo la Corte, poi, correttamente il giudice di merito ha ritenuto configurabile la consumazione del reato di estorsione e il non mero tentativo di tale delitto. Il bene estorto, infatti, è stato consegnato dal soggetto passivo all'estorsore. Tanto vale a permettere di ravvisare la consumazione del reato anche nelle ipotesi in cui fosse già stato previsto l'intervento della polizia giudiziaria, che difatti ha immediatamente tratto in arresto il reo, restituendo il bene all'avente diritto (Cass. pen., n. 27601/2009).

Nel caso in esame, inoltre, ricorre la circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, essendo stata dimostrata la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia (Cass. pen.,Sez. unite, n. 21837/2012).

L'attenuante di cui all'art. 114 c.p. invocata da uno degli imputati, invece, è stata correttamente esclusa, avendo il giudice di merito ravvisato la prova del carattere essenziale del contributo fornito proprio da costui all'attività ininterrotta di intimidazione ai danni della vittima, così come pure è stata validamente esclusa l'attenuante del danno tenue, in quanto la somma illecitamente ottenuta è di importo non marginale.

Nessun fondamento, infine, è stato riconosciuto alla richiesta dell'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6 c.p., che non era stata avanzata nei motivi di appello, né avrebbe potuto dal momento che la transazione, cui ha fatto seguito la rinuncia alla costituzione di parte civile, è stata formalizzata soltanto all'udienza fissata per la trattazione dibattimentale in appello. In ogni caso il motivo è manifestamente infondato. Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, infatti, nei delitti contro il patrimonio può essere riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n.6 c.p. solo nel caso in cui il reo abbia riparato interamente il danno mediante il risarcimento dello stesso o le restituzioni, mentre non può essere applicata la fattispecie di cui alla seconda parte della citata disposizione dell'attivo ravvedimento concernente l'elisione o l'attenuazione delle conseguenze del reato che non consistono in un danno patrimoniale o non patrimoniale economicamente risarcibile (Cass. n. 49348/2016; Cass. n. 2970/2010).

Osservazioni

La sentenza in esame ha aderito all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l'azione violenta o minacciosa che, indipendentemente dall'intensità e dalla gravità della violenza o della minaccia, abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (Cass. pen.,8 maggio 2017, n. 24478; Cass. pen.,15 maggio 2015, n. 23765; Cass. pen.,16 gennaio 2014, n. 16658, in una fattispecie in cui la violenza o la minaccia era stata rivolta nei confronti del padre del debitore, per ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale, facendo valere, quindi, una pretesa non è tutelabile dinanzi l'Autorità giudiziaria).

Il delitto di cui all'art. 393 c.p. e quello di estorsione, alla stregua di questa impostazione, non si distinguono per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l'elemento intenzionale. Qualunque sia stata l'intensità e la gravità della violenza o della minaccia integra la fattispecie estorsiva quando abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (Cass. pen., 20 dicembre 2016, n. 1901; Cass. pen., 25 settembre 2014,n. 42940). Pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, pertanto, i suddetti reati si differenziano in relazione all'elemento psicologico del reato, in quanto, nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia (Cass. n. 46288 del 28/06/2016, in Ced Cass. n. 268361).

La sentenza in commento si segnala anche perché ha recepito pure un diverso orientamento - sottendendo che non si pone necessariamente in contrasto con il precedente - secondo cui è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche quando la minaccia di esercitare un diritto, sebbene non ingiusta in sé, sia realizzata con tale forza intimidatoria e tale sistematica pervicacia da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto stesso (Cass. pen. 25 marzo 2015, n. 17785; Cass. pen.,10 febbraio 2015, n. 9759).

Al riguardo, è stato affermato che la condotta minacciosa, la quale si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, provoca una coartazione dell'altrui volontà che assume di per se i caratteri dell'ingiustizia, trasformandosi in un'azione estorsiva (Cass. pen., 8 ottobre 2015, n. 44657, in una fattispecie, peraltro, in cui la S.C. ha ravvisato il delitto di estorsione nelle condotte violente e minacciose poste in essere dagli imputati nei confronti delle diverse persone offese - per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria - finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall'acquisizione della percentuale concordata come "tangente" per la riscossione delle somme).

A questa impostazione sembra sottesa la considerazione secondo cui, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma strettamente connesse alla condotta dell'agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, consistenti addirittura in sevizie (Cass. pen., 2 dicembre 2003, n. 10336).

Provando a schematizzare, allora, nella sentenza in esame è stato specificato che il delitto di estorsione è configurabile anche nel caso di esazione di un credito con violenza o con minaccia in presenza di determinate condizioni come:

  1. una finalità costrittiva dell'agente, che mira non già a persuadere, ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive;
  2. l'estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare o di accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l'esazione con violenza e minaccia del credito altrui;
  3. la condotta minacciosa e violenta tesa al recupero del credito e diretta nei confronti non soltanto del debitore, ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale, come per esempio familiari della vittima (Cass. pen., 17 febbraio 2016, n. 11453).

Sviluppando ulteriormente questo indirizzo, allora, è stato affermato che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza e minaccia alle persone e quello di estorsione non si distinguono in base all'esistenza o meno di una legittima pretesa creditoria, che costituirebbe, in buona sostanza, un dato di fatto non decisivo ai fini della qualificazione dell'azione. Occorre invece fare riferimento alle modalità oggettive della richiesta di pagamento, dovendo ravvisarsi il delitto di estorsione anche quanto le condotte minacciose o violente si manifestano in una forma di tale intensità da trasformare una legittima richiesta di restituzione in un ingiusto profitto (Cass. pen., 7 febbraio 2017, n. 11823, in una fattispecie in cui la Corte ha confermato la qualificazione della condotta quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rilevando che le minacce non avevano raggiunto la soglia di gravità necessaria per coartare la volontà del soggetto passivo).

In questo orientamento, rivolto in ultima istanza ad ampliare l'area del delitto di estorsione a scapito di quella del reato punito dall'art. 393 c.p., si possono inscrivere numerose recenti decisioni, che appare utile illustrare per meglio cogliere la portata dell'indirizzo giurisprudenziale. In particolare, secondo Cass. n. 51013 del 21/10/2016, integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell'altrui volontà assume di per se i caratteri dell'ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva; Cass.n. 41452 del 19/07/2016, in Ced Cass. n. 268537, pertanto, ha ritenuto immune da censure la qualificazione del fatto come estorsione, pur in presenza di un debito delle persone offese per la corresponsione del canone di locazione di un terreno; Cass. pen., 27 aprile 2016, n. 41433, ha ravvisato il reato estorsivo in una fattispecie in cui l'adempimento di un debito era stato richiesto per conto del creditore dagli esponenti di una famiglia camorristica; Cass.pen., 18 dicembre 2015, n. 1921, ha ravvisato il delitto di tentata estorsione in considerazione della condotta particolarmente violenta posta in essere nei confronti della persona offesa dagli esecutori materiali per conto della imputata, condotta, peraltro, finalizzata non solo al recupero del credito originario, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto; Cass. pen., 25 marzo 2015,n. 17785, ha qualificato come estorsione la condotta consistita nell'incendio di una stalla e nell'uccisione degli animali che vi erano custoditi, posta in essere dal dominus della società comproprietaria del terreno su cui insisteva tale struttura, al fine di indurre l'altro comproprietario, che aveva l'esclusiva disponibilità di tale porzione del fondo, a stipulare un contratto di vendita della sua quota in esecuzione di un precedente preliminare, così determinando detto soggetto ad abbandonare completamente l'immobile; Cass. pen., 10 febbraio 2015, n. 9759, in una fattispecie in cui l'imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito.

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