L'appellante può limitarsi a riproporre al giudice d'appello gli argomenti già svolti in primo grado?

Mauro Di Marzio
27 Febbraio 2018

Che cosa intendeva dire l'art. 342 c.p.c. laddove affermava che l'appello deve contenere «i motivi specifici dell'impugnazione»? E che cosa intende dire, oggi, nello stabilire che l'appello «deve essere motivato», con le dettagliate specificazioni introdotte nella norma con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134?
Massima

L'appellante, di fronte all'affermazione di un fatto che egli assume inesistente, o l'inesistenza d'un fatto che proclama esistente, ben può limitarsi a sottoporre al giudice di merito le stesse prove e gli stessi argomenti infruttuosamente impiegati per convincere il primo giudice, senza aggiungere altro.

Il caso

Sinistro stradale. Il sedicente trasportato su un ciclomotore agisce in giudizio per il risarcimento del danno contro il proprietario del veicolo, il conducente e l'assicuratore. Proprietario e conducente si difendono sostenendo invece che era l'attore a guidare il veicolo, a loro volta chiamando in causa proprietario, conducente e assicuratore di un'autovettura che avrebbe tagliato la strada al ciclomotore ed avrebbe cagionato il sinistro, e chiedendo condanna al risarcimento dei danni subiti.

Il giudice di primo grado afferma, valutando gli elementi istruttori disponibili, che il ciclomotore era condotto dalla persona indicata dall'attore e che la responsabilità del sinistro era da ascrivere integralmente a lui, adottando le pronunce consequenziali.

Quest'ultimo, unitamente al proprietario del mezzo, propone dunque appello che, però, è dichiarato inammissibile perché generico, in quanto contenente «una mera riproposizione delle argomentazioni svolte dinanzi al tribunale».

La questione

Che cosa intendeva dire l'art. 342 c.p.c. laddove affermava che l'appello deve contenere «i motivi specifici dell'impugnazione»? E che cosa intende dire, oggi, nello stabilire che l'appello «deve essere motivato», con le dettagliate specificazioni introdotte nella norma con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134?

Le soluzioni giuridiche

Secondo la pronuncia in commento, la Corte d'appello, nell'affermare che le doglianze spiegate dall'appellante costituivano mera riproposizione delle argomentazioni già svolte in primo grado, ed erano come tali inammissibili, avrebbe inteso sostenere, in generale, che l'impugnazione debba necessariamente fondarsi su argomentazioni nuove ed ad hoc, senza potersi limitare a riproporre gli argomenti già spesi.

L'impostazione seguita dalla Corte territoriale sarebbe stata fondata sul carattere del giudizio di appello quale revisio prioris istantiae, nozione che, tuttavia, la stessa Corte avrebbe frainteso. Secondo la Suprema Corte, difatti, il giudizio di appello sarebbe disciplinato quale revisio prioris istantiae già sulla base dell'originario testo del codice di procedura civile, senza che le successive riforme della materia abbiano inciso più di tanto sulla sua conformazione, sicché esso continuerebbe ad avere come proprio oggetto il rapporto controverso e non la sentenza impugnata, il che troverebbe conferma nella recente Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199, la quale ha espressamente affermato che «ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado». E dunque l'appellante, di fronte all'affermazione di un fatto che egli assume inesistente, o l'inesistenza d'un fatto che proclama esistente, ben potrebbe limitarsi a sottoporre al giudice di merito le stesse prove e gli stessi argomenti infruttuosamente impiegati per convincere il primo giudice.

Osservazioni

C'è qualcosa di curioso e contraddittorio, talora, nell'atteggiamento attuale della Corte di cassazione riguardo al giudizio di appello, atteggiamento che va ben al di là della sentenza in commento, la quale sembra essere piuttosto la punta di un iceberg, l'espressione di un clima culturale diffuso, teso a depotenziare gli interventi compiuti dal legislatore su di esso, tanto da negare, a me pare contro l'evidenza, il complessivo disegno, senz'altro sgradito, che governa le riforme degli ultimi anni del sistema delle impugnazioni. Curioso, perché la stessa Corte di cassazione, che ha optato per letture a volte iperformaliste del giudizio di legittimità — basti pensare alla vicenda del quesito di diritto ed al principio di autosufficienza — si trasforma poi in vestale di soluzioni eufemisticamente largheggianti quando discorre della conformazione del giudizio di appello. Atteggiamento che mi pare abbia raggiunto il suo culmine proprio con Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199, cimentatasi con significato del nuovo art. 342 c.p.c., dalla lettura della quale parrebbe che una significativa riforma della norma — che oggi esige l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, nonché delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata — non vi sia neppure stata.

Piaccia o non piaccia, ecco come stanno effettivamente, per conto mio, le cose.

La formulazione attuale dell'art. 342 c.p.c., nei termini appena indicati, mostra in modo inconfutabile che l'appellante può alternativamente dolersi: i) della ricostruzione del fatto; ii) di violazioni di legge.

L'espressione «ricostruzione del fatto» non compariva in precedenza nel codice di procedura civile. Di «ricostruzione dei fatti» discorre invece più volte il codice di procedura penale (v. artt. 332, 347, 348, 349, 472 c.p.p.). Negli artt. 474, 517-quinquies e 605 c.p. è poi stabilita una diminuzione di pena per chi aiuta alla «raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti».

Alla luce del senso fatto palese dal significato proprio delle parole, di cui all'art. 12 disp. prel c.c., e tenuto conto che non è ragionevole, in mancanza di una precisa giustificazione, assegnare alla medesima locuzione significati diversi nei diversi ambiti della legge, non pare lecito dubitare che la «ricostruzione del fatto» attenga al fatto nella sua oggettività. La «ricostruzione del fatto», nel contesto della sentenza civile assoggettata ad impugnazione, è allora cosa ben diversa dalla indicazione delle «ragioni di fatto», ossia la motivazione in facto, richiamate dall'art. 132 c.p.c.; la «ricostruzione del fatto» non è che una parte della motivazione in fatto: essa consiste nella esposizione degli «enunciati fattuali» o «enunciati giudiziali non qualificativi», ossia dei «fatti ordinari» o «fatti bruti». Fatti, dunque, accaduti nel mondo fenomenico, ai quali si addice semplicemente il predicato di «vero» o «falso».

Al di là della ricostruzione del fatto sta, invece, la sua valutazione.

Laddove il nuovo art. 342 c.p.c. afferma che i motivi di impugnazione debbono esclusivamente attenere alla ricostruzione del fatto ovvero alla violazione di legge, in fin dei conti, esso non contempla, né dall'uno né dall'altro versante, l'impugnazione della sentenza di primo grado sotto il profilo della sufficienza della motivazione (n. 5 del previgente art. 360 c.p.c.) né tantomeno della sua generica congruità.

Non sembra che il dato letterale lasci spazio ad interpretazioni tali da sorvolare sulla contrazione dell'ambito dei motivi spendibili con l'appello. A tenore della lettera della norma, in definitiva, sembra doversi escludere che possa essere censurata, indipendentemente dalla prospettazione di una diversa ricostruzione del fatto, la motivazione in fatto plausibile, non irragionevole, ma pur sempre opinabile: motivazione che non costituisce fattispecie di violazione di legge, bensì per l'appunto — volendo ricorrere alla locuzione impiegata dal vecchio n. 5 dell'art. 360, comma 1, c.p.c. — di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

Sotto tale aspetto, io credo che il legislatore abbia voluto togliere all'appello il suo carattere di mezzo di impugnazione a critica libera e trasformarlo, consapevolmente, in un rimedio di tipo cassatorio, che ha ad oggetto la sentenza e non il rapporto, giacché esso non consente più di dolersi della generica ingiustizia della sentenza perché fondata su una motivazione ritenuta non appagante.

È opinabile la soluzione? Certo che lo è. Ma ha nondimeno le sue ragioni.

Negli anni '70 del secolo scorso più di un autore suggerì l'abolizione del giudizio di appello, che, come si sa, non è dotato di copertura costituzionale: ma all'epoca il grosso delle controversie di rilievo era deciso in primo grado da un giudice collegiale, che non subiva per di più le influenze — non sempre benefiche — del principio di ragionevole durata del processo; oggi il giudice di primo grado è quasi sempre monocratico, ed il rilievo della giurisdizione onoraria è enormemente lievitato. È la stessa relazione illustrativa alla novella a dire che le sentenze di primo grado riformate in appello ammontano al 32%: dato che non sembra propriamente confortante, giacché mostra come una sentenza su tre sia sbagliata.

Tuttavia, il dato normativo, come dicevo, è quello che è. E d'altronde, non c'è dubbio che la novella dell'art. 342 c.p.c. si inserisca in una trama normativa che conferma la lettura data.

La nuova conformazione dell'appello si armonizza con il nuovo testo del citato n. 5 dell'art. 360 c.p.c., che oggi consente di ricorrere per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Vi è cioè continuità tra la formulazione dell'art. 342 c.p.c., che consente di denunciare, oltre a violazioni di legge, successivamente deducibili anche in cassazione, esclusivamente errori nella ricostruzione del fatto, e la formulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c., che consente l'impugnazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio: in entrambi i casi è la ricostruzione del fatto nella sua oggettività, non la sua valutazione, a venire in considerazione.

Ed inoltre l'intento del legislatore di limitare e disincentivare l'accesso all'impugnazione in appello, al fine di recuperare efficienza, è testimoniata da una pluralità di interventi: il cd. filtro (art. 348-bis -ter c.p.c.); la ulteriore contrazione dell'ammissibilità di nova in appello (art. 345 c.p.c.; art. 702-quater c.p.c.); la sanzione delle sospensive inammissibili (art. 283 c.p.c.); il raddoppio del contributo unificato a carico dell'appellante soccombente (art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

Ancora, la trasformazione dell'appello in strumento di impugnazione a critica limitata (come tutti gli altri mezzi di impugnazione, del resto), oltre ad essere perfettamente compatibile, come si è già ripetuto, con il dettato costituzionale, giacché il legislatore ben potrebbe abolirlo del tutto, non è neppur nuova, ove si consideri che già l'appello contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità può essere proposto soltanto per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia, sicché si presenta quale appello a critica limitata.

La conformazione del giudizio di appello in strumento di impugnazione a critica limitata — che, unitamente all'aumento dell'imposizione fiscale, è il solo strumento volto a ridurre il carico dei giudici di appello dal versante delle «entrate», poiché il «filtro» di cui all'art. 348-bis -ter si colloca invece dal versante delle «uscite», risolvendosi in un incentivo alla definizione di un maggior numero di procedimenti — manifesta poi la sua ragion d'essere anche nell'esigenza di recupero della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, «schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo» (Corte cost., 11 aprile 2008, n. 98): ed è ovvio che limitare l'accesso all'appello significa indirettamente sgravare anche, sia pure in parte, la Corte di cassazione.

In definitiva, l'intervento sul giudizio di appello contenuto nell'art. 342 c.p.c., lungi dal ridursi ad una mera presa d'atto del precedente indirizzo giurisprudenziale, come in buona sostanza sostiene la sentenza in commento, sembra espressione di un progetto organico (che può piacere o no, ma, in generale, non allontana certo, bensì avvicina l'Italia ad altri importanti paesi europei, in cui l'accesso all'appello è, per diverse vie ben più circoscritto) volto alla compressione del sistema delle impugnazioni.

La legge, in breve, ha inteso disegnare un organico sistema che favorisca il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, restringendo il campo delle impugnazioni. Questo la legge ha voluto. Ed il nostro è un Paese che ha un disperato bisogno di qualcuno che osservi la legge.

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