Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 35 - Deliberazioni del collegio giudicante 1 2 .

Andrea Antonio Salemme

Deliberazioni del collegio giudicante12.

1. Il collegio giudicante, subito dopo la discussione in pubblica udienza o, se questa non vi è stata, subito dopo l'esposizione del relatore, delibera la decisione in segreto nella camera di consiglio e, al termine, dà lettura immediata del dispositivo, salva la facoltà di riservarne il deposito in segreteria e la sua contestuale comunicazione ai difensori delle parti costituite entro il termine perentorio dei successivi sette giorni3.

2. Quando ne ricorrono i motivi la deliberazione in camera di consiglio può essere rinviata di non oltre trenta giorni.

3. Alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui agli articoli 276 e seguenti del codice di procedura civile. Non sono tuttavia ammesse sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande.

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 84 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

Inquadramento

La deliberazione del collegio giudicante, emessa subito dopo la discussione in pubblica udienza o, se questa non vi è stata, subito dopo l'esposizione del relatore all'udienza in camera di consiglio, è atto interno che acquista i caratteri della imperatività e della immutabilità solo al momento della pubblicazione del testo integrale originale della sentenza, mediante il deposito della stessa nella segreteria della commissione tributaria.

Al fine di dare attuazione al criterio direttivo di cui all'articolo 19, comma 1, lettera e), legge n. 111/2023 (delega per la riforma fiscale), relativo alla comunicazione tempestiva del dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali, l'art. 1, comma 1, lett. p), del d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, è intervenuto sulla disciplina prevista dall'art. 35, comma 1, introducendo la previsione della lettura immediata del dispositivo da parte del collegio, salva la facoltà di riservarne il deposito in segreteria e la sua contestuale comunicazione ai difensori delle parti costituite entro il termine perentorio dei successivi sette giorni. La disciplina previgente sanciva le modalità di deliberazioni del collegio, previa udienza ovvero camera di consiglio, ma non prescriveva un termine per il deposito del dispositivo in segreteria del dispositivo; come accennato, con l'art. 19, comma 1, lett. e), è stato delegato il Governo a: 1.    Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1 il Governo osserva altresì i seguenti princìpi e criteri direttivi specifici per la revisione della disciplina e l'organizzazione del contenzioso tributario: (…) e)  prevedere la pubblicazione e la successiva comunicazione alle parti del dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali entro sette giorni dalla deliberazione di merito, salva la possibilità di depositare la sentenza nei trenta giorni successivi alla comunicazione del dispositivo; (…).

Modalità delle deliberazioni

Per le modalità delle deliberazioni del collegio giudicante bisogna fare riferimento all'art. 276 c.p.c. e all'art. 119 disp. att. c.p.c., che disciplinano, con rigide regole, la fase conclusiva dell'iter processuale: il collegio, sotto la direzione del presidente e nel segreto della camera di consiglio, cui possono partecipare solo i giudici che hanno assistito alla discussione, decide gradatamente, secondo un ordine logico facilmente intuibile, le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e poi il merito della causa (Azzoni, 4453).

Se non vi è unanimità, la decisione è presa a maggioranza: il primo a votare è il relatore, quindi l'altro giudice e infine il presidente.

Regole particolari sono dettate per l'ipotesi in cui dalla dialettica della camera di consiglio emergano più di due soluzioni: il presidente mette ai voti due soluzioni per escluderne una e, quindi, mette ai voti la non esclusa e quella restante o una di esse e così via successivamente, attraverso un procedimento per riduzioni successive, fino all'alternativa finale.

Chiusa la votazione, il presidente sottoscrive il dispositivo che contiene le statuizioni adottate dal collegio, mentre la stesura della motivazione in linea di principio è affidata allo stesso relatore, la cui scelta, a priori, è attribuita alla discrezionalità del presidente di sezione, seppure nel rispetto dei criteri oggettivi di massima fissati nelle direttive del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (Ceniccola). Il comma 5 dell'art. 276 c.p.c. prevede comunque la possibilità per il presidente, questa volta di collegio, di affidare la stesura della motivazione a sé medesimo, o ad altro giudice, che deve essere scelto, come previsto dal comma 4 dell'art. 118 disp. att. c.p.c., fra i componenti del collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione (disposizione, quest'ultima posta, a tutela della libertà di coscienza del giudice, il quale, essendo soggetto solo alla legge ex art. 101, comma 2, Cost., non può essere costretto a motivare una decisione che non ha condiviso.

È stato affermato che se il collegio che ha pronunziato la decisione è diverso da quello dinanzi al quale si è discussa la causa, non è ravvisabile un'ipotesi di (correggibile) errore materiale, bensì di nullità della sentenza per violazione del principio di immodificabilità del giudicante (Cass. II, n. 24951/2016).

Gli adempimenti successivi alla stesura della motivazione sono disciplinati dal citato art. 119 disp. att. c.p.c., che, concepito in un momento storico diverso dall'attuale, prevede che il giudice deve consegnare la «minuta» al cancelliere, per consentirgli la scritturazione dell'originale, cui segue l'onere successivo della c.d. collazione prima della sottoscrizione.

Ogni eventuale divergenza tra la minuta della deliberazione camerale, sottoscritta solo dal presidente, e la sentenza depositata, sottoscritta congiuntamente dal giudice estensore e dal presidente, non può inficiare la validità della sentenza depositata; non costituisce, altresì, “errore di fatto revocatorio” atteso che tale minuta non costituisce atto o documento processuale, tanto è vero che l’art. 25, comma1, d.lgs. n. 546/1992 non ne prevede l’inserimento nel fascicolo d’ufficio del processo. Secondo la Suprema Corte, "vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall'altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. S.U., n. 5303/1997; v. poi Cass. S.U., n. 561/2000; Cass. S.U., n. 15979/2001; Cass. S.U., n. 23856/2008; Cass. S.U., n. 4413/2016)"

In realtà, nelle commissioni tributarie, è prevalsa la prassi, dettata anche dall'esigenza di evitare lunghe giacenze delle minute in segreteria, di consegnare la sentenza e più in generale i provvedimenti già in originale, manoscritti, dattiloscritti o stampati con il personal computer. Con il PTT la sentenza nasce già in forma digitale e come tale tra l'altro è sottoscritta da presidente e giudice relatore/estensore.

Segretezza delle deliberazioni

Nel momento della deliberazione deve essere sempre, rigidamente, rispettata la modalità della segretezza.

Nella camera di consiglio possono (e debbono) essere presenti soltanto i componenti del collegio, con esclusione del segretario verbalizzante e di qualsiasi altro soggetto, ivi compresi altri giudici estranei al collegio. L'ammissione o la tolleranza della presenza di terzi non sono compatibili con la protezione del segreto di ufficio e potrebbero, peraltro, integrare la fattispecie di reato di cui all'art. 326 c.p., come ricordato anche dalle risoluzioni n. 2 del 2002 e n. 6 del 2013 del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria.

Per quanto attiene all'immediata lettura del dispositivo e/o all'immediato deposito dello stesso in segreteria, in passato tale era l'indicazione, giacché l'art. 20, comma 5, dell'allora vigente d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, sul contenzioso tributario, espressamente prescriveva che «il dispositivo della decisione, sottoscritto dal Presidente, è depositato immediatamente nella Segreteria e le parti possono prenderne visione».

Ora, però, è mutato il quadro normativo. In materia si applicano le già richiamate disposizioni degli artt. 276 ss. c.p.c., in virtù del rinvio contenuto nel comma 3 dell'art. 35 in commento. L'art. 276, ultimo comma, c.p.c., tra l'altro così recita: «chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo», ma non ne prevede il deposito in segreteria, né la possibilità per le parti di prenderne visione. L'art. 133, comma 1, c.p.c. e l'art. 120 disp. att. c.p.c., prescrivono la pubblicazione della sentenza mediante il suo deposito in cancelleria. In base al comma 2 dello stesso art. 133, l'avvenuto deposito è comunicato alle parti dal cancelliere entro cinque giorni «mediante biglietto contenente il dispositivo» della sentenza. L'art. 37 d.lgs. n. 546/1992, recependo le suindicate disposizioni processual-civilistiche, così, infine, dispone: «Il dispositivo della sentenza è comunicato alle parti costituite entro 10 giorni dal deposito».

In definitiva, il dispositivo delle sentenze pronunciate dalle commissioni tributarie può giungere a conoscenza delle parti solo a seguito della comunicazione della segreteria e questa può essere eseguita solo successivamente al deposito della sentenza già corredata dalla motivazione. Fino a quel momento il dispositivo provvisoriamente deliberato in camera di consiglio, anche se annotato in appunti informali o in un brogliaccio riservato, è e deve restare segreto e non ne può essere data lettura né al termine della camera di consiglio, né successivamente, fino al momento del deposito in segreteria della sentenza nella sua completezza, con il dispositivo corredato delle motivazioni.

Il deposito - per la pubblicazione - della sentenza sostituisce ed assorbe ogni precedente minuta, che non può -in quanto ad esclusivo ausilio presidenziale (o del giudice monocratico nelle cause di cui all'art. 70, comma 10-bis, d.lgs. n. 546/1992)- avere mai alcun rilievo esterno al collegio (o al giudice monocratico), né essere mai inserita -come tale- nel fascicolo d'ufficio del processo (non prevista dall'art. 25, comma 1, d.lgs. n. 546/1992) o in banche dati. Infatti, l'art. 37, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, -in consonanza con l'art. 133, comma 2, c.p.c.- dispone che: “il dispositivo della sentenza è comunicato alle parti costituite entro 10 giorni dal deposito” e -comunque- certamente mai prima del deposito dell'assorbente sentenza, che è già “ex se” l'unico dispositivo e l'unica motivazione. (D.Chindemi e S.Labruna,Decisione nel processo tributario: dalla deliberazione in segreto in camera di consiglio alla pubblicazione nella sentenza” in Focus Giuffrè del 03 Gennaio 2019)

Peraltro, mantenendo la stessa segretezza, il progetto di deliberazione che necessiti di essere articolato in più camere di consiglio del medesimo collegio giudicante, può essere rinviato — fino a 30 giorni — nella stesura finale del dispositivo ai sensi dell'art. 35, comma 2, d.lgs. n. 546/1992. Di ciò va dato atto nel verbale.

In caso di rinvio della deliberazione rispetto alla discussione in pubblica udienza o all'esposizione del relatore (ove non vi sia udienza pubblica), il mancato rispetto del termine di trenta giorni stabilito dall'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992 non comporta nullità della decisione, trattandosi di termine ordinatorio in quanto non espressamente dichiarato perentorio dalla legge (Cass. VI – 5, ord., n. 2299/2020), inoltre, tale rinvio, non costituisce una violazione del diritto di difesa del contribuente, lasciando intatti il potere d'impugnare ed i relativi termini (Cass. V, n. 17163/2015).

All'occorrenza si applica l'art. 131, comma 3, c.p.c., (come introdotto dall'art. 16, comma 2, l. n. 117/1988, “Dissenting Opinion”, successivamente modificato per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 18/1989, che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui dispone che "è compilato sommario processo verbale" anziché "può, se uno dei componenti dell'organo collegiale lo richieda, essere compilato sommario processo verbale"): Dei provvedimenti collegiali può, se uno dei componenti dell'organo collegiale lo richieda, essere compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio.”   Art. 16, comma 3, l. n. 117/1988: “… le disposizioni di cui al comma 2 si applicano anche ai provvedimenti dei giudici collegiali aventi giurisdizione in ogni altra materia. Il verbale delle deliberazioni è redatto dal meno anziano dei componenti del collegio o, per i collegi a composizione mista, dal meno anziano dei componenti togati, ed è sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso”.

Deliberazione, il merito della pretesa

Il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, bensì tra quelli di "impugnazione-merito", in quanto diretto ad una decisione sostitutiva. Esso, infatti, non mira alla mera eliminazione dell'atto impugnato ma è diretto alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva, sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell'accertamento dell'amministrazione finanziaria. Dunque il giudice tributario, che ravvisi l'infondatezza parziale della pretesa dell'amministrazione, non può limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve quantificare l'esatta pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti, onde ricondurla alla corretta misura.

Sicché il giudice, ove ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (Cass. V, ord., n. 18777/2020), restando, peraltro, esclusa dall'art. 35, comma 3, ultimo periodo, del d.lgs. n. 546/1992, la pronuncia di una sentenza parziale solo sull'"an" o di una condanna generica (Cass. V, n. 13294/2016).

Deliberazione, divieto di sentenze non definitive e giudicato: differenze con il processo civile

Si è scritto che la cosa giudicata è «l'affermazione indiscutibile, e obbligatoria per i giudici di tutti i futuri giudizi, d'una volontà concreta di legge, che riconosce o disconosce un bene della vita a una delle parti» (Chiovenda, 324). Tale affermazione è, ovviamente, contenuta in un provvedimento del giudice, in quel provvedimento decisorio tipico che è la sentenza, la quale materialmente si compone di due parti essenziali: il dispositivo e la motivazione (ex artt. 132 c.p.c. e art. 36 d.lgs. n. 546/1992).

Di recente si propone di opinare che l'efficacia della cosa giudicata renda vincolante il concreto provvedimento di tutela giuridica contenuto nella sentenza, assoggettando le parti, i loro eredi e aventi causa alla statuizione enunciata dal giudice nel decidere sulla domanda dedotta in giudizio e che ha formato l'oggetto della controversia. Secondo tale impostazione, l'efficacia vincolante, prodotta dal passaggio in giudicato, non si estende ai motivi della sentenza, né all'accertamento dei fatti, né alle questioni pregiudiziali eventualmente esaminate, ma si concentra tutta sull'atto di tutela giuridica, cioè sulla statuizione contenuta nella sentenza e destinata a valere come disciplina del caso dedotto nel giudizio» (Liebman, 411).

Tuttavia, alla stregua dell'orientamento prevalente ed in certo qual modo “classico” (Andrioli, 991), suscettibile di passare in giudicato è la sentenza, come provvedimento (pubblico) autoritativo del giudice, qualunque ne sia il contenuto (sia, cioè, che decida nel merito, attribuendo o negando il c.d. bene della vita o in generale un diritto, sia che decida su questioni processuali, ex art. 279, comma 2, c.p.c., quali la competenza, la giurisdizione, l'inammissibilità, l'improcedibilità, l'irricevibilità), purché con la sentenza il giudice, in qualunque (fase e) grado di giudizio, abbia inteso metter fine alla controversia (o alla parte della controversia rilevante nel segmento decisorio), pronunciandosi risolutivamente sulle questioni affrontate. Solo contingentemente la sentenza affronta e decide le questioni di merito, allorquando cioè risolve, o comunque siano state già risolte, negativamente le questioni lato sensu in rito, che possono essere questioni pregiudiziali propriamente dette o anche preliminari di merito. Quando la sentenza attinge il merito, al quale soltanto l'esaminato orientamento “restrittivo” ricollega l'attitudine al giudicato, per tale deve intendersi l'oggetto della domanda giudiziale, come definitosi nel contraddittorio delle parti ed individuato dalle conclusioni giust'appunto di merito formulate nel rimettere la causa al giudice per l'adozione della decisione finale.

Nel processo civile ordinario la sentenza può portare immediatamente alla decisione di tutta la lite (ex art. 277, comma 1 c.p.c.), oppure no, essendo ammesse anche pronunce su questioni pregiudiziali di rito, o preliminari di merito, litis ingressum impedientes, con particolare riferimento ad accertamenti c.d. incidentali (ex artt. 34 e 420, comma 4 c.p.c.). Quando ricorrono decisioni su questioni pregiudiziali o preliminari risolte negativamente, con la conseguenza che l'iter del processo prosegue dinanzi allo stesso giudice di merito, le decisioni stesse (ad esempio su giurisdizione, competenza ed altri presupposti processuali) non acquistano la forza propria del giudicato, quella cioè del c.d. esterno, con efficacia panprocessuale, in quanto sono destinate a valere solo nel giudizio in cui sono state rese (ragion per cui si ragiona di decisioni suscettibili di costituire eventualmente un c.d. giudicato meramente interno, con efficacia endoprocessuale. Oltre a ciò, il giudice civile ordinario può anche limitarsi a decidere solo su una parte della domanda introduttiva, ovvero alcune delle plurime domande proposte, in tal caso pronunciando sentenze parziali non definitive ai sensi dell'art. 277, comma 2, c.p.c.

Proprio in relazione al momento della decisione, il processo tributario evidenzia le più marcate differenze rispetto al processo civile ordinario sin qui sunteggiato, giacché nel primo il comma 3 dell'art. 35 in commento pone un esplicito divieto concernente la deliberazione di «sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande». Aggiungasi che – come precisato dalla giurisprudenza – non è consentita neppure la sospensione del processo in attesa della pronuncia di un giudice appartenente ad altra giurisdizione, salvo che in caso di presentazione di querela di falso o di decisione in via pregiudiziale di una questione sullo stato o sulla la capacità delle persone. Cass. V, n. 7909/2007 (e, da ultimo, Cass. V, ord., n. 31439/2018), sul punto, insegna che il comma 3 è una norma di carattere eccezionale che introduce una deroga rispetto al regime previsto per il processo civile dall'art. 279 c.p.c., giustificata – come precisato dalla Relazione ministeriale sullo schema del d.lgs. n. 546/1992 per la riforma del contenzioso tributario – dall'esigenza di evitare gli inconvenienti a cui il frazionamento dei giudizi dà generalmente luogo anche nel processo civile, avuto specifico riguardo alla peculiare struttura del processo tributario ed al sistema di riscossione frazionata dei tributi, contro cui l'istituto delle sentenze non definitive e, a maggior ragione, quello delle impugnazioni differite che solitamente vi si accompagna, verrebbe inevitabilmente a configgere. La S.C., andando al sodo della questione, coglie sinteticamente il punto: il comma 3 porta una deroga espressa al sistema delle disposizioni del Codice di Procedura Civile pur richiamate – come evidenzia quel tuttavia che funge da intercalare nel secondo periodo – in funzione delle caratteristiche proprie della “materia prima” su cui il processo tributario è destinato ad operare, giacché, a fronte dell'usuale frazionamento in ragione non solo d'anno, ma anche d'imposta e di soggetti nella duplice fase dell'accertamento e della riscossione, il regime di decidibilità delle frazioni con sentenze non definitive, per quanto apparentemente comoda in primo grado, farebbe “esplodere” il contenzioso nei gradi successivi; detto regime di decidibilità, peraltro, sarebbe comodo in primo grado solo all'apparenza, giacché il sovrapporsi di sentenze non definitive – e puntualmente riservate d'impugnazione – determinerebbe nell'ambito dello stesso processo una stratificazione decisoria, quantomeno per anno o per imposta, foriera di evidenti pericoli di confusione.

La descritta ratio del comma 3 è a tal punto assorbente da impedire tout court le sentenze non definitive, ancorché impingenti su questioni in rito: fermo che queste, a motivo del carattere impugnatorio del processo tributario, sono di per sé esigue, la ferrea concentrazione della trattazione ammette il rischio di una disamina di merito eventualmente inutile, alla luce, ma solo ex post, di una decisione meramente in rito: tuttavia è un gioco che val bene la candela, evitando le deteriori conseguenze dello “spezzatino”.

In considerazione delle superiori precisazioni vale l'ulteriore affermazione – che nuovamente risale alla giurisprudenza – per cui il comma 3 costituisce, bensì, una norma eccezionale, in quanto derogatoria dell'art. 279 c.p.c., ma non incide affatto sulla logica interna delle decisioni, che resta quella di cui all'art. 276 c.p.c., secondo la quale le decisioni di merito possono implicare una decisione sulle questioni preliminari o pregiudiziali, mentre la decisione su queste ultime, pur definendo l'intera materia del contendere, non affronta le questioni di merito, che restano assorbite, senza essere decise in un senso o nell'altro e dunque tecnicamente pregiudicate (Cass. V, n. 2254/2011).

È per tali motivi che anche nel processo tributario si configura comunque la possibilità che maturi un giudicato interno, qualora una tal questione, pur introdotta, discussa e decisa in primo o secondo grado, non sia stata dedotta rispettivamente nel giudizio di appello e in quello di cassazione [a tal proposito rammentasi che, secondo un'opinione consolidata, «nel processo tributario, la parte, totalmente vittoriosa nel merito, rimasta soccombente su una determinata questione (nelle specie, omessa notifica della cartella di pagamento), onde evitare la formazione del giudicato interno, deve necessariamente proporre impugnazione incidentale sul punto, non essendo sufficiente la mera riproposizione della questione in appello, ai sensi dell'art. 56 del d.lgs. n. 546/1992, poiché la dizione «non accolte» ivi utilizzata riguarda le sole domande ed eccezioni su cui il giudice non si sia espressamente pronunciato (Cass. V, n. 16477/2016; conf. Cass. V, n. 23228/2015; Cass. V, n. 7702/2013). Di converso, «l'Amministrazione soccombente, che impugni la sentenza di primo grado sulla sola questione preliminare (nella specie, tardività della notifica della cartella impugnata), non rinuncia a far valere nel merito la pretesa tributaria, atteso che l'art. 56 del d.lgs. n. 546/1992 va riferito solo all'appellato e non anche all'appellante» (Cass. V, n. 8332/2016).

Tuttavia, nuovamente, vengono in rilievo le peculiarità proprie della “materia prima” di cui il processo tributario si occupa. Per l'effetto «l'effetto di acquiescenza, ex art. 329, comma 2, c.p.c., alle parti della sentenza non impugnate — la cui produzione ne presuppone l'autonomia e la non dipendenza da quella oggetto di impugnazione, come può verificarsi soltanto se la decisione contenga più capi contro i quali la parte ha interesse ad impugnare – non è ravvisabile ove la decisione riguardi distinti periodi d'imposta e la contestazione investa elementi o presupposti di fatto comuni e ricorrenti negli stessi, atteso che, in siffatta ipotesi, se è vero che l'autonomia dei periodi d'imposta distingue le diverse pretese creditorie, ciò non vale, tuttavia, ad identificare altrettanti diversi capi della domanda, né, tantomeno, diverse parti della sentenza, cosicché detta contestazione, anche in assenza di un esplicito riferimento a ciascuno dei distinti anni d'imposta, non può non intendersi riferita all'intero oggetto del contendere» (così Cass. V, ord. n. 13047/2017, la quale ha cassato l'impugnata sentenza che, in un giudizio concernente più avvisi di accertamento ai fini IRPEF, IRAP e IVA, ciascuno per un distinto anno d'imposta, ma tutti fondati sulla contestazione di elementi o presupposti di fatto comuni e ricorrenti nei vari anni, aveva affermato l'esistenza di un giudicato interno con riferimento all'avviso di accertamento relativo a uno di essi, in ragione della mancanza, nel ricorso in appello dell'ufficio, di specifici elementi di critica al medesimo afferenti).

Bibliografia

Andrioli, Diritto processuale civile, vol. I, Napoli, 1979, 991; Azzoni, Processo tributario: la deliberazione della sentenza tributaria, in Il fisco, 2006, 29, 4453; Ceniccola, Il controllo della motivazione della sentenza tributaria. Esecuzione ed ottemperanza, in Giustizia tributaria, Rivista telematica 31 maggio 2014;  Chindemi, Labruna, Ultime misure governative volte al contenimento della diffusione contagiosa “COVID-19” che impattano sulla giustizia tributaria, in ilTributario.it, 11 novembre 2020; Chindemi e Labruna, Decisione nel processo tributario: dalla deliberazione in segreto in camera di consiglio alla pubblicazione nella sentenza” in ilTributario.it  3 gennaio 2019; Chindemi e Labruna, Trattazione, discussione e deliberazione da remoto dopo l'emanazione del Decreto "rilancio" , in ilTributario.it  28 maggio 2020;  Chindemi e Labruna, D.l. 28 ottobre 2020, n°137, c.d. “decreto ristori”; d.p.c.m. 3 novembre 2020 e d. mef 6 novembre 2020, n°44: ultime misure governative volte al contenimento della diffusione contagiosa “covid-19” che impattano sulla giustiziatributaria, in ilTributario.it  10 novembre 2020;Liebman, Manuale di diritto processuale civile, vol. II, Milano, 1984, 411; Simone e Labruna, Emergenza epidemiologica da COVID-19 e lo Statuto dei diritti del Contribuente, ilTributario.it 20 luglio 2020.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario