I confini dell'esercizio abusivo della professione. Il caso del chirurgo specializzato che svolge l'attività di odontoiatra

28 Febbraio 2018

Particolarmente sensibilizzata sul problema di definire i limiti e il contesto di operatività dell'art. 348 c.p., norma penale in bianco, la Suprema Corte, più volte nel corso degli ultimi anni è intervenuta con pronunce aventi ad oggetto la fattispecie dell'esercizio abusivo di una professione, in particolare quella sanitaria ...
Massima

Sussiste il delitto di esercizio abusivo della professione qualora un chirurgo, pur altamente specializzato in odontostomatologia, chirurgia orale e implantologia, eserciti quale odontoiatra, senza aver tuttavia conseguito l'abilitazione richiesta, ed essere, pertanto iscritto, nel relativo Albo. Il carattere interdisciplinare delle competenze proprie dell'odontoiatra – che si vorrebbero come tali condivise anche dalla formazione del laureato in medicina e chirurgia che abbia sostenuto esami specialistici in odontostomatologia o che sia specializzato in chirurgia maxillo-facciale – se vale a registrare aree di pertinenza comuni, o di sovrapposizione, rispetto ai due percorsi professionali, non può comunque spingersi ad affermare l'esistenza di un complessivo sistema che, diretto ad esautorare quello plurifonte delineato, sia funzionale al riconoscimento di una identità di effetti.

L'abilitazione all'esercizio della professione è infatti elemento che segnando la distinzione tra “professioni protette” e “non protette”, attribuisce fondamento costituzionale solo alle prime in quanto rette da ordini professionali per attività che, rimesse nella loro determinazione alla legge, restano subordinate nel loro esercizio all'iscrizione in apposti albi ed elenchi. Pertanto, l'esclusività della funzione professionale, definita anche da limitazioni all'accesso imposte dal legislatore ordinario, trova giustificazione, per molte professioni tra le quali quella sanitaria, proprio dall'esistenza di un effettivo interesse pubblico da tutelare.

Il caso

Con sentenza del 15 giugno 2016, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma di quella resa dal tribunale di Pordenone, concessa la sospensione condizionale della pena e la non menzione, revocata la pena accessoria di cui all'art. 31 c.p., confermava il giudizio del primo giudice sulla penale responsabilità del dottor S. D., per il reato di cui all'art. 348 c.p.

Si è in tal modo ritenuto che l'imputato avesse esercitato, presso la D. S.R.L., struttura sanitaria di cui era amministratore e socio unico, la professione di odontoiatra pur non essendo egli iscritto al relativo albo istituito con legge 409 del 1985 e neppure godendo, per aver conseguito il diploma di laurea in medicina e chirurgia nell'anno 2007, della disciplina transitoria che consentiva ai laureati in Medicina e Chirurgia l'esercizio della professione di odontoiatra.

Dopo aver ripercorso gli argomenti adottati dal primo giudice e concluso nel senso che la condotta dell'imputato non si fosse tradotta in un mero apporto chirurgico all'interno di un'attività di equipe in cui operavano, di volta in volta, anche i laureati in odontoiatria appartenenti alla struttura sanitaria dal primo amministrata, e che il mero superamento, all'interno del corso di laurea in medicina e chirurgia, dell'esame di odontostomatologia non legittimasse il sanitario agli interventi contestai (visite, estrazioni, otturazioni, applicazione a fissaggio di capsule ed impiantologia) la Corte territoriale è pervenuta al rigetto del gravame.

I difensori di fiducia dell'imputato ricorrevano pertanto in cassazione sollevando cinque motivi di annullamento relativi ad: a) inosservanza o erronea applicazione della norma processuale e vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale, mancando di valutare l'eccezione sollevata dalla difesa, avrebbe formulato giudizio di penale responsabilità richiamando i contenuti dell'ordinanza emessa in sede di riesame cautelare; b) erronea applicazione dell'art 348 c.p., in relazione agli artt. 33 e 35 Cost; all' art 11 del r.d. 31 maggio 1928, n. 1334 e all'art. 13 d.P.R. 221 del 1950, ad integrazione dell'elemento oggettivo del reato; c) inosservanza ed erronea applicazione della norma penale in relazione all'elemento soggettivo del reato di cui all'art 348 c.p. e vizio di motivazione; d) erroneo diniego dell'art 131-bis c.p. e mancata motivazione; e) inosservanza e/o erronea applicazione della norma penale e vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio.

Più nello specifico.

Nel primo motivo, l'imputato, deduceva la formulazione, da parte della Corte d'appello, di un giudizio di responsabilità penale sulla scorta di quanto contenuto nell'ordinanza del riesame, introdotta dalla difesa solo al fine di provocare l'astensione del giudice di primo grado in quanto già componente del collegio espressosi in sede cautelare. La Corte avrebbe altresì violato il principio del contraddittorio per non aver vagliato tutte le prove ammesse e per non aver motivato sull'inattendibilità di quelle a discarico, con particolare riferimento ad alcune testimonianze da cui sarebbe emerso un ruolo dell'imputato (specializzato per aver conseguito due master in “chirurgia orale” e “implantoprotesi in odontostomatologia”) quale mero assistente dell'odontoiatra impegnato nel lavoro di equipe.

Nel secondo motivo si deduceva l'erronea applicazione dell'art. 348 c.p. in relazione agli artt. 33 e 35 Cost; all'art 11 r.d. 1334/1928 e all' art 13 d.P.R. 221/1950 in merito all'integrazione dell'elemento oggettivo del reato, in quanto difetterebbe una riserva di legge in favore degli odontoiatri nell'esecuzione di interventi di odontostomatologia, nonché una previsione normativa che faccia divieto al laureato in Medicina e chirurgia dell'esercizio degli indicati interventi. Tale divieto riguarderebbe solo l'uso e la spendita del titolo di odontoiatra in difetto di iscrizione all'albo.

La Corte avrebbe inoltre omesso di valutare le disposizioni del d.P.R. 221/1950 sulla ricostituzione delle professioni sanitarie; il regolamento delle arti ausiliarie delle professioni sanitarie come disciplinato nel r.d. 1334/1928; la normativa comunitaria relativa alla facoltà, per i medici, di esercitare anche nel campo dell'odontostomatologia; il carattere di norma penale in bianco dell'art. 348 c.p. riempito con atti normativi e non con fonti secondarie, ed, infine, i titoli di specializzazione acquisiti dall'imputato.

Nel terzo motivo si fa invece valere l'inosservanza e l'erronea applicazione della norma penale in relazione all'elemento soggettivo, sostenendo che l'imputato non si sarebbe mai qualificato come odontoiatra, limitandosi invero ad esercitare il ruolo di direttore sanitario sull'operato degli odontoiatri che lavoravano presso la sua struttura.

Con il quarto motivo si deduce la mancata applicazione dell'art 131-bis c.p. in relazione alla non punibilità per particolare tenuità del fatto e l'assenza di motivazione sul punto; mentre nel quinto ed ultimo motivo si lamenta la mancata concessione delle circostanze generiche e la mancata sostituzione della pena detentiva.

***

La Suprema Corte, investita della questione, ed esaminati i singoli motivi dedotti, ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In via preliminare gli Ermellini hanno analizzato, tracciandone finalità e ratio, il reato di esercizio abusivo di una professione ai sensi dell'art 348 c.p., con particolare richiamo alla l. 409 del 24 luglio 1985, istitutiva della figura dell'odontoiatra.

Smentendo una equipollenza di competenze, tra chi ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia, dopo i regimi transitori, e abbia altresì seguito altri percorsi di formazione e specializzazione, e chi invero ha conseguito il titolo di odontoiatria e protesi dentaria, la Corte di Cassazione ribadisce la non legittimazione del chirurgo ad esercitare la propria attività in tutte le branche della medicina.

La previsione dell'art 348 c.p. risponde all'intento di «tutelare gli interessi generali, a cui è legato l'esercizio di alcune professioni ed esprime il riconoscimento dell'importanza di queste, operato dallo Stato attraverso la subordinazione ad una speciale abilitazione. L'abilitazione all'esercizio della professione è elemento che segnando la distinzione tra professioni “protette” e “non protette” attribuisce fondamento costituzionale solo alle prime, in quanto rette da ordini professionali per attività che, rimesse nella loro determinazione alla legge, restano subordinate nel loro esercizio all'iscrizione in appositi albi o elenchi». Per La Corte, l'obbligatoria iscrizione in appositi albi consente, da un alto, di assoggettare il professionista alle regole deontologiche, al controllo ed al potere disciplinare dell'ordine, e, dall'altro, di garantire l'interesse generale al corretto esercizio della professione e l'affidamento della collettività.

In tale ottica occorre necessariamente bilanciare il diritto al lavoro, ovvero la libertà di scelta dell'attività lavorativa, con altri interessi della collettività, anch'essi costituzionalmente protetti, come i diritti fondamentali alla salute, alla difesa ed all'incolumità pubblica e privata.

Dunque il Legislatore può «dettare disposizioni che specifichino limiti e condizioni inerenti all'esercizio del diritto o che attribuiscono all'autorità amministrativa poteri di controllo a tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali ugualmente fatti oggetto di protezione costituzionale», quali, ad esempio, l'imposizione di un esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio di quelle professioni che, destinate ad incidere su interessi e beni di specifica tutela, garantiscano competenza e qualità proprio grazie al superamento dell'esame.

L'art 348 c.p. costituisce, a detta degli Ermellini, norma penale in bianco in quanto presuppone l'esistenza di altre norme volte ad individuare le professioni per cui è richiesta la speciale abilitazione, nonché le condizioni soggettive ed oggettive, tra cui l'iscrizione in apposito albo, in assenza dei quali l'esercizio va ritenuto abusivo. L'assenza di titolo e di iscrizione all'albo è di per sé condizione per la sussistenza del reato, a nulla contando la perizia, la capacità o l'abilità del soggetto relativamente alle cure praticate.

Riportandosi a precedenti pronunce su tale aspetto, la Corte ribadisce, pertanto, che unico criterio sostanzialistico per la legittimazione all'esercizio sia il superamento del relativo esame di Stato e l' iscrizione all'Albo: è consentito cioè l'esercizio in tutte le branche della medicina, ad eccezione, e dunque con l'esclusione, di quelle riservate per legge a coloro che seguendo un percorso formativo specifico, debbano sostenere apposito esame di stato ed iscrizione in relativo albo.

Passando ad analizzare nello specifico il caso in esame, e la posizione dell'odontoiatra, i Supremi giudici rilevano come la legge 409 del 1985 abbia espressamente previsto e disciplinato tale figura professionale, indicandola in «coloro che sono in possesso del diploma di laurea in odontoiatria e protesi dentaria e della relativa abilitazione all'esercizio professionale conseguita a seguito del superamento di apposito esame di Stato» e a cui sono demandate «attività inerenti alla diagnosi ed alla terapia delle malattie ed anomalie congenite ed acquisite dei denti, della bocca, delle mascelle e dei relativi tessuti, nonché alla prevenzione ed alla riabilitazione odontoiatriche».

Vige pertanto un regime di incompatibilità tra iscrizione all'albo degli odontoiatri e iscrizione ad altri albi professionali, riconoscendo facoltà di iscrizione al primo solo per particolari categorie di medici, nelle quali, per i giudici della Cassazione, non può rientrare il ricorrente. Si tratta infatti di deroghe per posizioni peculiari, temporalmente chiuse e oggetto di un regime transitorio, oramai superato e definitivamente concluso.

Ripercorrendo quelle che sono state anche le pronunce della Corte di Giustizia e le normative comunitarie sul punto, la Sesta Sezione conclude nel senso che la richiamata legge 409 del 1985, segnata da interventi normativi diretti a riallinearne i contenuti ai principi comunitari e da pronunce della Corte Costituzionale, abbia conclusivamente attribuito l'esercizio dell'odontoiatria ai laureati in “odontoiatria e protesi dentaria” iscritti al relativo albo: ciò al fine di tracciare ed individuare un percorso univoco di formazione professionale rispettoso dell'esigenza di favorire la libera circolazione dei medici nel reciproco riconoscimento dei titoli di formazione degli Stati membri.

Tale sistema non può dirsi derogato da stage e master in quanto, il carattere interdisciplinare delle competenze proprie dell'odontoiatra - che si vorrebbero come tali condivise anche dalla formazione del laureato in medicina e chirurgia che abbia sostenuto esami specialistici in odontostomatologia o che sia specializzato in chirurgia maxillo-facciale - se vale a registrare aree di pertinenza comuni, o di sovrapposizione, rispetto ai due percorsi professionali, non può comunque spingersi ad affermare l'esistenza di un complessivo sistema che, diretto ad esautorare quello plurifonte delineato, sia funzionale al riconoscimento di una identità di effetti (sul punto la Corte si riporta a quanto delineato nella nota del Ministero della salute circa le competenze specifiche dell'odontoiatra e del chirurgo maxillo-facciale).

Conclude quindi la Corte che quanto ai primi due motivi di gravame, debba rigettarsi il ricorso e che le contestazioni sulla valutazione delle prove siano inammissibili perché manifestamente infondate.

Parimenti infondato è il terzo motivo relativo all'insussistenza dell'elemento soggettivo, in quanto sarebbe emersa, anche da un procedente specifico, la consapevolezza del medico di agire in violazione delle norme.

Infondati risultano essere anche gli ulteriori motivi relativi alla mancata applicazione dell'art 131-bis c.p.p ed il diniego delle generiche, stante la reiterazione delle condotte nel tempo e la sussistenza del precedente specifico.

Per tali ragioni, con un'articolata motivazione, la Corte ha rigettato integralmente il ricorso condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La questione

Le questioni di diritto sollevate nei motivi di ricorso, attinenti alla configurabilità del delitto di esercizio abusivo della professione sanitaria da parte del chirurgo che eserciti delle competenze specifiche riservate per legge ad odontoiatri iscritti in appositi albi, hanno consentito ai Giudici della Suprema Corte di pronunciarsi, con un lungo excursus sulla normativa nazionale e comunitaria, in merito agli elementi caratterizzanti la richiamata fattispecie, delimitandone il confine.

In particolare gli Ermellini si sono concentrati, ritornando più volte sull'argomento, sull'importanza di utilizzare quale criterio selettivo e sostanziale, al fine di stabilire se una certa professione sia o no esercitata abusivamente, il superamento di apposito esame di stato e l'iscrizione nel relativo albo, in quanto elementi di garanzia e tutela per interessi generali di rango costituzionale, particolarmente protetti dall'ordinamento.

Nel caso in esame, la delicatezza del bene da proteggere, ovvero la salute, necessita di un'attenzione particolare al punto che il legislatore, riempiendo di contenuti la norma penale in bianco del 348 c.p., (sia con leggi ad hoc sui ruoli e le competenze delle singole figure professionali dell'odontoiatra e del medico chirurgo, sia con disposizioni di natura comunitaria, sia addirittura con circolari ministeriali e pronunce di natura amministrativa), ha inteso garantire al massimo lo svolgimento delle professioni mediche, proteggendo nel contempo l'interesse collettivo e la categoria professionale di appartenenza.

Il superamento dell'esame di stato e l'iscrizione all'albo sono infatti indice e garanzia del possesso, in capo a quel professionista, di competenze riconosciute a livello nazionale e comunitario e, di conseguenza, comportano il legittimo affidamento del paziente per la cura delle proprie patologie.

Contrariamente, sostengono i giudici, si giungerebbe a legittimare il medico ad esercitare la propria attività in tutte le branche della medicina, con sovrapposizioni ed interferenze di competenze in discipline mediche che necessitano di specifiche conoscenze e di percorsi formativi distinti.

Le soluzioni giuridiche

Particolarmente sensibilizzata sul problema di definire i limiti e il contesto di operatività dell'art. 348 c.p., norma penale in bianco, la Suprema Corte, più volte nel corso degli ultimi anni è intervenuta con pronunce aventi ad oggetto la fattispecie dell'esercizio abusivo di una professione, in particolare quella sanitaria, e con l'odierna sentenza ha inteso da un lato ribadire principi già affermati e oramai consolidati, dall'altro porre un punto fermo con cui escludere, in maniera categorica e tassativa, l'equipollenza di competenze tra il medico che ha conseguito la laurea in “medicina e chirurgia” e chi invece ha conseguito il titolo in “odontoiatria e protesi dentaria”.

Trattandosi di norma penale in bianco, infatti, è necessario che il Legislatore indichi espressamente i contenuti con cui specificare il contesto di operatività, definendone limiti e caratteristiche: interventi che nel caso in esame, come evidenzia la Cassazione, sono avvenuti attraverso normative nazionali che hanno definito ruoli e competenze delle singole figure professionali operanti nel campo medico; attraverso esegesi dottrinali che, sulla scorta delle pronunce della Corte costituzionale, hanno individuato una gerarchia tra valori e diritti protetti dall'ordinamento; attraverso la giurisprudenza di legittimità, che ha dato dell'esercizio della professione, una lettura espressiva del rispetto dei livelli di competenza necessari per garantire tutela agli interessi pubblici più protetti, e, ancora, attraverso un raccordo tra la normativa italiana e le direttive comunitarie per un riconoscimento equanime della professione in tutti gli Stati membri; e infine anche attraverso provvedimenti di natura amministrativa, volti a definire, nel dettaglio, aspetti tipici ed individualizzanti di ciascuna professione medica.

Proprio in tale ottica, si è ritenuto pertanto che unico elemento idoneo a preservare al massimo il diritto alla salute e, di contro, la professionalità del medico, fosse quello di prevedere un esame di stato al termine del percorso formativo con la successiva iscrizione ad un albo presso l'Ordine professionale, incaricato di far rispettare le regole deontologiche e applicare sanzioni disciplinari per mancato rispetto delle stesse.

Tale soluzione, seppur con marginali deroghe, temporalmente chiuse e dettagliatamente disciplinate, costituisce l'unica possibile per l'Ordinamento, in quanto tutela contemporaneamente il diritto del paziente e la professionalità del medico, il quale, solo così può evitare che i lunghi percorsi formativi affrontati e le capacità acquisite duramente e faticosamente nel corso degli stessi, vengano equiparati a quelli di coloro che, con stage o master, pretendano di vantare le stesse competenze e capacità operative.

Quindi, come suggerisce e ribadisce la Suprema Corte, il carattere interdisciplinare delle competenze proprie dell'odontoiatra, conseguibili solo attraverso il conseguimento del titolo in “odontroiatria e protesi dentaria”, in alcuni casi condivise anche dalla formazione del laureato in medicina e chirurgia, non può comunque consentire di ritenere un'equivalenza tra le due professionalità ovvero una sovrapposizione di sistemi.

Non meno degna di nota è l'ultima osservazione, in diritto, che la Suprema Corte affronta in tema di elemento soggettivo della fattispecie: non è scusabile l'errore sulla norma penale e su quella extra-penale, integrativa del reato e ad essa assimilata, in un'attività medica posta in essere da un professionista ed i cui termini di illiceità risultavano comunque definiti da una legislazione risalente, e nel tempo arricchitasi persino di pareri del Consiglio di Stato e delle istruzioni del Ministero della Salute (così ribadendo un principio cardine dell'ordinamento penale).

In conclusione, perché il professionista non cada in errore sui limiti delle proprie competenze e dei propri ambiti di operatività, è necessario che si attenga alle indicazioni e alle previsioni specificamente disciplinate dal proprio Ordine di appartenenza, a cui è iscritto dopo aver superato il relativo esame di stato.

Osservazioni

Meritevole di un breve approfondimento è la recentissima entrata in vigore della c.d. riforma Lorenzin (l. 11 gennaio 2018, n. 3): la legge infatti ha riscritto completamente l'art .348 c.p. inasprendo il trattamento sanzionatorio (con pene fino a tre anni di reclusione e multe fino a 50.00 euro, pubblicazione della sentenza e confisca automatica dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato) e prevedendo delle aggravanti speciali per chi ha determinato altri a esercitare una professione in maniera abusiva o chi ha diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato, prevedendo, per tali soggetti, la reclusione da uno a cinque anni e la multa da 15mila a 75mila euro.

Un'ulteriore garanzia, quindi, per la salute dei cittadini e per tutti quei professionisti che, avendo conseguito il titolo attraverso il superamento dell'Esame di Stato e la successiva iscrizione all'albo, vedranno tutelate con maggior forza le proprie competenze e specialità, a discapito di coloro che, privi dei requisiti richiesti dalle norme, non solo non potranno vantare titoli che non possiedono, ma soprattutto non potranno operare (pena l'applicazione di sanzioni particolarmente rigorose) in ambiti esulanti dal proprio settore, dunque abusivamente, senza le necessarie competenze, conseguibili solo attraverso percorsi formativi riconosciuti, disciplinati e normati.

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