Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 18 - Il ricorso 1 2 .1. Il processo è introdotto con ricorso alla corte di giustizia tributaria di primo grado. 2. Il ricorso deve contenere l'indicazione: a) della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado cui è diretto; b) del ricorrente e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale e dell'indirizzo di posta elettronica certificata 3; c) dell'ufficio [del Ministero delle finanze o dell'ente locale o del concessionario del servizio di riscossione] nei cui confronti il ricorso è proposto 4; d) dell'atto impugnato e dell'oggetto della domanda; e) dei motivi. 3. Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore e contenere l'indicazione: a) della categoria di cui all'articolo 12 alla quale appartiene il difensore; b) dell'incarico a norma dell'articolo 12, comma 7, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente; c) dell'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore 5. 4. Il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale e all'indirizzo di posta elettronica certificata, o non è sottoscritto a norma del comma precedente 6. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 64 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Lettera modificata dall'articolo 2, comma 35-quater, lett. a) del D.L. 13 agosto 2011, n. 138. [4] Lettera modificata dall'articolo 9, comma 1, lettera m), numero 1), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. [5] Comma modificato dall'articolo 69, comma 3, lettera c), del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 e successivamente sostituito dall'articolo 9, comma 1, lettera m), numero 2), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. [6] Così rettificato con Comunicato 27 marzo 1993 (in Gazz. Uff. 27 marzo, n. 72) e successivamente modificato dall'articolo 2, comma 35-quater, lett. b) del D.L. 13 agosto 2011, n. 138. InquadramentoLa disposizione contiene la disciplina delle forme del ricorso, cioè dell'atto con il quale si introduce il processo tributario. Tra i requisiti prescritti dalla norma, l’oggetto ed i motivi della domanda, corrispondenti alle tradizionali categorie del petitum e della causa petendi, sono due elementi essenziali del ricorso (GUARNIERI-SPACCAPELO, 357; GLENDI, 491 ss.; BELLAGAMBA, 101 ss.), che segnano, per la parte del ricorrente, il thema decidendum, già delimitato, per la parte dell’ente impositore, dall’atto e dalla pretesa in esso contenuta. Ancora di recente la Suprema Corte, Cass. trib., n. 9832/2023, ha ribadito l’inammissibilità della deduzione in successiva memoria di un nuovo motivo di illegittimità dell'atto impugnato, in quanto il processo tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dai motivi di impugnazione avverso l'atto impositivo dedotti con il ricorso introduttivo, i quali costituiscono la causa petendi entro i cui confini si chiede l'annullamento dell'atto, che soggiacciono a preclusione di integrazione, salvo sia resa necessaria dal deposito di documenti (i c.d. motivi aggiunti), sicché, in termini generali, come insegna Cass. III, n. 19958/2013, l'originario thema decidendum può mutare solo per un'eventuale emendatio libelli che incida sul petitum, ampliandolo o limitandolo unicamente per adeguarlo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa avanzata, oppure incida sulla causa petendi, modificandone esclusivamente l'interpretazione o la qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto. Per contro, l’ufficio resistente non può modificare, integrare, o sostituire in corso di causa i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa evidenziati nell'avviso di accertamento o di liquidazione e non può invocare a fondamento delle proprie pretese ragioni diverse da quelle contenute nella motivazione dell’atto impositivo (Cass. trib. n. 7698/2024; Id. n. 20933/2022; Id., n. 13163/2019). Tanto meno il giudice può sostituire alla pretesa impositiva contenuta nell’atto una nuova pretesa, posto che, come insegna Cass. trib., n. 502/2022, il giudice tributario deve limitarsi a verificare la legittimità dell'atto impositivo senza operare, pena il vizio di ultrapetizione, una immutazione della fattispecie sottoposta al suo esame, essendo precluso al giudicante il potere amministrativo tributario sostanziale spettante all'amministrazione finanziaria (Cass., n. 9901/2020; Id. n. 13490/2019; Id., n. 1902/2017). Anche in occasione di riunione dei procedimenti, il provvedimento di riunione di più cause lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni. Da qui conseguendo che la congiunta trattazione di plurimi ricorsi lascia integra la loro identità, tanto che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve nella somma di altrettante pronunce quante sono le cause decise, mentre la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione a ciascun giudizio, atteso che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza (Cass. I, n. 15860/2014). La riunione di più cause originariamente separate, in ragione della connessione di petitum e causa petendi propri di ciascuna di esse o della identità delle questioni da trattare, non comporta il venir meno dell'autonomia dei singoli giudizi e dei rispettivi titoli, di modo che la sentenza che li definisce, pur se formalmente unica, consta in realtà di tante pronunce quante sono le cause riunite (Cass. II, n. 24086/2010). Il ricorso tributario si caratterizza per la sola presenza della edictio actionis — cioè del petitum e della causa petendi — mentre manca invece la vocatio in ius (Tesauro, 2013, 143; Finocchiaro, Finocchiaro, 365) con schema similare al processo amministrativo (Falsitta, 364). Oggetto e natura del processo tributarioLa dottrina si divide in modo radicale su quello che dovrebbe essere l'oggetto e quindi anche su quella che dovrebbe essere la natura del processo tributario. Secondo i sostenitori della teoria costitutiva oggetto del processo tributario è l'annullamento totale — o parziale — dei provvedimenti fiscali di cui all'art. 19. Intesi quindi — i provvedimenti fiscali — quali atti amministrativi, nell'eventualità illegittimi perché non conformi a legge, sia sotto il profilo del mancato rispetto delle norme procedimentali che disciplinano l'agire dell'amministrazione, sia sotto il profilo del mancato rispetto delle norme sostanziali sull'imposizione . Per questi autori il processo tributario, ha, dunque , natura impugnatoria come quello amministrativo (Glendi, L'oggetto del processo tributario, passim; Tesauro, 2013, 10, 143; Falsitta, Manuale, I, 582). Al contrario, per i sostenitori della teoria dichiarativa oggetto del processo tributario è l'accertamento della esistenza o meno della obbligazione fiscale. Per questi autori il processo tributario è un processo di cognizione nella sostanza analoga a quella del processo civile ordinario (Fantozzi, Il diritto tributario, 706; Russo, Manuale, 465). In giurisprudenza è invece risalente e consolidata l'affermazione secondo cui i provvedimenti fiscali possono essere impugnati sia per vizi di forma — dai quali deriva l'annullamento dell'atto — e sia nel merito per far accertare an et quantum della obbligazione tributaria (Cass. V, n. 23326/2013; Cass. V, n. 21779/2012; Cass. V, n. 19337/2011). Superata la visione di una proiezione meramente processuale dell'atto impositivo inteso quale mera provocatio ad opponendum in favore del riconoscimento della sua valenza sostanziale di atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l'amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria (Basilavecchia 77, Cass. SS.UU. n. 19854/2004), è andata consolidandosi in giurisprudenza la visione dell'impugnazione-merito. Per la quale, fermo restando che l'accesso alla tutela avviene tramite l'impugnazione di un atto, si distingue, tuttavia, tra i motivi relativi ai vizi di legittimità (in relazione alla norme procedimentali) e i motivi relativi ai vizi di merito (in relazione alle norme sostanziali), con l'effetto che, nel primo caso, se i detti vizi di legittimità sussistono, il giudice annullerà l'atto, e, nel secondo caso, se viene accertata la fondatezza, in tutto o in parte, della pretesa, la sentenza del giudice sostituirà l'atto impugnato (Cass. V, n. 29364/2020, Id., n. 13294/2016; Id., n. 19750/2014; Id. n. 6918/2013). Come sintetizzato, ad es., da Cass., sez. trib., n. 18250/2021, il processo tributario è «diretto non alla mera eliminazione (giuridica) dell'atto impugnato ma, estendendosi la cognizione al rapporto d'imposta, alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione del contribuente sia dell'accertamento dell'amministrazione finanziaria», da cui «discende che, qualora il giudice tributario reputi invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullarlo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e ricondurla alla misura corretta, entro i limiti posti dalle domande di parte». Non considerandosi, tuttavia, che l'annullamento può ben essere anche parziale, e lo può essere ogni qual volta il giudice elimina e priva di effetto l'atto impugnato nella parte non rispettosa delle regole sostanziali di applicazione del tributo. Trattasi di una differenza di vedute foriera di conseguenze non da poco, sia sotto il profilo della sostituzione dei poteri dell'autorità giudiziaria ai poteri dell'autorità amministrativa, per la verità non contemplata dal nostro ordinamento, sia per le conseguenze operative che ne derivano, tra le quali, ad es., si può ricordare l'applicabilità dell'art. 2953 c.c. sulla conversione del termine breve di prescrizione in termine decennale a seguito dell'actio iudicati. Le domande riconvenzionali La prevalente dottrina esclude che l'ufficio a seguito della proposizione del ricorso all'esame possa chiedere — secondo quanto previsto dall'art. 36 c.p.c. per la domanda riconvenzionale - l'accertamento di pretese tributarie ulteriori rispetto a quella di cui al provvedimento impugnato. La tesi è coerente con la anzi veduta teoria costitutiva per la quale il processo tributario sarebbe stato soltanto predisposto all'annullamento totale — o anche parziale — del provvedimento fiscale impugnato (Glendi, 1984, 539; Bafile, 128). E non a caso gli autori che sono stati invece disponibili ad ammettere la «domanda riconvenzionale dell'ufficio» fanno riferimento alla contraria teoria dichiarativa per cui — essendo oggetto del giudizio tributario l'accertamento della pretesa fiscale — allora può ritenersi possibile da parte dell'amministrazione ampliare la cognizione sul rapporto tributario quantomeno nei limiti stabiliti dal ridetto art. 36 c.p.c. (Bellagamba, 127). In giurisprudenza la possibilità di una «domanda riconvenzionale dell'ufficio» è stata riconosciuta — oltre che a seguito di opposizione a ingiunzione fiscaleex art. 3 r.d. 14 aprile 1910, n. 639 (Cass. S.U., n. 10189/1994; Cass. V, 27027/2006) — anche a seguito di opposizione a ingiunzione doganale ex art. 82 d.P.R. n. 43/1973 (Cass. n. V, 22792/2011; Cass. V, n. 14812/2010). L'affermazione è stata fondata dalla rammentata giurisprudenza sulla peculiare natura del procedimento introdotto con le opposizioni a ingiunzione fiscale e doganale, le quali opposizioni all'ingiunzione darebbero in thesi ingresso a un giudizio di cognizione sulla pretesa tributaria nella sostanza identico a quello di cognizione ordinaria. Eccettuate le sopra ricordate peculiari risalenti fattispecie delle opposizioni alle ingiunzioni fiscali e doganali, viene escluso che l'ufficio possa far estendere la cognizione a pretese tributarie diverse da quelle fatte valere con il provvedimento contro il quale è stato promosso ricorso ex art. 18. La rammentata giurisprudenza — in consonanza alla prevalente dottrina — giustifica la soluzione in ragione della natura impugnatoria del processo tributario, ricavabile da numerose previsioni, come, ad es., quella di cui all'art. 18, comma 2, lett. b), che prescrive l'obbligatoria indicazione dell'atto impugnato (Cass. n. 7407/2001). Dalla natura impugnatoria del processo tributario la giurisprudenza fa discendere, anche con riferimento alle domande di rimborso, il generalizzato divieto di domande riconvenzionali (Cass. V, n. 4145/2013; Cass. V, n. 20516/2006; Cass. V, n. 4334/2002). Deve, pertanto, ritenersi ormai consolidato nel processo tributario il principio del «divieto di domanda riconvenzionale da chiunque proposta». Tale esito appare difforme rispetto ai risultati raggiunti, sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza, nei procedimenti speciali di cognizione civile ai quali viene in genere riconosciuta natura impugnatoria, come, per es., quello di opposizione a decreto ingiuntivo (Mandrioli, 15), laddove difatti all'opponente — in ragione della sua sostanziale posizione di convenuto — viene normalmente permessa la proposizione di domande riconvenzionali (Mandrioli, III, 37; conforme la giurisprudenza civilistica, v. Cass. VI, n. 272/2015; Cass. VI n. 3870 del 2014). Tuttavia, non vi è dubbio che il processo tributario, introdotto, come detto, attraverso l'impugnazione di un atto impositivo, sia tutt'altro rispetto al procedimento monitorio relativo al rapporto tra creditore-debitore di diritto privato filtrato dalla pronuncia di ingiunzione emessa dal giudice su istanza del creditore. Le eccezioni riconvenzionali Le eccezioni riconvenzionali — secondo la dottrina che ha riconosciuto la categoria — avrebbero contenuto identico a quello delle domande riconvenzionali. E questo perché le eccezioni riconvenzionali — come le domande riconvenzionali — potrebbero fondare un'azione autonoma. Le eccezioni riconvenzionali differirebbero in realtà dalle domande riconvenzionali esclusivamente per un elemento formale, cioè perché le stesse sarebbero sollevate soltanto per ottenere il semplice rigetto della domanda dell'attore (Mortara, 106; Satta, 50). Secondo la teoria costitutiva che come ricordato concepisce il processo tributario in modo identico a quello amministrativo — cioè come unicamente predisposto alla impugnazione di atti fiscali — non può quindi per es. ammettersi la possibilità per il contribuente di opporre un credito d'imposta per far dichiarare l'annullamento dell'impugnato avviso di accertamento in assenza di un provvedimento di rigetto anche tacito dell'istanza di rimborso (Turchi, 352). Al contrario secondo la teoria dichiarativa - per la quale l'oggetto del processo tributario sarebbe la fondatezza o meno dell'obbligazione tributaria — si dovrebbe invece consentire al contribuente di opporre in un credito fiscale anche in assenza di un provvedimento espresso o tacito di rigetto dell'istanza di rimborso (Girelli, 283). Sotto altra prospettiva, ovvero guardando al profilo dell'emendabilità della dichiarazione, in quanto mera dichiarazione di scienza, è stata riconosciuta in giurisprudenza la possibilità di opporre un credito d'imposta in caso, appunto, di errore o omissione nella dichiarazione. Pur con qualche iniziale contrasto (in senso affermativo, v. Cass. V, n. 373/2016; Cass. V, n. 21740/2015; contrarie, Cass. V, n. 20415/2014; Cass. V, n. 5373/2012), infine, risolto nel senso che è sempre possibile in sede giudiziale far valere un credito per paralizzare l'accertamento della pretesa fiscale (Cass. S.U., n. 13378/2016, secondo cui «il contribuente, indipendentemente dalle modalità e dai termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dall'art. 2, D.P.R. n, 322del 1998 e dall'istanza di rimborso di cui all'art, 38, D.P.R. n. 602 del 1973, in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull'obbligazione tributaria»). Il cumulo di ricorsi — o ricorso cumulativo — e il ricorso collettivo Le cause sono identiche quando hanno in comune tutti gli elementi costitutivi. E cioè quando sono identiche le parti, la causa petendi e il petitum e in questo modo dando luogo alla litispendenza tra cause o a continenza quando per es. il solo petitum è chiesto in misura minore (Mandrioli, I, 152). Quando invece le cause hanno in comune uno o più elementi — ma non tutti — si dicono connesse. Sono connesse soggettivamente le cause tra parti identiche ma che hanno diversi il titolo e il petitum. Sono invece connesse oggettivamente le cause che hanno in comune il titolo o il petitum - o anche le cause che hanno in comune identiche questioni di fatto o diritto dalle quali dipende la decisione cosiddetta connessione oggettiva impropria — in cui però le parti sono diverse (Mandrioli, I, 175). Si pone allora il problema — fuori dell'ipotesi di litisconsorzio necessario invero espressamente regolato dall'art. 14 — se anche nel processo tributario cause connesse per il titolo o l'oggetto o le parti o per connessione oggettiva impropria possono essere proposte con uno stesso ricorso come in effetti si ricava per la cognizione civile ordinaria dagli artt. 31 ss. che disciplinano la connessione e dagli 103 ss. c.p.c. che disciplinano il litisconsorzio facoltativo. Si pone cioè il problema se in un unico ricorso il contribuente possa cumulare più impugnazioni di differenti atti fiscali — dando così luogo a un cumulo oggettivo di cause connesse soggettivamente — e se con unico ricorso più contribuenti possano impugnare un solo atto dando così luogo a un cumulo di parti per connessione oggettiva. Anche in relazione dell'implicito riconoscimento contenuto nella disciplina della riunione di cause identiche o connesse proposte davanti alla medesima commissione di cui agli artt. 26 e 29 la dottrina in genere ammette sia il cosiddetto cumulo di ricorsi o ricorso cumulativo - pure nei casi di connessione impropria in cui «gli atti impugnati siano fondati sullo stesso fatto e si pongano identiche questioni di diritto» — e sia il cosiddetto ricorso collettivo «proposto da più soggetti ad es. obbligati in solido contro il medesimo atto» (Tesauro, 2013, 65; Turchi, 353; Pistolesi, 87). La giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, affermato l'ammissibilità nel processo tributario della proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti di accertamento, laddove la legittimità del ricorso cumulativo viene correlata all'operatività nel quadro del processo tributario dell'art. 104 c.p.c., secondo cui «contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse» (Cass. V, n. 16284/2021, che richiama Cass. V n. 4490/2013; Id. n. 10578/2010; Cass. SS.UU. n. 3692/2009; Cass. n. 19666/2004 e n. 7359/2002). L'applicabilità di tale disposizione al processo tributario viene fatta derivare dal rinvio operato dall'art 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 alle norme del codice di procedura civile, per quanto non disposto dal decreto e nei limiti della loro compatibilità con le norme del c.p.c. Secondo la medesima giurisprudenza, «se è da ritenere ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti, occorre tenere presente che con un unico ricorso sono ammesse una pluralità di domande anche non connesse tra loro», derivandone che «le singole questioni trattate con unico ricorso rimangono autonome ed hanno, alla conclusione del giudizio, una loro autonoma definizione, con riferimento specifico all'obbligazione tributaria portata da ciascun atto impugnato che può essere riferita anche a diverse annualità di imposta». In giurisprudenza, ritenendosi, altresì, applicabile al processo tributario l'art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo, sempre in forza del rinvio di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546 alle norme del c.p.c., parimenti si riconosce senza difficoltà anche il ricorso collettivo per cui è ammissibile la proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche in relazione a distinti atti, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa (in applicazione dell'enunciato principio, Cass. V n. 7940/2016 ha ritenuto ammissibile un ricorso collettivo e cumulativo, contenente identica contestazione, avverso diverse cartelle di pagamento emesse nei confronti di distinti contribuenti per il pagamento del canone televisivo dell'anno 2005 e tale indirizzo deve ritenersi ormai consolidato. Cfr. Cass V. n. 8094/2023; Id. n.33153/2023). Ricorso cumulativo e ricorso collettivo e inderogabilità della competenza tributaria per litispendenza o connessione Nell'ambito della giurisdizione tributaria, per evidenti ragioni pratiche, opera una ripartizione tra giudici - come del resto avviene nella giurisdizione ordinaria e nelle altre speciali - determinata dalla competenza di ciascun organo giudicante. La ripartizione di competenza, in generale, viene risolta attraverso il ricorso a taluni criteri di collegamento tra giudice e controversia e tra giudice e parti che fanno riferimento alla materia, al valore, al territorio e alla funzione. Nella sostanza la disciplina della competenza è una tecnica di divisione del lavoro tra i diversi giudici appartenenti alla stessa giurisdizione (Mandrioli, I, 229). Nel processo tributario il criterio di ripartizione della competenza delle Corti di giustizia tributaria è individuato dall'art. 4, d.lgs. n. 546/1992, attraverso l'unico parametro di collegamento del territorio. Tra le Corti di giustizia tributaria la misura della giurisdizione è, pertanto, ripartita soltanto a mezzo della competenza per territorio. A tal fine non rileva l'introduzione, ad opera della l. 31 agosto 2022, n. 130, del giudice monocratico, in quanto, sebbene l'art. 4-bis, introdotto nel d.lgs. n. 546/1992 si intitoli «competenza del giudice monocratico», tuttavia si tratta di una diversa modalità di composizione del giudice e non di un criterio di ripartizione di competenza. Tanto è vero che, qualora il giudice al quale è assegnato il ricorso ravvisa che la composizione avrebbe dovuto essere collegiale (o viceversa), non si applica il successivo art. 5, ma si applica quanto disposto dall'art. 6, comma 1-ter d.lgs. n. 545/1992 (novellato dalla l. n. 130/2022) ovvero la rimessione al Presidente della Sezione perché provveda al rinnovo dell'assegnazione. Ai sensi degli artt. 31 ss. c.p.c. nel processo civile ordinario litispendenza e connessione — v. supra - costituiscono criteri attributivi della competenza in deroga a quelli ordinari. Sorge allora il problema di stabilire se anche nel processo tributario la competenza per territorio disciplinata dall'art. 4 possa essere derogata in caso di ricorsi identici o connessi proposti davanti a commissioni tributarie diverse. Sorge cioè il problema di stabilire se ricorsi identici o connessi possano essere riuniti davanti a una Corte di giustizia tributaria che per gli stessi sarebbe ai sensi dell'art. 4 territorialmente incompetente. In genere la dottrina — e particolarmente la dottrina che sulla scorta della teoria costitutiva concepisce il processo tributario come solo di impugnazione di atti similmente a quello amministrativo — fonda la tesi contraria sulla osservazione che ai sensi dell'art. 5 la competenza territoriale delle commissioni tributarie ha carattere funzionale inderogabile come del resto è tipico dei processi impugnatori, pertanto l'annullamento o meno del provvedimento fiscale non può che essere deciso dal giudice funzionalmente competente, restando la detta competenza funzionale, pertanto, insensibile alla deroghe previste dal codice di procedura civile per ragioni di litispendenza o connessione di cause. Secondo questi autori la riunione in ipotesi di litispendenza o connessione sarebbe quindi consentita — come del resto espressamente previsto dall'art. 29 — esclusivamente quando ricorsi identici o connessi pendano davanti alla stessa Corte di giustizia tributaria per tutti territorialmente competente ai sensi dell'art. 4 . E questo proprio perché — in queste fattispecie — non viene implicata alcuna modifica alla competenza territoriale inderogabile fissata dagli artt. 4 e 5 (Turchi, 338; a risultati analoghi, ma con diverso percorso, Glendi , 1984, 520). Nello stesso senso, dalla giurisprudenza mai è stato riconosciuto che nel processo tributario la litispendenza e la connessione possano modificare la competenza inderogabile stabilita dagli artt. 4 e 5, d.lgs. n. 546/1992. Di qui la conclusione che l'ammissibilità del ricorso cumulativo e di quello collettivo presuppone sempre la competenza territoriale inderogabile della Corte di giustizia tributaria adita (Turchi, 338). La pendenza del ricorso tributario Stabilire in quale momento una controversia può dirsi pendente — cioè stabilire la sua litispendenza che per lo più viene considerata coincidente con il momento in cui si perfeziona il cosiddetto rapporto processuale — è indispensabile in numerosi casi. Per es. stabilire quando una causa può dirsi pendente è ovviamente indispensabile per risolvere questioni di diritto intertemporale — e quindi per decidere quale tra le leggi che si sono succedute nel tempo debba andare applicata — ecc. (Mandrioli, II, 23). Talune volte — è il caso per es. dell'art. 39 c.p.c. in cui è previsto che la pendenza è in generale determinata «dalla notificazione dell'atto di citazione ovvero dal deposito del ricorso» salve sempre le eccezioni ex lege previste come per es. quella contenuta nell'art. 645 c.p.c. per il ricorso per ingiunzione — è la legge stessa a stabilire la litispendenza. In mancanza di espressa previsione — e quando il processo deve essere introdotto con ricorso — la migliore dottrina distingue nel senso che se il ricorso deve essere notificato prima del suo deposito è la notifica che determina la pendenza della lite e mentre invece se il ricorso deve essere notificato dopo il suo deposito è quest'ultimo che determina la pendenza (Mandrioli, II, 25). Poiché ai sensi dell'art. 20, comma 1, d.lgs. n. 546/1992 il ricorso è proposto mediante notifica all'ente autore dell'atto impugnato, in dottrina è prevalente l'orientamento per cui la litispendenza si determina al momento della notifica del ricorso (Finocchiaro, Finocchiaro, 366; Basilavecchia , 61 ). Minoritaria è l'idea che la litispendenza dovrebbe determinarsi con il deposito del ricorso, mentre la sua notificazione sarebbe soltanto idonea a dar luogo a effetti sostanziali quali ad es. l'interruzione della prescrizione ecc. (Tesauro, 2013, 143). In giurisprudenza sembra essersi invece senza contrasti consolidato l'orientamento secondo cui è la notifica del ricorso tributario che determina la litispendenza (Cass. V, n. 11087/2016; Cass. V, n. 26535/2014) La consumazione del potere di proporre ricorso La problematica della possibilità per il contribuente di proporre un nuovo ricorso davanti alla Corte di giustizia tributaria di primo grado, ovvero della decadenza del contribuente dal potere di impugnare l'atto già impugnato con un precedente ricorso, è da taluni autori risolta con il richiamo all'istituto della « consunzione o consumazione del potere d impugnazione», da cui discende che sia assolutamente da escludere « tanto la riproposizione di una seconda domanda in tutto o in parte identica alla prima, quanto la ripartizione dell'oggetto divisibile di una domanda in processi diversi» (Glendi, 1984, 519). Parte della dottrina è stata però disposta a riconoscere che sia possibile la proposizione di un nuovo ricorso soltanto prima della scadenza del termine previsto per l'impugnazione dell'atto fiscale, in considerazione del fatto che tale soluzione sarebbe da ritenersi permessa perché non inciderebbe sulla fondamentale previsione del divieto dei «motivi aggiunti» (Turchi, 321; contrario, Glendi, 1984, 519, secondo cui il divieto dei «motivi aggiunti» implicherebbe la regola della acquiescenza del contribuente rispetto ai profili dell'atto fiscale non oggetto di contestazione). In giurisprudenza sembra invece in via di consolidamento l'orientamento secondo cui il principio di consumazione dell'impugnazione non si applica al ricorso introduttivo del processo tributario, per cui il contribuente può validamente manifestarsi la volontà di sostituire il precedente ricorso con altro, purché tempestivamente proposto (entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notifica dell'atto), con conseguente inammissibilità del primo ricorso, caducato ad opera della stessa parte, con meccanismo analogo a quello della rinuncia (Cass. V, n. 15441/2010; Cass. V, n. 8234/2008). La richiamata giurisprudenza si fonda anche sulla stretta interpretazione dell'art. 60, d.lgs. n. 546/1992, il quale prevede, unicamente per l'appello che, in caso di sua inammissibilità, «non può essere riproposto anche se non è decorso il termine stabilito dalla legge». Occorre peraltro osservare che il ridetto art. 60 è omologo dell'art. 358 c.p.c., quest'ultimo da sempre interpretato nel senso che nella cognizione ordinaria la riproposizione dell'appello prima della scadenza del termine è consentita soltanto fino a che il primo atto d'appello non sia stato dichiarato inammissibile o improcedibile (Cass. V, n. 12084/16; Cass. V, n. 9265/2010). È facile quindi il rilievo secondo cui la rammentata giurisprudenza — che proprio in ragione del carattere impugnatorio del processo tributario ha ritenuto non consumato il potere di impugnare l'atto fiscale soltanto quando il primo ricorso sia valido — si è nella sostanza uniformata alla constante interpretazione dell'art. 358 c.p.c. e quindi per «trasparenza» alla costante interpretazione dell'art. 60 (Cass. V, n. 11762/2012; Cass. V, n. 11994/2006). La lingua processuale Anche nel processo tributario, ai sensi degli artt. 122 e 123 c.p.c., applicabili ex art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, la lingua italiana è obbligatoriaper tutti gli atti processuali in senso proprio, da qualunque soggetto promanino, dal giudice, dal segretario, dagli ausiliari del giudice, o dalle parti, pertanto il ricorso va redatto in lingua italiana. Tale regola non vale, invece, per i documenti prodotti dalle parti, i quali, se redatti in lingua straniera devono ritenersi acquisiti e utilizzabili ai fini della decisione. Quanto alle prove documentali, il giudice ha, infatti, la facoltà, ma non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno, qualora sia in grado di comprendere il significato dei documenti, o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata eventualmente allegata dalla parte (Glendi, Art. 32, d.lgs. n. 546/1992, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consoli- Glendi,Padova 2023, 509; Bruschetta, Art. 122 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Cendon, I, Milano, 2012, 1013, 2020, 1024; Tesauro, 2013, 131; Cass. V, 33079/2022; Id., 1608/2011). Come nel processo civile ordinario anche nel processo tributario il problema del rapporto tra la lingua processuale italiana e l'uso delle lingue alloglotte prescritto o permesso dalla legislazione speciale è stato dalla giurisprudenza risolto nel senso che al mancato utilizzo di queste ultime consegue un diritto del contribuente alla traduzione soltanto quando viene leso il suo diritto difensivo sub specie di non comprensione o scarsa comprensione degli atti scritti in lingua italiana e pena l'invalidità di questi ultimi (Cass. V, n. 11038/2004; nella cognizione ordinaria, conformi Cass. I, n. 1820/2005; Cass. I, n. 12239/2003; tutte seguono quindi le indicazioni di Corte cost. n. 15/1996). La forma del ricorsoLa forma del ricorso è quella prescritta dai commi 2 e 3 dell’art. 18, con l’individuazione degli elementi essenziali, stabiliti, ai sensi del comma 4, a pena di inammissibilità. Dal 1° luglio 2019, a seguito della completa digitalizzazione del processo tributario, il ricorso, con la delega del difensore, dev’essere formato come documento informatico sottoscritto con firma digitale. Pertanto, il ricorso dovrà possedere, sin dall’origine e dal momento della sua notificazione tutti i requisiti di ordine tecnico previsti dalla normativa sul PTT (processo tributario telematico) che verranno in concreto controllati all’atto del deposito telematico mediante il S.I.Gi.T. (Guarnieri-Spaccapelo, 395). Con riferimento ai ricorsi per i quali è consentito alla parte stare in giudizio personalmente ai sensi dell’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, poiché la modifica intervenuta ad opera dell’art. 1, comma 1 lett. g), n. 2 del d.lgs. n. 220/2023 sul comma 3 dell’articolo 16-bis, d.lgs. n. 546/1992, ha imposto l’obbligo per le parti, i consulenti e gli organi tecnici di utilizzare esclusivamente le modalità telematiche per la notifica e il deposito di atti processuali, documenti e provvedimenti giurisdizionali (salva la possibilità per le ipotesi di cui all’art. 79, d.lgs. n. 546/1992 di effettuare le notificazioni ai sensi dell'articolo 16), sussiste anche per le controversie fino a 3.000,00 euro l’obbligo della notifica del ricorso in modalità telematica a decorrere dai giudizi instaurati con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024. L'indicazione della commissione tributaria L'art. 18, comma 2, lett. a), prescrive che nel ricorso debba essere indicata la Corte di giustizia tributaria — e cioè il giudice — alla quale è diretto. Autorevole dottrina ha evidenziato come l'elemento di forma costituito dall'indicazione della Corte di giustizia tributaria non riguarda la competenza di quest'ultima - invece disciplinata dall'art. 4 — con la conseguenza che l'indicazione della Corte di giustizia tributaria soddisfa la forma richiesta dall'art. 18, comma 2, lett. a), anche quando la Corte adita sia incompetente a decidere il ricorso (Finocchiaro, Finocchiaro, 368). Secondo la medesima dottrina l'indicazione può anche non essere espressa, bastando che la stessa emerga in modo non equivoco dalla complessiva lettura del ricorso (Finocchiaro, Finocchiaro, 368). Si è altresì precisato che trattandosi di elemento meramente formale, l'inammissibilità sussiste solamente quando è assolutamente impossibile per la parte a cui il ricorso è notificato identificare il giudice adito, per cui la declaratoria di inammissibilità dovrebbe essere limitata a casi estremi, per non dire scolastici (Guarnieri-Spaccapelo, 353). L'indicazione del ricorrente L'art. 18, comma 2, lett. b) prevede debbano essere indicati oltre al contribuente — e in caso il contribuente sia una persona giuridica anche il legale rappresentante di quest'ultima — le rispettive residenza o sede legale e «domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato» e infine che siano indicati il loro codice fiscale e indirizzo di posta elettronica certificata. È stato opportunamente segnalato che — in forza del generale richiamo contenuto nell'art. 1, comma 2 — anche nel processo tributario deve trovare applicazione l'art. 75 c.p.c. cosicché quando il contribuente sia incapace dovrebbe pure indicarsi chi lo rappresenta in giudizio siccome per il processo civile ordinario stabilisce l'art. 163, comma 2, c.p.c. (Finocchiaro, Finocchiaro, 371). L'indicazione del codice fiscale — e ora anche l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata — sono elementi di forma non necessari nel senso che la loro omissione o assoluta incertezza non è prevista dall'art. 18, comma 4 a pena d'inammissibilità del ricorso. Per le restanti indicazioni di cui fa espressamente obbligo l'art. 18, comma 2, lett. b) la dottrina ragiona comunque nella direzione di considerarle nel loro complesso strumentali alla esatta individuazione del ricorrente, con la conseguenza di ritenere che soltanto l'errore o l'omessa indicazione del contribuente o del suo legale rappresentante che ne impediscano in modo assoluto l'identificazione comporta la sanzione dell'inammissibilità prevista dall'art. 18, comma 4 (Finocchiaro, Finocchiaro, 372). Interpretazione quest'ultima invero confermata dalle speciali regole contenute nell'art. 17, comma 3 per cui — in caso di mancanza o assoluta incertezza circa l'indicazione dell'elezione di domicilio o della residenza o della sede legale nel territorio dello Stato — le comunicazioni e le notificazioni processuali saranno da farsi «presso la segreteria della commissione» con la conseguente pratica esclusione della applicazione della sanzione di inammissibilità del ricorso prevista dall'art. 18, comma 4 (Fantozzi, 711; Russo, 466). Conforme è la giurisprudenza secondo cui la sanzione dell'inammissibilità del ricorso prevista dall'art. 18, comma 4 — che per la stessa rammentata giurisprudenza non sarebbe sanabile ex art. 156 c.p.c. atteso che l'inammissibilità di che trattasi è prevista come rilevabile d'ufficio «in ogni stato e grado» ai sensi dell'art. 22, comma 2 — discende soltanto dall'impossibilità assoluta di individuare il ricorrente o il suo legale rappresentante (Cass. V, n. 5413/2016; Cass. V, n. 6359/2008; che hanno ripreso il consolidato orientamento formatosi, nella vigenza dell'anteriore legge processuale tributaria, sull'art. 15 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, v. tra le ultime Cass. sez. trib. V, n. 6214/2000). Laddove invece l'omessa o inesatta indicazione del codice fiscale — nella sostanza risolvendosi in un errore materiale — non comporta l'inammissibilità del ricorso prevista dall'art. 18, comma 4 (Cass. V, n. 26846/2014). L'indicazione dell'Ufficio «nei cui confronti il ricorso è proposto» L'art. 18, comma 2, lett. c), come modificato dall'art. 9, comma 1, lett m), n. 1, d.lgs. n. 156/2015, stabilisce che il ricorso deve contenere l'indicazione dell'Ufficio nei cui confronti viene promosso. La modifica ha opportunamente adeguato la formulazione del testo, che originariamente si riferiva all'indicazione «dell'ufficio del Ministero delle finanze o dell'ente o del concessionario del servizio di riscossione nei cui confronti il ricorso è proposto», all'avvenuta istituzione con d.lgs. 30 luglio 1999 n. 300 delle Agenzie fiscali. In dottrina è stato affermato che l'inammissibilità del ricorso — a causa dell'omessa o assolutamente incerta indicazione della parte nei cui confronti è proposto — non può essere sanata dalla sua notifica all'ufficio esattamente competente. Secondo questa dottrina l'art. 18, comma 2, lett. c) non sarebbe difatti diretto a instaurare il «giusto contraddittorio» tra le parti, bensì a stabilire a pena di inammissibilità uno degli elementi di forma del ricorso. Peraltro la ridetta dottrina attenua per prima la drastica conclusione, mediante la duplice osservazione per cui spetta pur sempre al giudice tributario accertare la concreta soddisfazione dell'elemento di forma in parola «tenuto presente l'intero contenuto dell'atto» compresa anche la notifica dello stesso e che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile soltanto quando l'identificazione della parte nei cui confronti è proposto risulti essere «assolutamente incerta» (Finocchiaro, Finocchiaro, 377; Bellagamba, 97; Bafile, 118). In dottrina si è sostenuto che, in deroga alla regola generale prescritta dall'art. 22, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, per cui «l'inammissibilità del ricorso è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce», il vizio posa venire sanato dalla costituzione in giudizio della parte resistente ex art. 156 c.p.c. per raggiungimento dello scopo (Turchi, Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, Torino, 2016, 382). Altri autori hanno rilevato che, nel caso, si tratta piuttosto di escludere l'inammissibilità perché la costituzione dell'ufficio dimostra che l'incertezza non era «assoluta» (Guarnieri-Spaccapelo, 355). Nelle rare volte in cui ne ha avuto occasione la giurisprudenza — in modo consonante alla rammentata maggiore dottrina — ha mostrato di voler confinare la sanzione di inammissibilità stabilita dall'art. 18, comma 4 in ipotesi assolutamente estreme e praticamente impossibili dal realizzarsi. La giurisprudenza ha così p. es. ritenuto che l'indicazione della parte nei cui confronti era stato proposto il ricorso poteva essere ricavata anche «per implicito» dal contesto dello stesso — contesto peraltro espressamente considerato comprensivo della relata di notifica all'ufficio che aveva emesso l'atto impugnato (Cass. V, n. 11475/2009) — ovvero con riguardo al ricorso in appello ha addirittura ritenuto che l'indicazione poteva essere ricavata ab esterno sia con riferimento alla sentenza di primo grado e sia con riferimento all'avviso che era stato impugnato (Cass. V, n. 15313/2000, in quest'ultimo caso in modo nella sostanza conforme a quella parte dell'anteriore giurisprudenza formatasi sub art. 15 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, per cui anche la sola indicazione dell'atto impugnato consentiva l'identificazione dell'ufficio nei cui confronti era stato promosso il ricorso, v. p. es. C.t. I Pesaro 4 marzo 1983). Come la maggiore dottrina, anche la giurisprudenza ha tenuto distinte la regola dell'indicazione della parte nei cui confronti il ricorso è proposto, contenuta nell'art. 18, comma 2, lett. c), a pena di inammissibilità ex art. 18, comma 4, dalla diversa regola della competenza dell'ufficio nei cui confronti il ricorso è proposto, disciplinata dall'art. 10. La questione appare, però, sostanzialmente superata dalla giurisprudenza, in ragione del consolidarsi dell'orientamento sul «carattere unitario dell'Agenzia delle Entrate», per cui la proposizione dell'impugnazione dell'avviso di accertamento nei confronti di un ufficio non territorialmente competente della medesima Agenzia delle entrate non può considerarsi ragione di inammissibilità del ricorso, «dovendo essere l'azione dell'Amministrazione improntata a spirito di collaborazione e buona fede, con conseguente onere di trasmissione all'ufficio competente» (Cass. V, n. 20697/2011). Lo stesso principio vale in ipotesi di impugnazione di un silenzio rifiuto di rimborso, affermandosi in giurisprudenza che non consegue alcuna sanzione alla notifica del ricorso ad una «articolazione» diversa dell'Agenzia delle Entrate, rispetto a quella amministrativamente competente a provvedere al rimborso (Cass. V, n. 21593/2015; Cass. VI, n. 1113/2015; Cass. V, n. 30753/2011. Deve quindi ritenersi abbandonato il precedente contrario indirizzo interpretativo, ancora rappresentato da Cass. V, n. 1570/2005; Cass. V, n. 13221/2004). L'indicazione dell'atto impugnato e dell'oggetto della domanda L' art. 18, comma 2, lett. d), a differenza di quanto era previsto dall'art. 15, lett. c, D.P.R. n. 636/1973 nel testo novellato del 1981 (ovvero la possibilità del ricorrente di indicare, alternativamente, l'atto a cui la controversia si riferiva «oppure» l'ufficio tributario contro cui il ricorso era proposto) ha separato la previsione dell'indicazione dell'«atto impugnato» da quella dell'indicazione della parte «nei cui confronti il ricorso è proposto», collocando la prima alla lett. d) e la seconda, come sopra visto alla lett. c). Nel contempo il legislatore del 1992 ha inserito unitariamente l'indicazione «dell'atto impugnato e dell'oggetto della domanda» nella lett. d). Tale ultima scelta assume significativo rilevo in relazione alla rubrica del successivo art. 19, intitolato, appunto, «atti impugnabili e oggetto del ricorso». L'atto impugnato, oggetto del ricorso è, dunque, uno degli atti indicati nell'art. 19, comma 1, espressamente previsti dalla norma come impugnabili (Finocchiaro, Finocchiaro, Commentario, 379; Guarnieri, art. 18, in Commento breve, 246). La dottrina, e anche la giurisprudenza, tuttavia, hanno spesso frainteso la portata dell'art. 19, sull'assunto che l'elencazione ivi contenuta fosse tassativa (v., per es., Russo, Manuale, 462), mentre così non è, posto che il legislatore non ha certo costruito una catalogazione chiusa, tant'è vero che, non solo è intervenuto più volte ad integrarla (v. lett. e-bis, sull'iscrizione di ipoteca, lett. e-ter, sul fermo dei beni mobili registrati, lett. h-bis, sulla decisione di rigetto dell'istanza di apertura di procedura amichevole si sensi della direttiva UE 2017/1852 o ai sensi degli Accordi e Convenzioni internazionali e della Convenzione n. 90/436/CEE contro le doppie imposizioni e, da ultimo, lett. g-bis e g-ter sul diniego di autotutela), ma, fin dall'origine, con la lett. i), relativa a «ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l'autonoma impugnabilità» davanti alle Corti di giustizia tributaria, ha rinviato ad altre disposizioni normative dalle quali è dato evincere, anche evolutivamente, la configurazione di atto autonomamente impugnabile , sia espressamente, sia implicitamente (v., amplius, sub art. 19). Sulla scorta di una tra le più accreditate tesi processuali civili, la dottrina in genere converge nel ritenere che nel processo tributario l'oggetto della domanda del contribuente — da indicarsi ex art. 18, comma 2, lett. d), quale elemento di forma obbligatorio del ricorso — debba essere ravvisato nel concreto provvedimento che il ricorrente chiede alla Corte di giustizia tributaria, il cosiddetto petitum immediato. Che, per i sostenitori della teoria costitutiva, sarà l'annullamento dell'atto impugnato, mentre, per i sostenitori della teoria dichiarativa, sarà l'accertamento negativo della pretesa impositiva, come sopra visto sub 2. Ovviamente la soluzione che si voglia adottare — proprio al fine di spiegare la prescrizione legislativa contenuta nell'art. 18, comma 2, lett. d) sullo specifico obbligo di indicare anche l'oggetto della domanda oltre che l'atto impugnato — presuppone risolto il nodo, niente affatto solo teorico, di quale effettivamente sia l'oggetto della domanda in un processo, come quello tributario, avente natura impugnatoria di un provvedimento in cui è già stata accertata dall'amministrazione finanziaria la pretesa tributaria. Da quest'ultimo punto di vista l'unitaria previsione ex art. 18, comma 2, lett. d) sembra avere in effetti una sua importante coerenza — ciò nel senso che oggetto della domanda in generale non può che essere la impugnazione di un atto fiscale per motivi di forma o merito - il quale atto fiscale deve pertanto essere individuato senza equivoci (Finocchiaro, Finocchiaro, 378). Come era giàstato evidenziato nella precedente stesura del commento (Bruschetta), in ragione di taluni non del tutto appropriati commenti alla disposizione in esame, la giurisprudenza di legittimità non ha affatto affrontato il tema della sufficiente indicazione dell'atto impugnato prevista dall'art. 18, comma 2, lett. d), prescritta come obbligatoria dall'art. 18, comma 4, a pena di inammissibilità, limitandosi ad affermare, nelle rare occasioni in cui se ne è occupata, l'ovvio principio secondo cui il ricorso proposto contro un atto fiscale inesistente è inammissibile, adducendo, a fondamento di tale principio, l'argomento integralmente paralogico per il quale l'art. 18, comma 2, lett. d), «nel prevedere l'inammissibilità del ricorso per mancata indicazione dell'atto impugnato, a maggior ragione statuisce tale inammissibilità nel caso di ricorso rivolto contro un provvedimento inesistente» (Cass. V, 27353/2008; Cass. V, n. 1570/2005). In realtà, a quanto risulta, l'unica pronuncia della Corte sulla specifica tematica (decisione probabilmente da considerare ancora attuale anche se resa con riferimento al previgente art. 15 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636), è conforme alla dottrina nel senso di dichiarare l'inammissibilità del ricorso in relazione ad una concreta fattispecie in cui non era stato in alcun modo possibile individuare l'atto impugnato posto che, in quel caso, nemmeno era stato possibile in alcun modo comprendere quale fosse il provvedimento invocato (Cass. I, n. 2221/1995). Quanto, poi, all'indicazione dell'oggetto della domanda, previsto, come detto, dall'art. 18, comma 2, lett. d,unitamente all'indicazione dell'atto impugnato, quando la giurisprudenza è stata chiamata a chiarire in che cosa esso consista, lo ha fatto passando attraverso l'inevitabile riflessione sulla preliminare questione di quale sia la domanda proponibile in un processo avente natura impugnatoria come quello tributario in cui il giudice è tenuto ad esaminare i motivi di ricorso con riferimento all'atto impugnato, ai suoi vizi e alla pretesa in esso contenuta, sicché il carattere impugnatorio del processo tributario deve necessariamente comportare che il petitum non può che trovare «limite e fondamento» nell'atto e nella pretesa tributaria in esso portata (Cass. V, 2336/2013; Cass. V, n. 18702/2010). Soluzione che, come già sopra ricordato, porta a escludere la possibilità di proporre domande o eccezioni riconvenzionali . L'indicazione dei motivi L'art. 18, comma 2, lett. e), prevede, poi, l'indicazione dei motivi. In dottrina è stato osservato che questo elemento di forma coincide con quello stabilito dall'art. 163, comma 3, n. 4 c.p.c., che per l'atto di citazione del giudizio ordinario prevede l'esposizione «dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda» (Finocchiaro, Finocchiaro, Commentario, 385 ). Si ritiene, pertanto, che l'indicazione dei motivi del ricorso tributario coincida con la causa petendi, che nella dottrina del processo civile viene in effetti identificata con l'indicazione della norma che astrattamente riconosce il diritto e dei fatti costitutivi dello stesso (Mandrioli, I, 51). La dottrina si divide però — a seconda degli autori che sostengono la natura costitutiva del processo tributario, piuttosto che quella dichiarativa; v. sub 2 — tra chi fa consistere i motivi nell'indicazione dei vizi dell'atto fiscale comportanti il suo annullamento e chi invece ritiene che i motivi debbano essere fatti consistere nell'indicazione della mancanza degli elementi costitutivi del credito fiscale o nell'indicazione dei fatti estintivi o modificativi o impeditivi dello stesso (Tesauro, 2013, 145; Turchi, 309; Russo, 465). È stato opportunamente ricordato che l'elemento di forma costituito dall'indicazione dei motivi — e dalla cui assenza o assoluta incertezza consegue l'inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 18, comma 4 — prescinde dalla loro fondatezza (Finocchiaro, Finocchiaro, 387). Le ragioni, giuridiche e di fatto, poste dal ricorrente a fondamento della domanda, impegnano il giudice a pronunciarsi su ciascuna di esse (Basilavecchia, 76), salvo l'ormai frequente ricorso al «principio della ragione più liquida», che consente al giudice di decidere in base ad una questione assorbente e di più agevole e rapido scrutinio, pur se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre secondo l'ordine previsto dall'art. 276 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. Circa il grado di certezza da considerarsi sufficiente ad evitare la declaratoria di inammissibilità del ricorso, le posizioni in dottrina divergono in relazione alla necessità o meno che sia precisata la norma astratta. Per taluni autori basterebbe invero che dal ricorso possano essere ricavati — anche senza un'esatta individuazione delle disposizioni — gli argomenti giuridici a sostegno dell'impugnazione (Bafile, 119; Finocchiaro, Finocchiaro, 387; Turchi, I poteri, 312; contrario, ma con riferimento al precedente rito tributario, Bendin, in Commentario delle leggi, 223, a cura di Glendi, Milano, 1990). È stato infine convenientemente osservato che l'obbligatoria indicazione dei motivi prevista dall'art. 18, comma 2, lett. e) — indicazione obbligatoria appunto perché stabilita a pena di inammissibilità dall'art. 18, comma 4 — non riguarda le questioni rilevabili d'ufficio e siccome in effetti sarebbe dimostrato tra l'altro dall'art. 57, comma 2 (Finocchiaro, Finocchiaro, 390). Anche per la giurisprudenza i motivi costituiscono la causa petendi del ricorso (Cass. V, n. 22662/2014; Cass. V, n. 13934/2011). Pure per la giurisprudenza, quindi, i motivi consistono nell'indicazione delle norme e dei fatti sui quali si fonda l'impugnazione dell'atto fiscale. Trattasi di un'indicazione ex lege destinata a delimitare rigidamente la materia del contendere. L'integrazione dei motivi viene in effetti sanzionata dall'art. 18, comma 4 con l'inammissibilità, salva l'ipotesi dei motivi aggiunti di cui all'art. 24, comma 2 ss. (Cass. V, n. 13742/2015; Cass. V, n. 22662/2014) e salva la particolare fattispecie di creazione giurisprudenziale dei motivi aggiunti consentiti a seguito di rinvio della causa per munirsi di un difensore abilitato disposto a favore del contribuente difesosi personalmente in casi non permessi (Cass. V, n. 23315/2013). Le questioni rilevabili d'ufficio — e tra queste anche la decadenza del contribuente per mancato rispetto del termine di proposizione del ricorso (Cass. V, n. 20978/2013; Cass. V, n. 16978/2011) — non incontrano ovviamente preclusione alcuna (Cass. V n. 25756/2014; Cass. V, n. 9610/2012). Come del resto è utile ricordare che il giudice tributario — identicamente a quello ordinario — non è ovviamente vincolato dall'interpretazione giuridica dei fatti data dalle parti e ciò in virtù del principio iura novit curia (Cass. V., n. 18702/2010; Cass. V, n. 17610/2004). Per la giurisprudenza — che come veduto sub 2, concepisce il processo tributario come di impugnazione merito — la causa petendi può consistere sia nella indicazione di vizi di nullità dell'atto fiscale e sia nella deduzione di fatti impeditivi o estintivi o modificativi della pretesa fiscale (Cass. V, n. 13294/2016; Cass. V, n. 19750/2014). Circa il grado di certezza richiesto dall'art. 18, comma 4 per non incorrere nella sanzione di inammissibilità del ricorso, la giurisprudenza ha solo avuto occasione di affermare il principio per cui i motivi debbono ritenersi mancanti quando si faccia mero riferimento all'incostituzionalità delle disposizioni che prevedono l'imposta senza allegazione dei fatti rilevanti (Cass. V, n. 24082/2009; Cass. V, n. 10599/2007). Peraltro la giurisprudenza — con riferimento all'anteriore rito tributario, ma con probabile valore anche per l'attualità — aveva ritenuto i motivi mancanti in una fattispecie in cui il ricorso «non era sorretto da alcuna ragione critica concreta degli elementi logici, giuridici e di fatto, posti a base degli accertamenti impugnati» (Cass. I, n. 2221/1995). La sottoscrizione del difensore del ricorrente L'art. 18, comma 3 e 4 stabiliva — fuori del caso previsto dall'art. 12, comma 2 in cui il contribuente può stare in giudizio senza assistenza tecnica — che il ricorso dovesse essere materialmente sottoscritto a pena di inammissibilità da uno dei difensori abilitati di cui all'art. 12, comma 3 ss. «tanto nell'originale» da depositarsi in segreteriaexart. 22, comma 1, «quanto nelle copie» destinate alle altre parti e «salvo quanto previsto dall'art. 14, comma 2». A riguardo era stato osservato come la disposizione fosse intesa ad evitare le incertezze verificatesi vigente l'anteriore rito tributario, laddove peraltro aveva finito per prevalere almeno in giurisprudenza l'orientamento secondo il quale la sottoscrizione della copia del ricorso destinata all'ufficio non fosse necessaria (Finocchiaro, Finocchiaro, 391; Cass. V, n. 27072/2006; Cass. I, n. 7536/1997). Sempre dalla medesima dottrina si era però rilevato come nemmeno questa formulazione fosse aliena da incertezze, particolarmente con riferimento all'obbligo di sottoscrivere o meno l'originale del ricorso contenente la chiamata (Finocchiaro, Finocchiaro, 392). L'art. 18, comma 3 e 4 — a seguito della sua odierna riformulazione — stabilisce ora a pena di inammissibilità che dal difensore deve essere sottoscritto soltanto «il ricorso». Sono quindi scomparsi sia la previsione secondo cui dovevano essere a pena di inammissibilità sottoscritte anche le copie destinate alle altre parti del giudizio e sia il rinvio a quanto stabilito all'art. 14, comma 2. Attualmente, divenuto obbligatorio dal luglio 2019 il processo tributario telematico (PTT), che prevede la sottoscrizione digitale, è sufficiente firmare l’originale del ricorso e poi depositarlo nel fascicolo telematico. La giurisprudenza sul difetto di sottoscrizione si è andata orientando in maniera non eccessivamente rigida, salvo il caso di vera e propria omissione (Cass. V, n. 16758/2016, per cui costituisce semplice irregolarità la «copia del ricorso depositata presso la segreteria della commissione tributaria» con sottoscrizione illeggibile, atteso che le previsioni di inammissibilità hanno natura eccezionale, cosicché debbono essere fatte oggetto di interpretazione restrittiva; in questo senso, in dottrina, v. anche Finocchiaro, Finocchiaro, 394, che peraltro utilmente distinguono l'appena veduta fattispecie da quella della illeggibilità della firma del legale rappresentante di persona giuridica, quando nel ricorso non sia assolutamente indicato chi esso sia; v., altresì, Cass. V, n. 4078/2015, nonché Cass. V, n. 14389/2010, per le quali costituisce mera irregolarità il deposito ai fini della costituzione in giudizio di copia del ricorso non sottoscritta, trattandosi di fattispecie di inammissibilità non espressamente comminata dall'art. 18, anche perché l'art. 22, comma 3 richiede esclusivamente l'attestazione di «conformità di tale copia all'originale notificato alla controparte, la quale può riscontrare l'esistenza della firma nell'originale dell'atto ad essa spedito o consegnato»; v., Cass. VI, n. 24461/2014, nonché Cass. VI, n. 10282/13, per le quali «la mancata sottoscrizione della copia del ricorso consegnata o spedita per posta all'Amministrazione finanziaria ne comporta la mera irregolarità se l'originale, depositato nella segreteria della commissione tributaria, risulta sottoscritto», atteso che è solamente essenziale che «un esemplare dell'atto rechi la firma autografa dell'autore, poiché il resistente è comunque in grado di verificare la sussistenza della sottoscrizione sull'originale prima della propria costituzione, il cui termine scade successivamente a quello stabilito per la costituzione del ricorrente»; v., Cass. V, n. 23752/2015, per la quale «il ricorso introduttivo è inammissibile, ai sensi degli artt. 18, comma 4, e 22, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, esclusivamente quando la sottoscrizione manchi materialmente, ma non quando essa risulti presente per relationem attraverso il rinvio implicito della fotocopia depositata all'atto introduttivo del giudizio, notificato in originale, e la sua conformità non sia stata fondatamente contestata»), la quale più recente giurisprudenza era quindi in contrasto con quella immediatamente precedente (Cass. V, n. 14117/2009, nonché Cass. V, n. 205/2004, in tema di mancata sottoscrizione della «copia depositata con la costituzione in giudizio»), la quale ultima aveva comunque già cominciato a largheggiare con riferimento alle copie fotostatiche (ritenendo ad es. che non fosse «del tutto priva di sottoscrizione la copia dell'atto introduttivo del processo tributario, notificata all'altra parte, che risulti essere una fotocopia dell'originale, regolarmente sottoscritto dal difensore, depositato nella cancelleria del giudice», così Cass. V, n. 21160/2005; nonché Cass. V, n. 5257/2004; conforme, in dottrina, Finocchiaro, Finocchiaro, Commentario, 395). Anche dopo la riformulazione dell'art. 18, comma 3 e 4 dovrebbe peraltro rimanere stabile la giurisprudenza secondo cui la autenticazione della procura - in calce al ricorso — «consente di riferire al difensore anche la paternità del ricorso medesimo» (Cass. V, n. 21326/2006; Cass. V, n. 3862/2001). La sottoscrizione del ricorrente che sta personalmente in giudizio L'art. 18, comma 3, lett. b) e 4 — per il caso in cui ai sensi dell'art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, il contribuente stia in giudizio senza assistenza tecnica — ancora stabilisce che il ricorso debba essere sottoscritto personalmente pena l'inammissibilità dello stesso (con riferimento all'anteriore art. 15, comma 1, lett. e) e 3 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636; v. Cass. I, n. 8385/1996; Cass. I, n. 865/1996; entrambe per l'inammissibilità del ricorso privo di firma). Occorre peraltro ricordare che nella ipotesi in cui il contribuente avesse sottoscritto personalmente il ricorso fuori dei casi in cui poteva stare in giudizio senza l'assistenza tecnica — ed essendo comunque costituzionalmente ragionevole la previsione del generale obbligo di difesa tecnica (Cass. V, n. 1100/2002) — il presidente della commissione era tenuto ad invitare il ricorrente a munirsi di un difensore fissando allo scopo un termine da stabilirsi a pena di inammissibilità in questo senso ampliando la previsione di cui all'anteriore art. 12, comma 5 (Corte cost. n. 189/2000; Corte cost. n. 158/2003; Cass.S.U., n. 22601/2004; Cass. V, n. 15029/2014). Sennonché in attualità il riformato art. 12 non contempla più l'appena veduta previsione, essendo stata la stessa sostituita da quella dell'applicazione della più generale regola di cui all'art. 182 c.p.c. che pure prevede l'assegnazione di un termine perentorio per la sanatoria (articolo, in precedenza, già ritenuto applicabile da Tesauro, 2013, 57). Disposizione — quella contenuta nell'art. 182, comma 2, c.p.c. — espressamente richiamata nell'odierno art. 12, comma 10, ivi stabilendosi che i relativi provvedimenti sono emessi dal Presidente della Corte di giustizia tributaria o dal Presidente della sezione o dal collegio. È utile aggiungere — non solo in relazione ad analoghe fattispecie che potrebbero non ancora essere state processualmente definite — che per la giurisprudenza l'irrituale sottoscrizione del contribuente è ritenuta successivamente sanabile mediante conferimento di incarico a un difensore abilitato (Cass. V, n. 3266/2012; Cass. V, 29587/2011) e che al difensore posteriormente incaricato nemmeno sarebbero applicabili le preclusioni circa i motivi aggiunti di cui all'art. 24 (stando, almeno, a Cass. V, n. 23315/2013). Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza, qualora il vizio in parola non fosse stato esaminato nei gradi di merito, non può venire denunciato nei confronti del contribuente vincitore in quanto soltanto quest'ultimo ha interesse ad eccepire la menomazione del proprio diritto difensivo (Cass. V, n. 839/2014; Cass. V, n. 3266/2012). Occorre, infine, ricordare che per i ricorsi notificati successivamente al 1° settembre 2024, poiché l'art. 1, comma 1, lett. g), n.2 del d.lgs. n. 220/2023, intervenendo sul comma 3 dell'articolo 16-bis, d.lgs. n. 546/1992, ha imposto l'obbligo generalizzato di utilizzo delle modalità telematiche per la notifica e il deposito di atti processuali, documenti e provvedimenti giurisdizionali (salva la possibilità per le ipotesi di cui all'art. 79, d.lgs. n. 546/1992 di effettuare le notificazioni ai sensi dell'articolo 16), anche chi, ricorrendone i presupposti, intende stare in giudizio personalmente dovrà adeguarsi all'utilizzo del PTT. L'indicazione della categoria alla quale appartiene il difensore abilitato e dell'incarico L'art. 18, comma 3, lett. a) , come modificato con il d.lgs. n. 156/2015, prevede che nel ricorso debba essere anche indicata la categoria, tra quelle elencate all'art. 12, alla quale appartiene il difensore incaricato. La previsione dell'indicazione della categoria trova fondamento nella circostanza che, per ciascuna delle categorie, le spese di assistenza del difensore incaricato debbono essere liquidate sulla base delle rispettive tariffe professionali - ovvero per gli iscritti negli elenchi di cui all'art. 12, comma 4 sulla base dei «parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili» - siccome stabilito dall'art. 15, comma 2 quinques. L'art. 18, comma 3, lett. b), continua a prevedere che il ricorso debba contenere l'indicazione dell'incarico conferito al difensore abilitato «salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente». Con ciò ribadendosi la regola generale — eccettuata appunto la eccezionale previsione della ipotesi in cui è permessa la difesa personale (per quest'ultimo caso, v. supra) — secondo cui davanti al giudice tributario il ricorrente deve essere rappresentato o assistito da un difensore tecnico tra quelli abilitati di cui all'art. 12 (Finocchiaro, Finocchiaro, 396). Ai sensi dell'art. 12, comma 7, d.lgs. n. 546/1992, l'incarico può essere conferito dal ricorrente sia separatamente con atto pubblico o scrittura privata autenticata oppure può essere conferito in calce o a margine di un atto del processo nel qual caso la sottoscrizione del ricorrente deve essere «certificata dallo stesso incaricato». L'incarico può essere conferito anche oralmente alla pubblica udienza dandosene atto a verbale. Per vero quest'ultima possibilità di conferimento dell'incarico — oralmente alla pubblica udienza — potrebbe sembrare almeno a prima vista soltanto compatibile con la ipotesi di difesa originariamente personale del contribuente perché altrimenti verrebbe violato l'obbligo di cui all'art. 18, comma 3, lett. b), di indicare l'incarico in ricorso. La probabile aporia — tenuto conto del carattere pressoché scolastico della fattispecie — dovrebbe comunque ritenersi improduttiva di negativi effetti se non altro perché sia l'omessa indicazione della categoria cui appartiene il difensore e sia l'omessa indicazione dell'incarico allo stesso non sono dall'art. 18, comma 4, sanzionate con l'inammissibilità del ricorso (Giovannini, Il ricorso e gli atti impugnabili, in Il processo tributario, 358, a cura di Tesauro; Pistolesi, in Riv. Dir. sc. Fin., 2002, I, 308; Finocchiaro, Finocchiaro, 396; v., però, per la contraria opinione, Russo, 466). In un caso la giurisprudenza ha ritenuto possibile un conferimento implicito di incarico ravvisato nella circostanza che il ricorso pur privo di mandato ad litem - non solo era stato sottoscritto sia dalla parte che dal difensore — ma anche perché nello stesso si era dato conto del fatto che la ridetta parte stava in giudizio «con il ministero» del medesimo difensore (Cass. V, 251/2012). Con ciò venendosi quindi a legittimare anche la tesi che la mancata indicazione dell'incarico non dà luogo a inammissibilità. Incarico e procura: rinvio Sulle forme di conferimento dell'incarico — in particolare sul conferimento della procura — nonché sulla validità delle stesse — v. sub art. 12. L'indicazione dell'indirizzo di posta certificata del difensore L'art. 18, comma 3, lett. c), come modificato dall'art. 9, d.lgs. n. 156/2015 dispone che nel ricorso sottoscritto dal difensore, e, quindi ad esclusione del caso in cui, ai sensi dell'art. 12, comma 5, d.lgs. n. 546/1992, la parte stia in giudizio personalmente, debba essere indicato anche l'«indirizzo di posta elettronica certificata del difensore». Ai sensi dell'art. 16-bis, comma 4, d.lgs. n. 546/1992, l'indicazione dell'indirizzo PEC ha valore di elezione di domicilio a tutti gli effetti. In ogni caso, è ad oggi rimasta ferma la formulazione dell''art. 18, comma 4, nella parte in cui esclude che l'omessa indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata sia motivo di inammissibilità del ricorso. Va, però, ricordato che l'art. 13, comma 3-bis, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, prescrive, nel caso di omessa indicazione della PEC del difensore nel ricorso tributario, come per l'omessa indicazione del fax o del codice fiscale, che «il contributo unificato è aumentato della metà». L'inammissibilità del ricorsoIn dottrina è comune la preventiva osservazione della differente scelta fatta dal legislatore del processo civile — laddove alle violazioni di forma dell'atto introduttivo viene fatta conseguire la sanzione della nullità normalmente sanabile ai sensi dell'art. 164 c.p.c. — rispetto a quanto invece previsto dall'art. 18, comma 4 che per i vizi di forma ivi espressamente indicati stabilisce invece la più drastica sanzione della inammissibilità insanabile in quanto «rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio» siccome statuito dall'art. 22, comma 2 (Tesauro, 144; Finocchiaro, Finocchiaro, 397; Russo, 466; Bafile, 121). Occorre tuttavia evidenziare come la dottrina — anche tralasciando il tentativo di equiparazione della sanzione della inammissibilità tributaria alla sanzione di nullità (Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 531) — abbia sempre sollecitato, come sopra evidenziato, nell’analisi di ciascuna delle indicazioni prescritte dalla norma, una lettura restrittiva dell'inammissibilità comminata dall'art. 18, comma 4, privilegiando una interpretazione che riduca al minimo la fattispecie della assoluta incertezza delle obbligatorie indicazioni dalla quale far conseguire l'inammissibilità del ricorso (Finocchiaro, Finocchiaro, 399; Falsitta, I, 590; Tesauro, 2013, 144). Come sopra pure analiticamente veduto anche la giurisprudenza — al di là dell'ovvia affermazione del carattere tassativo della previsione delle obbligatorie indicazioni per le quali in caso di mancanza o assoluta incertezza l'art. 18, comma 4 commina la sanzione della inammissibilità (v. Cass. V, n. 11587/2006, in tema di inosservanza della abrogata legge sul bollo) — ha interpretato in modo assolutamente restrittivo la fattispecie della inammissibilità. Il principio di «chiarezza e sinteticità» degli atti processualiL'art. 17 ter del d.lgs. n. 546/1992 (introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. h, d.lgs.. 30 dicembre 2023, n. 220) impone, al comma 1, che, per i giudizi instaurati con atto notificato successivamente al 1° settembre 2024, il ricorso (del pari di tutti gli altri atti del processo, dei verbali e dei provvedimenti del giudice) sia redatto in modo chiaro e sintetico. Il mancato rispetto di tali requisiti avrà effetto sulla determinazione da parte del giudice delle spese di giudizio (art. 15, comma 2 nonies,d.lgs. n. 546/1992). Il comma 3, dell'art. 17-ter statuisce, inoltre, che nella liquidazione delle spese del giudizio deve tenersi in ogni caso conto della violazione ad opera dei difensori delle parti delle previsioni di cui al comma 4-bis dell'articolo 16-bis, nonché di quelle relative alle norme tecniche del processo tributario telematico, fermo l'obbligo delle parti di provvedere alla regolarizzazione entro il termine perentorio stabilito dal giudice. BibliografiaAllorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969; Bafile, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994; Bafile, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, III ed., Torino, 2018; Bellagamba, Il contenzioso tributario dopo il decreto-legge 16 maggio 1996, n. 259, Torino, 1996; Guarnieri-Spaccapelo, in Consolo, Glendi (a cura di) Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, V ed., 2023; Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, VIII ed., Padova, 2022; Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003; Finocchiaro, Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996; Glendi Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990; Glendi, L'oggetto del processo tributario, Padova, 1984; Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2007; Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, Milano, 1923; Pistolesi, Il processo tributario, Torino, 2021; Randazzo, Manuale di dritto tributario, III ed., Torino, 2023; Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1996; Satta Diritto processuale civile, IX ed., Padova, 1981; Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2013; Tesauro (a cura di), Codice ipertestuale commentato del processo tributario, Torino, 2011; Tesauro (a cura di), Il processo tributario. Giurisprudenza sistematica del diritto tributario, Torino, 1998; Turchi, I poteri delle parti nel processo tributario, Torino, 2003. |