Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 61 - Norme applicabili 1 2 .1. Nel procedimento d'appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 115 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. InquadramentoAnalogamente all'art. 359 c.p.c., ai sensi del quale nei procedimenti d'appello civile si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni dell'apposito capo, la disposizione de qua, quale norma di chiusura o completamento, prevede l'operatività dinanzi alla commissione tributaria regionale delle norme relative al giudizio dinanzi alla commissione provinciale tributaria se applicabili e se non incompatibili con quelle specificamente dettate dalla presente sezione. È, dunque, richiesta una doppia verifica, essendo subordinata la trasposizione delle disposizioni di primo grado dinanzi alla commissione tributaria regionale alla loro applicabilità al di fuori del loro specifico contesto ed alla loro compatibilità con il grado di appello (Gianoncelli, 842; Tesauro, 24). Si è, inoltre, sottolineato che presupposto di tale rinvio, da ritenersi formale e, quindi, recettizio, è la non esaustività della disciplina del giudizio di appello che oggi, a differenza di quanto avveniva nel vigore del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, in cui, per il procedimento dinanzi alla commissione di secondo grado, vi era un mero richiamo alle norme del primo grado, si compone di due intere sezioni e, cioè, delle sezioni I e II del capo III del titolo II, all'interno delle quali si rinviene, peraltro, l'art. 49 che dichiara applicabile il titolo II, capo I, libro II del c.p.c. (Gianoncelli, 842). È, invece, discusso se possa pervenirsi all'applicazione delle disposizioni generali del contenzioso tributario, contenute nel titolo I del d.lgs. n. 546 del 1992, in virtù o a prescindere dall'art. 61. Dal tenore letterale delle disposizioni generali, formulate con riferimento generico al giudice o alla commissione, sembrerebbe discendere la loro diretta applicabilità al giudizio di appello (Gianoncelli, 843). Ad ogni modo, l'esistenza del richiamo generale di cui all'art. 61 del d.lgs. n. 546 del 1992 non ha impedito al legislatore di operare alcuni specifici rinvii, come, ad esempio, quelli agli art. 18, comma 3, 20, commi 1 e 2, 22, commi 1, 2 e 3, contenuti nel precedente art. 53, ingenerando così dubbi ed equivoci. Un ulteriore esempio di uno specifico rinvio è costituito dall'art. 55 del d.lgs. n. 546 del 1992, ai sensi del quale il presidente ed i presidenti di sezione della commissione tributaria regionale hanno poteri corrispondenti a quelli del presidente e dei presidenti di sezione della commissione tributaria provinciale, al cui commento si rimanda per tali profili. Merita di essere ricordata in questa sede la recentissima Cass. S.U., n. 14916/2016, secondo cui, quanto all'individuazione del luogo in cui va effettuata la notificazione delle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie, non esistendo ragioni normative che impongano di affermare che l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce esclusivamente alle notificazioni endoprocessuali, laddove, anzi, proprio la previsione di cui al comma 2, secondo cui l'indicazione della residenza o della sede e l'elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi del processo, nonché esigenze di coerenza sistematica, inducono alla conclusione che la norma è applicabile, con carattere di specialità e quindi di prevalenza, anche alla notificazione del ricorso in appello. Si è, dunque, affermata l'applicabilità al giudizio di appello, con prevalenza rispetto all'art. 330 c.p.c., richiamato dall'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, di una delle disposizioni generali del contenzioso tributario, contenuta nel titolo I del medesimo d.lgs. Resta incerto il percorso e, cioè, se l'applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 al giudizio di appello debba avvenire direttamente in quanto si tratta di una disposizione generale o, comunque, in virtù del rinvio dell'art. 61 del d.lgs. n. 546 del 1992 alle disposizioni del giudizio di primo grado, tra cui l'art. 20 che, a sua volta, richiama l'art. 16 e, tramite esso, l'art. 17. Le norme relative all'introduzione del giudizioSicuramente trovano applicazione in secondo grado gli artt. 18,20,22,23 del d.lgs. n. 546 del 1992, espressamente richiamati dai successivi artt. 53 e 54, mentre non sono pertinenti in questa sede gli artt. 19 e 21 sugli atti impugnabili e sui relativi termini d'impugnazione, atteso che l'appello deve necessariamente avere ad oggetto la sentenza di primo grado. Si ritiene, inoltre, che la necessità di proporre motivi aggiunti ex art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992 possa sorgere anche in appello, data la possibilità di produrre documenti nuovi in questa sede, prevista specificamente dall'art. 58, sebbene si tenda a riferire tale potere processuale all'atto introduttivo dell'intero giudizio e non all'appello e, quindi, a limitarla al contribuente (così Gianoncelli, 846). La giurisprudenza di legittimità sembra escludere l'ammissibilità di motivi nuovi in appello, pur non essendosi mai espressamente pronunciata sulla possibile applicazione della deroga di cui all'art. 24, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992. Così, ad avviso di Cass. V, n. 7766/2006, in tema di contenzioso tributario, tanto nella disciplina dettata dall'abrogato d.P.R. n. 636 del 1972, quanto in quella introdotta dal vigente d.lgs. n. 546 del 1992, il meccanismo d'instaurazione del processo è imperniato sull'impugnazione del provvedimento impositivo, volta ad ottenere il sindacato giurisdizionale sulla legittimità formale e sostanziale del medesimo, sicché l'indagine sul rapporto tributario è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell'Amministrazione, nonché degli elementi del fatto costitutivo (tra i quali, come nella fattispecie, la titolarità passiva del rapporto tributario), che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado, con l'unico temperamento costituito dalla possibilità di introdurre con memoria nuovi motivi nel corso del giudizio di primo grado. I motivi d'impugnazione costituiscono la causa petendi della domanda di annullamento dell'atto impositivo, con la conseguente inammissibilità dell'introduzione di nuove causae petendi in appello, come sancito, nella disciplina vigente, dall'art. 57, primo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992; tale inammissibilità non è esclusa dall'art. 79 del medesimo d.lgs., risultando pacificamente applicabile, sotto l'imperio della disciplina previgente, l'art. 345 c.p.c. Più recentemente Cass. V, n. 13742/2015 ha ribadito che nel processo tributario d'appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all'originaria causa petendi e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l'indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi degli artt. 24 e 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Come per il giudizio di primo grado, si è ritenuto che il ricorso introduttivo del giudizio di appello tributario è inammissibile, ai sensi degli artt. 18, comma 4, e 22, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, esclusivamente quando la sottoscrizione manchi materialmente, ma non quando essa risulti presente per relationem attraverso il rinvio implicito della fotocopia depositata all'atto introduttivo del giudizio, notificato in originale, e la sua conformità non sia stata fondatamente contestata, dovendo interpretarsi le norme processuali in modo da salvaguardare la funzione di garanzia propria del processo e limitare al massimo l'operatività di irragionevoli sanzioni in danno delle parti (così Cass. V, n. 23752/2015; v. anche Cass. V, n. 4078/2015, secondo cui la mancata sottoscrizione in originale, da parte del ricorrente o del suo difensore, della copia del ricorso depositata a fini di costituzione in giudizio non determina l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce mera irregolarità, atteso che l'art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel disciplinare l'ipotesi di ricorso proposto contro più parti, richiede la sottoscrizione in originale su tutte le copie dell'atto «destinate alle altre parti» e non anche sulla copia depositata a fini di costituzione in giudizio, mentre l'art. 22, comma 3, del medesimo d.lgs. n. 546, richiede unicamente che la parte o il difensore — quando e se nominato — attestino la conformità di tale copia all'originale notificato alla controparte, la quale può riscontrare l'esistenza della firma nell'originale dell'atto ad essa spedito o consegnato. Per il giudizio di primo grado, v. Cass. V, n. 21170/2005, secondo cui, ai fini dell'applicazione della sanzione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, di cui agli artt. 18, comma 4, e 22, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, l'omessa sottoscrizione dell'atto deve essere intesa in senso restrittivo, ossia come mancanza radicale del requisito imposto dalla legge, la quale non ricorre allorché la copia dell'atto, notificata all'ufficio finanziario, sia una fotocopia dell'originale regolarmente sottoscritto e depositato nella segreteria della commissione tributaria, ben potendo, in tal caso, l'Amministrazione finanziaria riscontrare l'esistenza della firma della parte o del suo difensore tramite consultazione di detto originale, cui la fotocopia notificatale implicitamente rinvia). Occorre, però, sottolineare che tale problematica dovrebbe venire meno alla luce delle recenti modifiche apportate dal d.lgs. n. 156 del 2015, essendo scomparsa dall'art. 18 cit. la disposizione secondo cui la sottoscrizione del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell'originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti. Resta, invece, il problema dell'attestazione di conformità ove l'atto introduttivo del giudizio di appello sia notificato direttamente a mezzo posta, che, tuttavia, risulta stemperato dalla giurisprudenza di legittimità, che più volte ha precisato derivare l'inammissibilità non dalla mancata attestazione della conformità, ma dall'effettiva difformità tra la copia notificata e l'originale depositato (così, da ultimo, Cass. VI, n. 11760/2014, secondo cui l'art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 — richiamato, per il giudizio di appello, dall'art. 53 — che disciplina il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita della copia del ricorso notificato mediante consegna o spedizione a mezzo del servizio postale, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell'appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra il documento depositato ed il documento notificato, ma solo la loro effettiva difformità, accertata d'ufficio dal giudice in caso di detta mancanza). Per completezza, rispetto alla tematica dell'introduzione del giudizio di appello, va menzionata Cass. VI, n. 3941/2017, secondo cui, in tema di contenzioso tributario relativo alla TARSU, la circostanza che l'atto di appello del Comune sia stato sottoscritto da un funzionario e da un dirigente del Comune non è causa di nullità dell'atto, in quanto l'art. 74 del d.lgs. n. 507 del 1997 concede specificamente al Comune la facoltà, in detta materia, di designare un funzionario cui attribuire la funzione ed i poteri per l'esercizio di ogni attività organizzativa e gestionale, precisando che a questi spetta anche di sottoscrivere le richieste, gli avvisi, i provvedimenti relativi e di disporre i rimborsi; pertanto, attesa l'ampiezza dei poteri dispositivi di natura sostanziale, deve ritenersi che tra le competenze del funzionario responsabile sia compresa anche la gestione dell'eventuale contenzioso, rappresentando essa non già un'attività diversa ed ulteriore, ma soltanto l'attività successiva necessaria al fine di difendere in giudizio la pretesa tributaria dell'ente come già in precedenza affermata negli atti impositivi. Le norme in tema di trattazione e decisione della causaAd avviso della dottrina, risultano integralmente applicabili al giudizio di appello tributario le disposizioni dettate per la trattazione e la decisione del procedimento di primo grado e, cioè, gli artt. 30,31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38 (Titolo II, Capo I, Sezione III e IV), per cui le parti possono depositare documenti e memorie sino a venti giorni liberi prima della trattazione o della discussione in pubblica udienza, solo memorie illustrative sino a dieci giorni liberi prima della trattazione o della discussione in pubblica udienza, brevi repliche sino a cinque giorni prima della camera di consiglio. L'appello è trattato in camera di consiglio, come prevede l'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, salva l'istanza di discussione in pubblica udienza, presentata da una delle parti ai sensi del successivo art. 34, che deve considerarsi autonoma rispetto a quella eventualmente già formulata per il primo grado e, quindi, va eventualmente rinnovata (Pistolesi, 427, Marzo, 366). Secondo la giurisprudenza di legittimità, la comunicazione della data di udienza, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile anche ai giudizi di appello in relazione al richiamo operato dell'art. 61 del medesimo decreto, adempie ad un'essenziale funzione di garanzia del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, sicché l'omissione della comunicazione, almeno trenta giorni prima, dell'avviso di fissazione dell'udienza di discussione determina la nullità della decisione comunque pronunciata (Cass. VI, n. 1786/2016); v. anche Cass. VI, n. 18279/2018, che, in applicazione del principio, ha annullato la decisione impugnata che aveva dichiarato l'inammissibilità del gravame per omessa notifica dell'atto di appello nonostante l'errata comunicazione, stante l'invio ad un diverso indirizzo Pec, della data di udienza di discussione al difensore dell'appellante). Nel ribadire tale principio, Cass. V, n. 27837/2018 ha precisato che, alla cassazione della sentenza per la nullità derivante dall'omessa comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, può seguire la decisione della causa nel merito da parte della Suprema Corte, ove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto e debba essere risolta una questione di mero diritto. Cass. VI, n. 28843/2017 ha, invece, escluso la nullità della sentenza d'appello, pronunciata nonostante l'omesso avviso dell'udienza di discussione, in quanto la parte, prima della stessa udienza ed in vista di essa, aveva depositato una memoria, così esercitando il proprio diritto di difesa. Detta comunicazione, ai sensi dell'art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, va effettuata, nel caso di esistenza di un domicilio eletto, presso quest'ultimo o, comunque, mediante consegna in mani proprie; in difetto, la trattazione della causa deve ritenersi svolta in violazione dei principi del contraddittorio e della difesa e tutti gli atti compiuti da quel momento in poi sono da considerare come del tutto nulli (così Cass. S.U., n. 13654/2011). La comunicazione dell'avviso di trattazione direttamente alla parte, anziché al procuratore costituito, non dà luogo, invece, alla nullità assoluta dell'udienza e degli atti successivi, non versandosi nell'ipotesi di «omessa» comunicazione dell'avviso, integrando una nullità relativa, che è sanata, con effetto ex tunc, dalla costituzione dell'appellato in giudizio. Ne consegue che, in ordine ad un siffatto vizio, analoga efficacia sanante riveste la presenza, all'udienza di trattazione, del difensore dell'appellato, ancorché meramente strumentale alla formulazione dell'eccezione di nullità, essendo applicabile in tale ipotesi la stessa norma dell'art. 156, comma 3, c.p.c., ritenuta operante in caso di notifica alla parte personalmente, anziché al difensore, dell'atto introduttivo del giudizio (Cass. V, n. 27094/2006). Come chiarito da Cass. V, n. 34782/2023, in tema di processo tributario, la sostituzione del relatore dopo la comunicazione dell'avviso di trattazione dell'udienza non viola il principio dell'immutabilità del giudice, che, essendo volto ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa, trova applicazione esclusivamente dall'apertura di quest'ultima fino alla deliberazione della decisione, restando ininfluente il deposito di memorie nella fase antecedente. Nel riportare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità relativi alla produzione dei documenti nel giudizio di appello, occorre ricordare che si tratta di problematiche destinate almeno in parte ad essere superate con l’entrata in vigore dell’art. 58 del d.lgs. n. 546/1992 nella nuova formulazione, introdotta dal d.lgs. n. 220/2023, applicabile ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024: «non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile» (per il relativo commento si rinvia all’art. 58). Più volte è stato precisato che in grado di appello i documenti devono essere prodotti entro il termine perentorio di cui all'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 di venti giorni liberi prima dell'udienza, applicabile in secondo grado stante il richiamo, operato dall'art. 61 del citato decreto, alle norme relative al giudizio di primo grado (da ultimo, Cass. V, n. 3661/2015). Si è, inoltre, ritenuto che è necessario osservare le formalità di cui all'art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 e che tale termine, anche in assenza di espressa previsione legislativa, ha natura perentoria e, quindi, è sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio) che adempie (Cass. V, n. 655/2014; v. anche Cass. V, n. 2787/2006, secondo cui l'art. 58 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall'art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata — stante il richiamo operato dall'art. 61 del citato d.lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado — entro il termine previsto dall'art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell'udienza con l'osservanza delle formalità di cui all'art. 24, comma 1. Tale termine, anche in assenza di espressa previsione legislativa, deve ritenersi di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, con la conseguenza che resta inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto anche nel caso di rinvio meramente «interlocutorio» dell'udienza su richiesta del difensore, o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva, essendo la sanatoria a seguito di acquiescenza consentita con riferimento alla forma degli atti processuali e non anche relativamente all'osservanza dei termini perentori). Da ultimo queste posizioni risultano confermate da Cass. n.18103/2021 (secondo cui, in tema di contenzioso tributario, l'art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall'art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale deve essere esercitata - stante il richiamo operato dall'art. 61 del citato d.lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado - entro il termine previsto dall'art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell'udienza, con l'osservanza delle formalità di cui all'art. 24, comma 1, dovendo tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione - rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio - cui adempie). Tale posizione è stata confermata anche recentemente da Cass. V, n. 29087/2018, secondo cui nell'ambito del processo tributario, l'art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall'art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata - stante il richiamo operato dall'art. 61 del d.lgs. cit. alle norme relative al giudizio di primo grado - entro il termine previsto dall'art. 32, comma 1, dello stesso d.lgs., ossia fino a venti giorni liberi prima dell'udienza, con l'osservanza delle formalità di cui all'art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, pur in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi previsto a pena di decadenza, rilevabile d'ufficio dal giudice anche nel caso di rinvio meramente interlocutorio dell'udienza o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva. Va, però, segnalato che, secondo Cass. V, n. 5429/2018, fermo restando che la produzione di nuovi documenti in appello debba avvenire, ai sensi dell'art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992, entro venti giorni liberi antecedenti l'udienza, l'inosservanza di detto termine è sanata ove il documento sia stato già depositato, benché irritualmente, nel giudizio di primo grado, poiché nel processo tributario i fascicoli di parte restano inseriti in modo definitivo nel fascicolo d'ufficio sino al passaggio in giudicato della sentenza, senza che le parti abbiano la possibilità di ritirarli, con la conseguenza che la documentazione ivi prodotta è acquisita automaticamente e "ritualmente" nel giudizio di impugnazione. Per completezza va ricordato che non si applica il secondo comma dell'art. 348 c.p.c., secondo cui la mancata comparizione dell'appellante, sia alla prima che alla seconda udienza, comporta l'improcedibilità dell'impugnazione, in quanto, da un lato, l'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 dichiara applicabili alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie, salvo quanto disposto dalle norme dell'indicato decreto, le disposizioni del capo I del titolo II del codice di rito ordinario e, in tale capo, non rientra l'art. 348 cit. e, dall'altro, neanche può operare il generale rinvio alle norme dello stesso codice, previsto dall'art. 1 del d.lgs. n. 546 cit. per quanto non disposto dalle norme del decreto stesso e nei limiti della compatibilità con esse, poiché dall'art. 34 di quest'ultimo decreto — cui rinvia l'art. 61 per il giudizio di appello — nella parte in cui, nel disciplinare la discussione in pubblica udienza, prevede che «il presidente ammette le parti presenti alla discussione», si evince che la mancata comparizione del ricorrente (in primo grado o in appello) non ha alcun effetto preclusivo della trattazione e della decisione della causa nel merito (Cass. V, n. 13001/2011). Cass. S.U., n. 29919/2017 hanno chiarito, inoltre, che, in tema di contenzioso tributario, l'ordine impartito dal giudice al contribuente, nel giudizio di primo grado, di munirsi di assistenza tecnica - nel caso in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell'assistenza di un difensore abilitato per proporre l'impugnazione dell'atto impositivo - ancorché astrattamente ammissibile anche in secondo grado, non deve essere reiterato, con conseguente inammissibilità dell'appello per mancanza di ius postulandi; l'impugnazione è parimenti inammissibile, senza che la Commissione tributaria regionale debba prima formulare l'invito a munirsi di difensore, se la medesima parte, sfornita in grado di appello della necessaria difesa tecnica, nel giudizio davanti alla Commissione tributaria provinciale sia stata comunque resa edotta dall'eccezione di controparte della necessità dell'assistenza tecnica. Relativamente alla decisione, è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché dell'art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell'illustrazione delle critiche mosse dall'appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l'individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l'esame e la valutazione dell'infondatezza dei motivi di gravame (tra le tante, Cass. V, n. 24452/2018 e Cass. V, n. 13148/2014). La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del giudizioSi ritengono applicabili al giudizio di appello anche le disposizioni su sospensione, interruzione ed estinzione del procedimento di primo grado e, cioè, gli artt. 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45 e 46. Relativamente all'estinzione, tuttavia, si è sostenuto che non è necessaria, in sede di appello, l'accettazione della rinuncia dell'appellante da parte dell'appellato, che non abbia proposto appello incidentale. Difatti, l'estinzione del giudizio comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, che non può essere limitato, come previsto dall'art. 338 c.p.c., da eventuali provvedimenti modificativi e, cioè, da sentenze non definitive, vietate in sede tributaria ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 546 del 1992, sicché, in linea di principio, l'appellato non può avere alcun interesse alla prosecuzione del giudizio (Longo, 2012; Marzo, 366; Gianoncelli, 849-850; Pistolesi, 431-433). Va, tuttavia, ricordato che l'estinzione del giudizio di primo grado per rinuncia o inattività delle parti comporta la definitività dell'atto impositivo, mentre quello del giudizio di appello il passaggio in giudicato della sentenza impugnata che può essere favorevole al contribuente. Tale effetto non si collega, però, all'estinzione per cessazione della materia del contendere ex art. 46 del d.lgs. n. 546 del 1992, da cui deriva il venir meno dell'intero procedimento (Pistolesi, 435). Le differenti conseguenze dell'estinzione del giudizio di primo e di secondo grado nel processo tributario sono state evidenziate anche dalla giurisprudenza. Così, secondo Cass. VI, n. 22368/2015, nel processo tributario, l'estinzione per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con decisione favorevole al contribuente di annullamento dell'atto impugnato, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito impugnata, che passa in giudicato, per cui non può rivivere il provvedimento impositivo, essendo applicabile l'art. 310 c.p.c., in virtù del rinvio di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, attesa la compatibilità con il contenzioso tributario della regola secondo cui l'estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito già pronunciate. Allo stesso risultato perviene con un ragionamento in parte diverso Cass. V, n. 13808/2014, secondo cui l'estinzione per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con decisione favorevole al contribuente di annullamento dell'avviso di accertamento, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito impugnata, che passa in giudicato, essendo applicabile, in virtù del rinvio di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, l'art. 338 c.p.c., compatibile con la disciplina speciale del contenzioso tributario, senza che possa rimanere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti). La giurisprudenza di legittimità riconosce al funzionario rappresentante l'Amministrazione finanziaria il potere di rendere dichiarazioni di rinuncia a verbale in grado di appello (v. Cass. V, n. 5762/2010, secondo cui, in tema di contenzioso tributario, la rinuncia all'appello, formulata in sede di udienza dal funzionario nella cui persona sta in giudizio l'ufficio finanziario, è pienamente valida ed efficace in quanto atto direttamente riferibile all'ufficio stesso, non essendo configurabile in materia l'istituto della rappresentanza volontaria e dovendosi altresì ritenere, nei rapporti esterni, e quindi nei confronti del giudice e della parte privata, che il funzionario agisca in base a legittima investitura del potere esercitato; già prima Cass. V, n. 5270/2004, in tema di contenzioso tributario, premesso che, in sede di pubblica udienza, non è in linea di principio vietato alle parti di rendere dichiarazioni di rinuncia in ordine alla materia del contendere nella forma della dichiarazione a verbale, al funzionario rappresentante dell'amministrazione finanziaria deve essere riconosciuto il potere di rinunciare, in detta sede, al ricorso in appello proposto dall'ufficio, anche in assenza di delega specifica al riguardo — con conseguente legittimità, in caso di accettazione della rinuncia da parte del contribuente, della dichiarazione di estinzione del processo ex art. 44 del d.lgs. n. 546 del 1992, atteso il rilievo esterno da attribuire all'attività del funzionario rispetto alle parti con cui entra in relazione, anche in considerazione dei principi di collaborazione e buona fede tra contribuente e fisco sanciti dall'art. 10 della l. 27 luglio 2000, n. 212). Cass. V, n. 21975/2015 ha individuato una peculiare ipotesi di estinzione del giudizio di appello tributario per inattività delle parti, statuendo che laddove l'appellante non adempia l'ordine d'integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario per la riscossione, rispetto al quale il contribuente appellato abbia riproposto le contestazioni rimaste assorbite in primo grado in ordine ai vizi formali della cartella, si produce ex art. 45 del d.lgs. n. 546 del 1992 una causa estintiva dell'intero giudizio con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Riguardo all'interruzione del processo, proprio relativamente al contenzioso tributario, Cass. V, n. 8159/2011, ha ritenuto che il giudice d'appello, che dichiari la nullità della sentenza per mancata interruzione del processo, deve trattenere la causa e decidere nel merito in virtù del principio della conversione dei vizi della sentenza di primo grado in motivi d'impugnazione, non rientrando tale nullità tra i casi nei quali il giudice d'appello può rimettere la causa al primo giudice (artt. 353 e 354 c.p.c.) e non potendo, pertanto, l'impugnante limitarsi in tali casi a far valere, a motivo del gravame, il solo vizio procedurale. Ne consegue che l'impugnazione con la quale venga dedotta la nullità della sentenza di primo grado deve essere dichiarata inammissibile dal giudice dell'impugnazione, anche se, subordinatamente al rigetto del motivo di rito, vengano prospettate censure riguardanti il merito e, in caso di proposizione di ricorso per cassazione, la pronuncia deve essere cassata senza rinvio, in quanto il processo non poteva essere proseguito. Cass. V, n. 21108/2011, ha affermato che, in tema di interruzione del processo tributario, la dichiarazione di fallimento della società contribuente appellata, intervenuta prima della costituzione in giudizio, ma in pendenza del termine per la costituzione e per la proposizione dell'eventuale appello incidentale, previsto dagli artt. 23 e 54, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, determina l'interruzione automatica del processo e comporta, laddove la curatela non si sia costituita e l'evento interruttivo non sia stato rilevato dal giudice, l'invalidità delle attività processuali eventualmente svolte nella ritenuta contumacia della parte, mentre la successiva fase della prosecuzione è disciplinata dall'art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che prevede la decorrenza del termine sempre dal momento della dichiarazione dell'interruzione, dovendosi così ritenere che un provvedimento del giudice, dichiarativo dell'evento interruttivo, è sempre necessario ai fini del computo del termine per la riassunzione del giudizio. BibliografiaGianoncelli, Sub art. 60, in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, Padova, 2016; Glendi, Estinzione del giudizio di appello determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in Corr. trib. 2014, 2614; Longo, Sub art. 61, in AAVV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo – Glendi, Padova, 2012; Marzo, Norme applicabili, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di Loconte-Selitto, Torino, 2016; Pistolesi, L'appello nel processo tributario, Torino, 2002; Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014. |