Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 44 - Estinzione del processo per rinuncia al ricorso 1 2 .1. Il processo si estingue per rinuncia al ricorso. 2. Il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti salvo diverso accordo fra loro. La liquidazione è fatta dal presidente della sezione o dalla commissione con ordinanza non impugnabile [, che costituisce titolo esecutivo] 3. 3. La rinuncia non produce effetto se non è accettata dalle parti costituite che abbiano effettivo interesse alla prosecuzione del processo. 4. La rinuncia e l'accettazione, ove necessaria, sono sottoscritte dalle parti personalmente o da loro procuratori speciali, nonché, se vi sono, dai rispettivi difensori e si depositano nella segreteria della commissione. 5. Il presidente della sezione o la commissione, se la rinuncia e l'accettazione, ove necessaria, sono regolari, dichiarano l'estinzione del processo. Si applica l'ultimo comma dell'articolo seguente. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 93 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Comma modificato dall'articolo 9, comma 1, lettera p), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. Inquadramento.Di regola il processo si conclude con una sentenza, salva l'eventualità della proposizione delle impugnazioni. Tuttavia, il processo può estinguersi prima ancora della sua naturale conclusione per il verificarsi di talune cause che danno vita ad una ulteriore vicenda anormale del processo che si arresta senza avere raggiunto il traguardo dell'emanazione di una sentenza definitiva (La Rocca, 1231). La dottrina processual-civilistica ha chiarito che la funzione dell'istituto è quella di evitare la prosecuzione dell'attività processuale quando tutte le parti, o per accordo esplicito (rinuncia e relative accettazione) o per comportamento concludente (c.d. inattività), la ritengono ormai inutile (Mandrioli, 374). Il d.lgs. n. 546/1992 dedica tre articoli all'estinzione del processo tributario: l'art. 44, concernente la rinuncia al ricorso, l'art. 45, relative alla inattività delle parti e, infine, l'art. 46, in tema di cessazione della material del contendere. La norma in commento, relativa alla rinuncia al ricorso, disciplina l'ipotesi in cui il ricorrente non intenda proseguire nel giudizio ricalcando, salvi gli adeguamenti del caso, la disciplina di cui all'art. 306 c.p.c. relativa all'estinzione del processo per «rinuncia agli atti del giudizio», ossia alla domanda e a tutti gli atti successivi del processo. La rinuncia, quindi, integra un atto giuridico processuale con il quale il rinunciante manifesta la volontà di non volere più nessuna pronuncia del giudice sulla sua domanda e, di conseguenza, libera il giudice stesso del potere-dovere di emettere la propria decisione su quella domanda (Buscema, 808). La rinuncia al ricorso, quindi, deve essere sussunta nell'ambito della rinuncia agli atti del giudizio in quanto delimita la proria efficacia nell'ambito del rapporto e, almeno in astratto, non preclude la possibilità di riproporre un ricorso che contenga la stessa domanda (La Rocca, 1231). Essa, pertanto, deve essere tenuta distinta dalla rinuncia alla domanda (o all'azione), la quale costituisce un modo improprio per designare la rinuncia al diritto sostanziale sottostante. Invero, la dottrina processual-civilistica e la giurisprudenza sono solite mettere in evidenza che, mentre la rinuncia all'azione incide sul diritto e quindi preclude ogni ulteriore tutela giurisdizionale, la rinuncia agli atti agisce solo sul processo, la cui estinzione lascia salvo l'esercizio dell'azione in nuovo processo (Mandrioli, 377). Ebbene, anche nel processo tributario è necessario distinguere la rinuncia al ricorso rispetto alla rinuncia alla domanda. Ciò in quanto, «mentre la prima non preclude la riproponibilità di un ricorso che contenga la stessa domanda, la seconda implica l'estinzione, per rinuncia, della pretesa vantata con il ricorso» (v. circolare dell'Agenzia delle dogane 4 aprile 2002, n. 26/D; in dottrina v. Castaldi, 449; Colonna, f. 1, 5610; Ferro, 391). Peraltro, come osservato da attenta dottrina (Castaldi, 450), nel processo tributario risulta in concreto difficilmente configurabile una rinuncia all'azione. Invero, si è rilevato che i ridotti termini decadenziali riconosciuti al contribuente per la proposizione dell'azione giurisdizionale davanti alle Commissioni tributarie non solo rendono irrealistica la prospettazione di una formale rinuncia all'azione (essendo a tal uopo sufficiente la mera acquiescenza alle pretese avanzate dall'amministrazione finanziaria), ma consentono altresì di rilevare che nella maggioranza dei casi la rinuncia agli atti del giudizio nel processo tributario finisce per comportare indirettamente i medesimi effetti di incontrovertibilità tipici della rinuncia all'azione. La rinuncia può avvenire in ogni grado del giudizio. Dopo la pronuncia di primo grado può distinguersi tra rinuncia all'appello, disciplinata dalla norma in esame e concernente il ricorso in secondo grado già ritualmente presentato, e rinuncia alla proposizione dell'appello (non ancora presentato). Quest'ultima ipotesi, a differenza della prima, è conseguenza di una decisione o un accordo extragiudiziale e si manifesta nella non proposizione dell'impugnazione (e nella sua invalidità, se presentata successivamente). Diversa, inoltre, è l'ipotesi di rinuncia alla sentenza, da intendersi come rinuncia a valersi degli effetti della sentenza ed oggetto, anch'essa, di un accordo (c.d. pactum de non exequendo) o come rinuncia alla stessa pronuncia ex art. 186-quater, comma 4, c.p.c. (Giorgetti, Le rinunce alle impugnazioni civili, Milano, 2000, 431 ss.), non applicabile peraltro al processo tributario. La distinzione fra la rinuncia al ricorso e la rinuncia alla pretesa sostanziale, consacrata nel combinato disposto degli articoli 306 e 310 c.p.c., ancorché non riprodotta integralmente negli articoli 44,45 e 46 d.lgs. n. 546 del 1992, attinenti alla estinzione del processo tributario, deve infatti considerarsi regola di carattere generale applicabile anche nel suddetto processo in virtù del generale rinvio al codice di rito di cui all'articolo 1 del citato Decreto Legislativo, allorché sia palese, come nella specie, la limitazione della rinuncia ai soli atti del giudizio (e non alla pretesa sostanziale, per i manifesti motivi processuali di cui si è detto); ciò in ragione della necessaria armonizzazione del sistema procedurale civilistico con quello tributario, pur nel rispetto della parziale autonomia di quest'ultimo, conformandosi una tale armonizzazione ai criteri costituzionali del giusto processo, diretti a realizzare compiutamente il diritto di difesa (già fortemente compresso nel processo tributario rispetto al modello civilistico classico: attraverso l'esclusione di ipotesi di inammissibilità non espressamente comminate — come nella specie — dalla legge, posto che l'articolo 44 d.lgs. cit. non prevede una tale inammissibilità, nel caso di tempestiva riproposizione di un ricorso, già oggetto di una pronuncia di estinzione per rinuncia, allorché sia palese la volontà di rinunciare ai soli atti del giudizio, e non all'azione. (Cass. n. 26292/2010; Cass. n. 26292/2010; Cass. n. 8182/2007). Più in particolare, in coerenza con i principi dottrinali innanzi brevemente ricordati, con riferimento alla rinuncia al ricorso nel processo tributario, la Cassazione (Cass. n. 8182/2007) ha affermato che l'estinzione del giudizio per effetto di questo tipo di rinuncia non influisce sull'efficacia di un secondo, ulteriore ricorso, tempestivamente proposto dal contribuente avverso il medesimo atto impositivo, in epoca successiva alla prima impugnazione, cui si è rinunciato, ed in sostituzione della stessa. Qualora, in pendenza del procedimento di appello, dopo la notificazione dell'atto di gravame, ancorchè non seguita dalla iscrizione a ruolo e dalla costituzione in giudizio, l'appellante notifichi alla controparte, in pari data, rinuncia agli atti del procedimento instaurato con detto gravame, nonché una rinnovazione del gravame medesimo, il perfezionarsi di tale rinuncia, per effetto di accettazione della controparte determina l'estinzione di quel procedimento di appello ed il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, e, quindi, a prescindere dagli eventuali diversi scopi che il rinunciante si fosse proposti, implica l'inidoneità di detta rinnovazione del gravame a riattivare il precedente giudizio di secondo grado, ovvero ad instaurarne uno nuovo, ostandovi il divieto del ne bis in idem. Tuttavia, se il ripensamento ha ad oggetto il ricorso in appello, non è possibile promuovere una nuova impugnazione della sentenza di primo grado (Cass. n. 5911/1980). La rinuncia agli atti, compiuta in appello, di un giudizio definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione investe soltanto gli atti del procedimento di gravame, e comporta il passaggio in giudicato della pronuncia in conseguenza della sopravvenuta inefficacia della sua impugnazione, in quanto l'estinzione, a norma dell'articolo 310 del c.p.c., rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo. Ne consegue che l'efficacia abdicativa in ordine all'effetto sostanziale della decisione di merito e preclusiva del potere delle parti di chiedere al giudice una nuova decisione sulla stessa controversia va riconosciuta sol- tanto a un atto che possa essere interpretato come rinuncia anche al giudicato, in quanto estesa alla sentenza già emessa e alle sue conseguenze (in difetto di un richiamo, da parte del giudice di merito, a un siffatto — ampio e complesso — con- tenuto della rinuncia agli atti in appello, la Suprema corte ha ritenuto che la pronuncia di accertamento in prime cure dell'avvenuto trasferimento di un immobile non fosse stata travolta dall'estinzione del processo) (Cass. n. 5026/2003; Cass. n. 6847/2017). La dichiarazione di rinunciaLa rinuncia, per produrre effetto, deve provenire da chi ha proposto il ricorso e deve essere accettata, a norma dell'art. 44 comma 3, dalle parti costituite che abbiano effettivo interesse alla prosecuzione del processo. In primo grado, stante la configurazione del processo tributario come giudizio di impugnazione, la rinuncia non può che provenire dal contribuente (Castaldi, 452). Nella maggioranza dei casi, la rinuncia al ricorso del contribuente comporterà il definitivo riconoscimento della pretesa impositiva, essendosi conseguiti medio tempore i termini di decadenza per la proposizione dell'azione agli organi competenti (Casoria, f. 1, 6773). La rinuncia al ricorso introduttivo di primo grado non può invece essere effettuata dall'ufficio resistente. Invero, come rilevato da attenta dottrina, l'eventuale rinuncia alla pretesa fiscale da parte dell'ufficio, incidendo sul rapporto sostanziale, comporterebbe la cessazione della materia del contendere (Buscema, f. 1, 12295). Nelle altre fasi del processo, la rinuncia può essere effettuata sia dal contribuente che dall'ente impositore. Più in particolare, si sostiene che, in secondo grado, i soggetti legittimati alla rinuncia in appello siano l'appellante (principale o incidentale) che potrà essere tanto l'ufficio quanto il contribuente, nonché l'appellato vittorioso in primo grado che rinuncia al ricorso introduttivo del processo dio primo grado (Azzoni, f. 1, 5758; Buscema, 12295). Al riguardo ci si è chiesti se l'amministrazione appellante possa o meno intervenire in autotutela, nel corso del giudizio di impugnazione, sull'atto da cui è insorta la lite. Alcuni autori sostengono che la decisione dell'amministrazione in tal senso comporti la cessata materia del contendere alla stregua dell'art. 46 del d.lgs. n. 546/1992, esattamente come avviene in primo grado. Tale soluzione trova fondamento nella disposizione di cui all'art. 2 – quater («Autotutela») del d.l. n. 546/1994, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 656/1994, il quale, nel delegare la regolamentazione della materia a uno o più decreti ministeriali, prevede, al comma 1, che lo ius poenitendi possa essere esercitato «anche in pendenza del giudizio» (Azzoni, f. 1, 5759). Al contrario, secondo diversa impostazione, la decisione dell'amministrazione di intervenire in autotutela sull'atto da cui è insorta la lite e nel corso del giudizio di impugnazione, è fatta equivalere ad una mera rinuncia agli atti del giudizio di appello in quanto il provvedimento impugnato, una volta annullato dalla Commissione provinciale, non esisterebbe più nel panorama giuridico (C.t.r. Calabria — Catanzaro, IX, 21 marzo 2002, n. 16). In realtà, si è rilevato come la questione si risolve oggi in un falso problema in quanto, qualunque sia la formula conclusiva, il giudice tributario deve sempre liquidare le spese a carico dell'amministrazione: non solo, quindi, quando prenda atto della sua rinuncia, ma anche allorquando, ponendo l'accento sull'avvenuta cessazione della materia del contendere a seguito dell'adozione di un atto in autotutela, dia spazio all'art. 46 del d.lgs. n. 546/1992 e al criterio della soccombenza virtuale, quest'ultimo ammesso (fatta slava una pur sempre possibile compensazione integrale o parziale) con una recente sentenza interpretativa di accoglimento del giudice delle leggi: Corte cost., 12 luglio 2005, n. 274 (Azzoni, 5759). Ancora, se il processo vede una pluralità di parti, occorre distinguere se si tratti di litisconsorzio necessario o meno. Nel primo caso, essendo inammissibile l'estinzione parziale, la rinuncia deve provenire da tutti i litisconsorti. In tali ipotesi è necessario che la trattazione avvenga nell'ambito di un contraddittorio integro sicché il processo può giungere all'estinzione soltanto laddove vi sia la rinuncia da parte dell'intera platea dei litisconsorti necessari (Gobbi, 517). Se invece il litisconsorzio è facoltativo, l'autonomia dei rapporti processuali, consente di ritenere che la rinuncia provochi l'estinzione relativamente e limitatamente alla parte da cui è stata effettuata (Buscema, 12295; Casoria, 6773; Ferro, 391). Sebbene la norma non preveda un termine finale per la presentazione della rinuncia, si ritiene che tale manifestazione di volontà possa essere efficacemente manifestata nel periodo che intercorre tra la data di costituzione in giudizio del ricorrente sino alla data di trattazione o di discussione in pubblica udienza. Poiché la rinuncia non è ricompresa tra gli atti che il difensore è abilitato a compiere in forza del mero mandato procuratorio, la relativa dichiarazione unilaterale è possibile da parte del difensore tecnico se il relativo potere sia stato espressamente conferito (Gobbi, 517 ss.). La rinuncia, quindi, deve pervenire direttamente dalla parte o da un procuratore speciale (Castaldi, 451). Tale formalità trova giustificazione perché il mandato alla lite che il contribuente conferisce non comprende anche quello della rinuncia al ricorso (Casoria, 6773). Nel rito tributario, a differenza di quello civile, in cui, ai sensi dell'art. 306, comma 2, c.p.c., è sufficiente che la dichiarazione di rinuncia sia formulata dalle parti o dai loro procuratori speciali, la dichiarazione di rinuncia deve essere altresì sottoscritta dai rispettivi difensori, laddove presenti in giudizio. Ad ogni modo, come anticipato, la dichiarazione potrà essere sottoscritta dal solo difensore qualora tale potere gli sia stato espressamente conferito dalla parte mediante procura speciale. Peraltro, nel rito civile, a norma dell'art. 306, comma 2, c.p.c. la rinuncia può essere validamente effettuata mediante dichiarazione orale inserita nel verbale di udienza. Al contrario, l'art. 44 in commento fa riferimento esclusivamente alla forma scritta, per cui si è chiesti se nel rito tributario la rinuncia possa essere effettuata verbalmente in udienza. Ebbene, secondo l'amministrazione finanziaria, la rinuncia deve essere fatta con atto scritto (v. circolare del Ministero delle finanze, 23 aprile 1996, n. 98/E; circolare dell'Agenzia delle dogane 4 aprile 2002, n. 26/D; nello stesso senso in dottrina, v. Castaldi, 452). Altra interpretazione dottrinale, in conformità a quanto disposto dall'art. 306, comma 2, c.p.c., sostiene, al contrario, la validità della dichiarazione di rinuncia (e di accettazione) resa verbalmente in udienza e documentata nel relativo verbale (Casoria, 6773). Inoltre, la rinuncia al ricorso deve essere incondizionata, in quanto actus legitimus che non tollera apposizione di riserve o condizioni, in conformità a quanto previsto dall'art. 306, comma 1, c.p.c. per l'accettazione della rinuncia (Azzoni, 5757; Casoria, 6773; Ferro, 391). Peraltro, secondo quanto disposto dal comma 4 della norma che qui si commenta, la dichiarazione di rinuncia debitamente sottoscritta deve essere depositata presso la segreteria della Commissione dinanzi alla quale il giudizio è pendente. Al riguardo, si rilevano contrasti in dottrina. Invero, secondo un primo indirizzo dottrinale, tale adempimento avrebbe valenza equipollente a quella della notificazione prevista dall'art. 306 c.p.c. Altri autori ritengono, al contrario, che, a garanzia del contraddittorio, la parte rinunciante dovrebbe provvedere, antecedentemente al deposito presso la segreteria, a notificare l'atto di rinuncia alla controparte, in modo tale da consentire a quest'ultima di formulare, se del caso, l'accettazione mediante atto del pari notificato al rinunciante e depositato in segreteria (Casoria, 6773; Castaldi, 451). La dichiarazione di rinuncia deve essere chiara, univoca e incondizionata: l'apposizione di riserve o condizioni rende inefficace la dichiarazione; a tale inefficacia non pone rimedio l'eventuale accettazione dell'altra parte (Cass. n. 3932/1989). Tale regola non si trova nella normativa tributaria ma viene fatta discendere, nel processo civile ordinario, dall'applicazione estensiva del principio dettato al riguardo, per la dichiarazione di accettazione, nella seconda proposizione del comma 1 dell'articolo 306 c.p.c. (Cass. n. 9636/1998). Posto che la facoltà di revocare l'atto che ha dato avvio al processo compete alla parte o al suo rappresentante legale, il difensore non può fare marcia indietro di sua iniziativa, salvo che gli sia esplicitamente conferito un potere in tal senso. Non è pertanto valida la dichiarazione di rinuncia del difensore, non autorizzato con procura speciale, anche se successivamente la parte la ratifichi (Cass. n. 1610/2000; Cass. n. 15651/2003; Cass. n. 1764/2014). Perché sia valida la rinuncia agli atti del giudizio, non è necessario che la sottoscrizione del rinunciante sia autenticata dal difensore; l'autentica, infatti, non è imposta dall'art. 306 c.p.c., né può desumersene la necessità in via di interpretazione sistematica, posto che, per un verso, il difensore è sprovvisto di un potere certificatorio generale (potendo esercitare quello conferitogli dalla legge nelle sole ipotesi espressamente previste, artt. 83 e 390 c.p.c.) e, per altro verso, la certezza della riferibilità della dichiarazione di rinuncia al titolare della posizione sostanziale controversa può essere diversamente acquisita anche con atto scritto extraprocessuale (Cass. n. 5905/2002). Qualora nel giudizio di cassazione venga prodotta una dichiarazione di rinuncia al ricorso ritualmente sottoscritta dal difensore del ricorrente munito del relativo potere (ovvero di mandato speciale a tale effetto) e la stessa venga validamente accettata dal difensore della parte resistente, anch'esso munito del relativo potere, il processo deve ritenersi estinto per valida rinuncia al ricorso, da dichiarare con ordinanza (Cass. n. 19648/2005). Il difensore può peraltro recedere da singole richieste rivolte al giudice (Cass. n. 1047/1995; Cass. n. 1439/2002) o da singoli motivi di ricorso o di impugnazione (Cass. n. 3949/1998). La rinuncia a singoli capi della domanda è espressione della facoltà della parte di modificare le domande e le conclusioni precedentemente formulate, sicché, distinguendosi dalla rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l'osservanza di forme rigorose (Cass. n. 21848/2013). Infatti, la rinuncia ad uno o più motivi di ricorso, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza o meno di tali censure, è efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore, in quanto, implicando una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà di impugnazione e non comportando la disposizione del diritto in contesa, è rimessa alla discrezionalità del difensore stesso, e resta, quindi, sottratta alla disciplina di cui all’art. 390 c.p.c per la rinuncia al ricorso (Cass. n. 414/2021). La rinuncia può venire anche dall'Ufficio (ovviamente in gradi successivi al primo, atteso che il ricorso di primo grado è sempre del contribuente), senza bisogno di delega specifica al riguardo da parte del superiore (Cass. n. 305/2006; Cass. n. 5762/2010). Inoltre la mancanza di delega non sarebbe rilevante se l'apparenza della sussistenza del potere fosse stata creata dalla Amministrazione, ingenerando un affidamento legittimo del contribuente (Cass. n. 305/2006; Cass. n. 5270/2004). Più in particolare, si sostiene che, in tema di contenzioso tributario, premesso che, in sede di pubblica udienza, non è in linea di principio vietato alle parti di rendere dichiarazioni di rinuncia in ordine alla materia del contendere nella forma della dichiarazione a verbale, al funzionario rappresentante dell'amministrazione finanziaria deve essere riconosciuto il potere di rinunciare, in detta sede, al ricorso in appello proposto dall'ufficio, anche in assenza di delega specifica al riguardo — con conseguente legittimità, in caso di accettazione della rinuncia da parte del contribuente, della dichiarazione di estinzione del processo ex art. 44 — atteso il rilievo esterno da attribuire all'attività del funzionario rispetto alle parti con cui entra in relazione, anche in considerazione dei principi di collaborazione e buona fede tra contribuente e fisco sanciti dall'art. 10 l. n. 212/2000 (Cass. 7082/2004; Cass. 5762/2010). In passato, invece, si sosteneva che il funzionario, in mancanza di delega specifica, non avesse il potere dispositivo della potestà impositiva e non potesse quindi rinunciare alla pretesa fiscale – di natura pubblicistica – o all'impugnazione proposta (Cass. n. 10215/2003; Cass. n. 10427/2003). Nel caso in cui il contribuente rinunci al ricorso per intervenuta autotutela, ricorre secondo la giurisprudenza comunque una ipotesi di cessazione della materia del contendere e si applica l'art. 46 del d.lgs. n. 546/1992 (Cass. n. 581/1999; Cass. n. 16987/2003). In tema di contenzioso tributario, la rinuncia al ricorso, disciplinata dall'art. 44, può essere validamente effettuata, oltre che in forma scritta, anche nella forma della dichiarazione a verbale nel corso dell'udienza pubblica. Ad un tal riguardo, il funzionario delegato a rappresentare in udienza l'amministrazione finanziaria non ha il potere in mancanza di delega specifica di disporre della pretesa fiscale e, quindi, di rinunciare al ricorso in appello proposto dall'ufficio (Cass. n. 10215/2003). I principi da ultimo enunciati sono stati confermati da Cass. n. 6039/2004 e Cass. n. 5270/2004. L'art. 306 c.p.c. non si applica al giudizio di cassazione nel quale la rinuncia, non richiedendo l'accettazione della controparte per essere produttiva di effetti processuali, non ha carattere accettizio e, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, comporta il consequenziale venire meno dell'interesse a contrastare l'impugnazione (Cass. n. 9857/2011; Cass. n. 3971/2015). Quindi la rinuncia al ricorso per cassazione produce l'estinzione del processo anche in assenza di accettazione, in quanto tale atto non richiede l'accettazione di controparte per essere produttivo di effetti processuali, e, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, comporta il venire meno dell'interesse contrastare l'impugnazione (Cass. n. 21894/2009; Cass. n. 23840/2008). L'accettazione della rinunciaAi sensi dell'art. 44, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, la rinuncia, per produrre effetto, deve provenire da chi ha proposto il ricorso e deve essere accettata, a norma dell'art. 44 comma 3, dalle parti costituite che abbiano effettivo interesse alla prosecuzione del processo, con atto anch'esso sottoscritto e depositato presso la segreteria della Commissione. L'articolo, ancorché ritragga il principio dall'art. 306, comma 1, c.p.c. («il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione»), si distingue tuttavia da questo, per la latitudine assai più sorvegliata, giacché in luogo del riferimento ad un generico «interesse alla prosecuzione» delle parti costituite, oppone un ben più preciso e semantico «effettivo interesse» da parte delle stesse alla prosecuzione del processo, prendendo altresì ad oggetto soltanto la rinuncia operata dal ricorrente (Gobbi, 516). L'interesse, quindi, deve essere valutato esclusivamente alla stregua dell'atteggiamento concretamente assunto dalla parte nel processo, ossia in base alla comparazione tra il risultato utile conseguente all'estinzione e quello che risulterebbe dalla ipotetica decisione di accoglimento integrale delle richieste della parte stessa (Ferro, 392). A tal riguardo si è precisato che, mentre nel processo civile tale interesse sussiste allorché il convenuto abbia chiesto una pronuncia nel merito o abbia, a sua volta, proposto una domanda riconvenzionale; al contrario, nel processo tributario, l'interesse alla prosecuzione della controversia di regola non sussiste, giacché, nel giudizio di primo grado, la rinuncia al ricorso da parte del contribuente determina l'incontestabilità della pretesa avanzata dall'ufficio con l'atto impugnato per l'essersi maturati medio tempore i termini di decadenza per una reiterazione dell'azione avanti le Commissioni (Azzoni, 5758; Castaldi, 453; Colonna, 5610; Ferro, 392). Si è pertanto affermato che, in prima istanza, l'estinzione del giudizio conseguente alla rinuncia al ricorso proposto dal contribuente alla Commissione provinciale rende superflua l'accettazione dell'ufficio, in quanto causativa dell'inoppugnabilità del provvedimento amministrativo. In secondo grado, come noto, la rinuncia determina il passaggio in giudicato della senza gravata. Anche in questo caso non si rende necessaria l'accettazione salvo soltanto il caso in cui all'appello abbia fatto seguito l'appello incidentale dell'appellato (Gobbi, 516). Diversa soluzione trova il caso dell'azione di rimborso. Invero, secondo la dottrina, un interesse dell'ente impositore contrario alla volontà del rinunciante può prospettarsi esclusivamente quando il contribuente abbia proposto un'azione di rimborso esperita a seguito di un rifiuto tacito ad eseguire il rimborso medesimo da parte dell'ufficio finanziario competente (Azzoni, 5758; Colonna, 5611; Ferro, 392). In questo caso, infatti, poiché la rinuncia al ricorso non comporta la rinuncia all'azione ed al diritto sostanziale che con quest'ultima si intende far valere e poiché l'esperimento dell'azione di rimborso a seguito di silenzio – rifiuto dell'amministrazione è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, si ritiene che anche dopo la rinuncia al ricorso sia consentito all'interessato adire nuovamente il giudice tributario onde ottenere la condanna dell'amministrazione alla restituzione di quanto dalla medesima indebitamente conseguito (Azzoni, 5758; Castaldi, 454; Colonna, 5611). Si ritiene, pertanto, che solo nell'ipotesi appena prospettata sussista l'interesse dell'amministrazione ad esprimere la propria eventuale accettazione alla rinuncia avanzata dal contribuente e ciò per l'essere potenzialmente soggetta all'esercizio di una ulteriore azione di condanna del contribuente (Casoria, 6773; Castaldi, 454; Colonna, 5611). Nel giudizio di cassazione non è necessaria l'accettazione della rinuncia al ricorso in quanto l'art. 390 c.p.c., la cui applicazione ben può essere estesa al processo tributario in virtù del richiamo contenuto nell'art. 62, comma 2, del d.lgs. 546/1992, non subordina l'efficacia della rinuncia alla sua accettazione da parte del resistente (Casoria, 6773; Castaldi, 455). Infine, giova ricordare che l'accettazione della rinuncia è soggetta alle stesse regole formali cui soggiace l'atto di rinuncia. La stessa, inoltre, come la rinuncia deve essere incondizionata, così come espressamente previsto dall'art. 306, comma 1, del codice di procedura civile. La Suprema corte, nel ribadire che affinché la rinuncia produca l'effetto dell'estinzione del processo, occorre che essa sia accettata dalle parti costituite che abbiano interesse alla prosecuzione del processo, ha altresì precisato che alle parti non costituite l'atto di rinuncia deve essere notificato (Cass. n. 3905/1995) ed è sufficiente per l'estinzione del giudizio). L'interesse deve essere effettivo e per tale si intende un interesse apprezzabile secondo la legge e non qualsiasi utilità pratica. Più in particolare, l'interesse da apprezzarsi ai fini suindicati è quello correlato alla possibilità di conseguire un'utilità considerata dalla legge meritevole di tutela, e non una qualsiasi utilità di fatto. L'interesse di cui trattasi esige di essere valutato esclusivamente alla stregua dell'atteggiamento concretamente assunto dalla parte nel processo (e non anche in funzione del più probabile esito del processo), e, quindi, in base alla comparazione tra il risultato utile conseguente all'estinzione e quello che ne deriverebbe dalla ipotetica decisione di accoglimento integrale delle richieste avanzate dalla parte stessa. Nel processo civile tale interesse alla prosecuzione dello stesso sussiste qualora la controparte abbia chiesto una pronuncia nel merito (o, a maggior ragione, in caso di domanda riconvenzionale). Al contrario, l'accettazione non è necessaria qualora la controparte, non essendosi costituita, non abbia dimostrato alcun interesse alla definizione del giudizio di merito (Cass. n. 1168/1995). Infatti, ai fini della declaratoria di estinzione del processo a norma dell'art. 306 c.p.c., l'accettazione della rinuncia agli atti del giudizio è richiesta soltanto nel caso in cui la parte ne cui confronti la rinuncia è fatta abbia interesse alla prosecuzione del processo. Tale interesse sussiste allorchè il convenuto abbia chiesto una pronuncia nel merito o abbia a sua volta proposto domanda riconvenzionale. Pertanto, la notificazione della dichiarazione di rinuncia, al fine dell'accettazione della stessa, non è necessaria allorchè il convenuto, non essendosi costituito, non abbia rilevato alcun interesse alla prosecuzione del processo. L'estinzione del processo tributario, comportando la definitività dell'avviso di accertamento che ne costituiva l'oggetto, rende inammissibile per difetto di interesse l'impugnazione proposta dall'Amministrazione finanziaria avverso la sentenza dichiarativa dell'estinzione (Cass. n. 3040/2008; Cass. n. 21143/2015). Nel giudizio davanti alla Commissione provinciale, quindi, considerato che la rinuncia al ricorso determina l'inoppugnabilità dell'atto impugnato che riconosce anche l'inammisibilità per difetto di interesse della impugnazione del provvedimento che dichiara l'estinzione, da parte dell'Ufficio) non è di regola necessaria l'accettazione dell'ufficio o dell'ente impositore. Diversamente, nel caso di ricorso contro il rifiuto tacito di un rimborso, non risolvendosi la rinuncia al ricorso in rinuncia al diritto, l'amministrazione finanziaria potrebbe restare esposta ad una successiva nuova domanda di identico contenuto restitutorio. Nel giudizio di secondo grado, l'esclusione della necessità dell'accettazione della rinuncia deriva dal fatto che l'estinzione comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e non ha interesse alla prosecuzione la parte che non l'abbia gravata, mentre lo avrebbe la parte che avesse avanzato appello incidentale. Provvedimenti conseguenti alla rinunciaL'estinzione del giudizio per rinuncia viene dichiarata dal presidente della sezione con decreto oppure dalla commissione con sentenza, a seconda della fase processuale in cui si verifica l'effetto estintivo e, cioè, a seconda che a tale data è stata o meno fissata l'udienza di trattazione del ricorso (Azzoni, 5759; Castaldi, 455; Ferro, 392). L'effetto giuridico dell'estinzione del processo si verifica solo in seguito al provvedimento dichiarativo del giudice, al quale spetta il controllo della regolarità della rinuncia e dell'accettazione (e quindi della necessità o meno della stessa) (Castaldi, 455). Il provvedimento presidenziale o collegiale ha, quindi, natura meramente ricognitiva, in quanto l'effetto estintivo si produce meccanicamente in conseguenza del solo incontro delle volontà del rinunciante e dell'accettante (Marini, 1225). Di conseguenza, fino a quando detto provvedimento non sia adottato, ossia non è depositato in segreteria e reso pubblico, alle parti non è preclusa la possibilità di revocare rispettivamente la rinuncia o l'accettazione (Azzoni, 5759). Contro il decreto del Presidente è possibile proporre reclamo al collegio a norma dell'art. 28 del d.lgs. n. 546/1992. In caso di accoglimento del reclamo da parte del Collegio, quest'ultimo dispone con ordinanza i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio. In caso contrario, conferma la dichiarazione di estinzione pronunciata dal Presidente mediante sentenza contro la quale si rendono poi esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione (Azzoni, 5760; Castaldi, 455). Nel caso in cui il giudice, investito dell'impugnazione della sentenza che ha dichiarato l'estinzione, ne accerti l'infondatezza, esso annulla tale pronuncia e rimette la causa al giudice del grado precedente, affinché tale fase processuale possa celebrarsi regolarmente e possa arrivare alla sua conclusione naturale, con una pronuncia sull'oggetto della lite (Della Valle, 631). Tuttavia, anche se difficilmente riscontrabile nella prassi processuale, non si può nemmeno escludere il caso opposto, in cui il giudice statuisca nel merito, non essendosi reso conto dell'avvenuta estinzione del giudizio. Anche una simile pronuncia sarebbe affetta da invalidità denunciabile anche con ricorso in Cassazione. Laddove, la sentenza che risolve illegittimamente l'oggetto della lite non sia impugnata, passa in giudicato e l'estinzione non dichiarata perde ogni rilievo. Altra situazione prospettabile, anche questa di difficile verificazione pratica, è quella in cui la decisione, erroneamente pronunciata nel merito, sia oggetto di impugnazione per ragioni diverse dall'omessa dichiarazione di estinzione del processo. Ci si è chiesti se, in tal caso, da tale comportamento dell'appellante derivi acquiescenza della validità della pronuncia (con riferimento all'aspetto della mancata constatazione dell'estinzione) o se l'appellante possa far valere la causa estintiva del processo, perfezionatasi in primo grado, anche successivamente, durante la fase di gravame, presentando una memoria. Secondo la dottrina, al riguardo occorre distinguere a seconda dei casi. Invero, si è sostenuto che, laddove la sentenza abbia escluso espressamente l'avverarsi della vicenda estintiva, la mancata critica di tale asserzione ne determina il passaggio in giudicato, facendo venire meno ogni possibilità di discussione sul punto. Nel caso in cui, invece, non vi sia alcuna statuizione sul punto, si ritiene che l'intervenuta estinzione possa ancora essere denunciata in sede di impugnazione, non tanto come vizio della sentenza impugnata, quanto facendo valere l'effetto estintivo (Gaffuri, Commento all'art. 44, in Tesauro (a cura di), Codice commentato del processo tributario, Milano, 2016, 627 ss.). Dall'automaticità degli effetti dell'estinzione discendono alcuni corollari. Innanzitutto, una volta dichiarata tale anomala forma di chiusura del procedimento, il provvedimento del giudice acquista efficacia (dichiarativa) non dal giorno della sua emanazione, ma dal giorno i cui il fatto estintivo si è verificato (Verde, Diritto processuale civile, II, Bologna, 2010, 169). Inoltre, nel caso di estinzione del processo di primo grado, gli atti del processo compiuti dopo l'evento estintivo (al pari di quelli compiuti in precedenza) sono invalidi, ivi compresa la sentenza che dovesse decidere il merito. L'estinzione dichiarata nei gradi successivi al primo, per rinuncia al mezzo di gravame, travolge gli atti compiuti in tali gradi di giudizio e determina quindi il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. La revoca dell'atto di impugnazione, pur determinando, infatti, come detto, l'inefficacia in generale, di tutti gli adempimenti processuali compiuti fino a quel momento, non priva di validità le sentenze di merito (perdono invece rilievo le pronunce di mero rito) e, nei limiti che si diranno, quelle che statuiscono sulla competenza (Monteleone, 141). La rinuncia manifestata in sede di giudizio di rinvio, dopo una pronuncia della Cassazione, travolge però tutte le sentenze rese nel processo, in forza di quanto stabilito all'art. 63 del decreto legislativo in commento (Della Valle, 632). Come anticipato, in forza del comma secondo dell'art. 310 c.p.c., la cui applicazione è estensibile al processo tributario, sono fatte salve, nonostante l'estinzione del processo, le pronunce che regolano la competenza, ossia le decisioni della Cassazione assunte in seguito alla proposizione del regolamento di competenza, alle quali, secondo alcuni autori, possono assimilarsi a quelle emanate dalla Cassazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., sul medesimo oggetto (Arieta, 370 ss.). Non si salverebbero dalla caducazione invece le sentenze relative alla competenza pronunciate dai giudici di merito (Bergamini, Commento all'art. 306, in Codice di procedura civile ipertestuale, a cura di Comoglio, Vaccarella, Torino, 2006, 1199). Anche le prove raccolte nel corso del giudizio estinto, perdono efficacia. Tuttavia, poiché ragioni di economia processuale suggeriscono di non sprecare l'attività istruttoria già compiuta, magari assai laboriosa, si è sostenuto che, in forza dell'art. 310 c.p.c. (la cui applicazione è estensibile anche al processo tributario), i mezzi probatori acquisiti nel procedimento estinto sono presi in considerazione in un eventuale nuovo giudizio per desumerne argomenti di convincimento, in conformità ai precetti dell'art. 116 c.p.c. (Mandrioli, 387). L'art. 44, comma 2, stabilisce inoltre che il rinunciante, salvo diverso accordo, è tenuto a rimborsare i costi processuali sostenuti dalle altre parti. Il giudice, quindi, nel caso di estinzione del giudizio per rinuncia al ricorso, non dispone di alcun potere discrezionale relativamente alla regolamentazione delle spese. Invero, allo stesso non è consentito ricorrere alla applicazione del principio della soccombenza virtuale consistente, come noto, nell'accollo, totale o parziale, degli oneri di lite alla parte che, in difetto di rinuncia, sarebbe stata dichiarata sconfitta. Si ritiene, invero, che, nel caso in cui le parti non abbiano ritenuto di risolvere anche questo versante con una soluzione difforme (la norma recita, infatti, «salvo accordo tra le parti»), è sempre il rinunciante che deve rimborsare le spese altrui, nella misura liquidata dal giudice (Castaldi, 455; Ferro, 393). Più in particolare, la liquidazione delle spese è fatta dal Presidente della sezione o dalla Commissione con ordinanza non impugnabile. Al riguardo, si sottolinea che nella nuova formulazione della norma in commento, così come modificata dal d.lgs. n. 156/2015, tale ordinanza non costituisce più titolo esecutivo. Detto altrimenti, tale ordinanza costituiva, nel regime vigente fino al 31 dicembre 2015, titolo esecutivo ai fini della riscossione delle somme liquidate. Il comma 2 dell'art. 44 del d.lgs. n. 546/1992 è stato riformulato con l'eliminazione dell'inciso che faceva riferimento all'efficacia di titolo esecutivo dell'ordinanza. Ciò perché l'unico strumento utilizzabile, per il conseguimento delle spese di giustizia, è, dopo la riforma del d.lgs. n. 156/2015, il giudizio di ottemperanza, anche per le spese legali in favore del contribuente. Diversamente, per le spese liquidate in favore dell'ente impositore e degli altri soggetti equiparati, è prevista l'iscrizione a ruolo dopo il giudicato, come dispone il nuovo articolo 15, comma 4. Anche per le spese liquidate con l'ordinanza di cui la comma 2 della norma in commento, è prevista la decisione dell'ottemperanza da parte della Commissione tributaria in composizione monocratica, qualunque sia l'entità delle spese (art. 70, comma 10 bis d.lgs. n. 546/1992). Il provvedimento dichiarativo dell'estinzione non contiene dunque la condanna alle spese, poiché queste sono liquidate, come si è detto, con l'apposita ordinanza presidenziale o collegiale. In caso di rinuncia si ha quindi la pronuncia di due distinti provvedimenti giudiziali: uno che appura l'estinzione del giudizio, l'altro che dispone sulle spese, le quali sono poste a carico della parte rinunciante. Non sono mancate critiche a questo meccanismo eccessivamente articolato. Invero, si è rilevato che, ogni qual volta la pronuncia di estinzione del processo venga impugnata e sia annullata, la condanna alla rifusione delle spese disposta dall'ordinanza innanzi citata perde il suo fondamento. Per ovviare a questo inconveniente, si suggerisce di attribuire al provvedimento di riforma della dichiarazione di estinzione l'effetto di travolgere anche l'ordinanza relativa alle spese (Della Valle, 629). Ad ogni modo, giova ricordare che tale ordinanza è comunque soggetta a ricorso straordinario davanti alla Suprema corte in forza del dettato di cui all'art. 111 della Costituzione, possedendo i connotati della definitività decisionale. Il provvedimento giudiziale che statuisce sull'estinzione è suscettibile di contestazione. In particolare, in virtù del richiamo, contenuto nel comma quinto dell'art. 44, all'art. 45, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992, avverso il decreto presidenziale è ammesso reclamo a norma dell'art. 28 del d.lgs. n. 546/1992. In conformità all'orientamento seguito dalla giurisprudenza in tema di estinzione del processo civile (si veda in tal senso: Cass. n. 8670/2005), si deve peraltro escludere l'impugnabilità del decreto presidenziale che nega la realizzazione dell'evento da cui dovrebbe conseguire la fine della controversia, essendo questo provvedimento destinato ad essere confermato o revocato dalla sentenza che chiude, secondo lo schema processuale ordinario, il giudizio. Considerato che, come visto, il fenomeno in esame è produttivo di conseguenze automatiche, a prescindere da un esplicito riconoscimento ad opera del giudice, fino a quando l'eventuale decisione che nega la realizzazione della causa estintiva diventa incontestabile, l'epilogo di un giudizio a cagione del ripensamento di chi l'ha promosso può essere eccepita o rilevata d'ufficio (Cass. n. 20480/2007), in via incidentale, in un altro procedimento, anche per escludere l'esistenza di un litisconsorzio (Cass. n. 17121/2004; Cass. n. 6903/2003). Salvo diverso accordo, chi rinuncia deve rimborsare le spese processuali sostenute dalle altre parti. Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato, sia pure con riferimento al processo civile, che alla liquidazione provvede il presidente della sezione o la commissione con ordinanza non impugnabile. Contro tale ordinanza è tuttavia ammesso ricorso straordinario per cassazione a norma dell'art. 111 della Costituzione, avendo questo provvedimento carattere decisorio e definitivo sulle spese (Cass. n. 13521/2004; Cass. n. 11768/2002; Cass. n. 10306/2000). La giurisprudenza, inoltre, è costante nel ritenere che qualora insorga una controversia sulla validità della rinuncia e sull'estinzione del processo, il giudice chiamato a risolvere la questione decide anche sulle spese, in conformità al principio generale della soccombenza, applicabile al processo tributario (Cass. n. 1513/2006). Quanto agli effetti dell'estinzione, l'orientamento della dottrina dinanzi illustrato, trova accoglimento nella giurisprudenza della Corte la quale ha sostenuto (Cass. n. 17248/2003) che solo le sentenze pronunciate dalla Corte medesima in tema di competenza non sono suscettibili di passare in giudicato in senso sostanziale. Invero, le pronunce sulle questioni di competenza emanate dai giudici di merito e non più impugnabili danno luogo solo a giudicato formale, il quale preclude la riproposizione del tema soltanto davanti al giudice dello stesso processo, ma non fa stato in un diverso giudizio celebrato tra le stesse parti. Di conseguenza, le decisioni da ultimo citate non sono, quindi, in grado di sopravvivere all'estinzione del giudizio. Peraltro, regole analoghe a quelle appena descritte in tema di competenza si applicano anche alle pronunce sulla giurisdizione (Cass. n. 1210/2000; Cass. n. 45/1999). Quanto alle prove raccolte nel corso del processo estinto, la giurisprudenza ha chiarito che il principio espresso dall'art. 310, c.p.c., secondo cui le prove raccolte nel processo estinto sono valutabili dal giudice di altra controversia ai sensi dell'art. 116 c.p.c., vale solo se la valutazione della prova è richiesta dalla parte (Cass. n. 11842/2003) e solo per le prove assunte nel processo estinto (Cass. n. 3505/1994). Quanto, infine, agli effetti sulla prescrizione del processo estinto, la Cassazione (Cass. n. 20480/2008) ha affermato che, in forza del combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c., la notificazione dell'atto con il quale inizia un giudizio interrompe la prescrizione relativamente al diritto che si fa valere e l'interruzione si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Ad ogni modo, si ritiene che se il processo si estingue, la cessazione della lite giudiziale (pronunciata sia con ordinanza che con sentenza) elimina la permanente interruzione del decorso della prescrizione provocato dall'atto introduttivo del processo, fermo restando però l'effetto interruttivo istantaneo della prescrizione, prodotto dall'iniziativa giudiziale, la quale assume la stessa valenza di una costituzione in mora. Di conseguenza, il rinnovato periodo prescrizionale comincia a decorrere dalla data di notificazione del predetto atto introduttivo. Pertanto, nel caso di estinzione del processo, non si verifica l'effetto interruttivo permanente della prescrizione (ovvero il perdurare dell'interruzione fino alla pronuncia del giudice), in forza del principio di cui all'art. 2945, secondo comma, c.c., ma si produce solo l'effetto interruttivo istantaneo derivante dall'atto con cui si è dato avvio al giudizio (con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di questo atto), in forza della disposizione di cui all'art. 2945, comma terzo, c.c. La Cassazione, inoltre, è orientata ad escludere che l'effetto impeditivo della decadenza prodotto, secondo quanto disposto dall'art. 2966 c.c., dalla domanda giudiziale sopravviva all'estinzione del processo (Cass. n. 3505/1994). 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