Interpretazione della legge penale

Paolo Pittaro
15 Marzo 2018

L'interpretazione della legge penale non può discostarsi dalla normativa sull'interpretazione della legge in generale, quale espressa dall'art. 12, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile (le c.d. preleggi), in forza del quale: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Tale dettato, per quanto vada ad esplicare le diverse tipologie o modalità, quale l'interpretazione letterale (significato proprio delle parole), sistematica (secondo la connessione di esse) e ...
Inquadramento

L'interpretazione della legge penale non può discostarsi dalla normativa sull'interpretazione della legge in generale, quale espressa dall'art. 12, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile (le c.d. preleggi), in forza del quale:

Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore

Tale dettato, per quanto vada ad esplicare le diverse tipologie o modalità, quale l'interpretazione letterale (significato proprio delle parole), sistematica (secondo la connessione di esse) e teleologica (intenzione del legislatore), presenta il profilo della latitudine della stessa, quale l'interpretazione riduttiva ovvero quella estensiva. Il problema si presenta particolarmente significativo nel delineare soprattutto il rapporto, ovvero, rectius, il confine fra l'interpretazione penale estensiva e l'analogia, la quale, com'è noto, è vietata nel diritto penale ai sensi dell'art. 14 delle stesse preleggi.

Peraltro, se tutti questi temi possono e debbono essere approfonditi, non si può non far menzione che l'interpretazione del diritto, nella sua essenza e definizione, costituisce un argomento di forte dibattito nel contesto della teoria generale del diritto fino all'irrompere della questione della vincolatività, o meno, del precedente interpretativo giurisprudenziale.

Peraltro, il richiamo, in prima ed ultima istanza, all'art. 12 preleggi nella sua apparente esaustività potrebbe sembrare anche semplicistico, posto che sempre più il nostro ordinamento deve confrontarsi anche con i princìpi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo(Cedu), quale espressi dalle decisioni della relativa Corte di Strasburgo (Corte Edu).

Il quadro, pertanto, viene ad ampliarsi alquanto, anche se il punto di partenza e di necessario riferimento non può che essere rappresentato dalle norme che la Costituzione dedica al sistema penale.

Il profilo costituzionale

L'art. 25, comma 2 Cost. nel sancire che «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», insistendo sul termine legge presenta tre piani di lettura, dedicati alle fonti del diritto penale, alla sua interpretazione ed alla tecnica di costruzione della fattispecie penale (oltre, ovviamente, a quello dedicato alla successione della legge nel tempo, che qui non rileva).

In effetti, viene sancito, sul piano delle fonti del diritto penale, il privilegio del potere legislativo nei confronti di quello esecutivo e di quello giurisdizionale, nella esigenza di una previa riconoscibilità del penalmente rilevante.

Vengono così espressi i tre princìpi: di legalità, di tassatività e di tipicità della legge penale, nel contesto della ratio digaranzia (e non di certezza del diritto) che ispirano queste disposizioni attinenti al settore penale (artt. da 24 e 27) della Carta.

Più esattamente:

  • il principio di legalità fissa il primato della legge (da intendersi in senso sostanziale) rispetto all'esecutivo stabilendo una riserva assoluta di legge rispetto alla sanzione ed una riserva tendenzialmente assoluta per quanto concerne il precetto.
  • Il principio di tassatività costituisce un vincolo per il legislatore stesso, che deve costruire la fattispecie in modo riconoscibile, ossia in modo preciso o sufficientemente determinato: un principio rivolto, quindi, all'interno, ad intra.
  • Il principio di tipicità afferma che le fattispecie penali sono solamente quelle previste dal legislatore e non possono essere ampliate. In altri termini sono un numerus clausus, e tale principio è rivolto all'esterno, al giudice, ad extra.

L'intreccio di tali princìpi influisce direttamente sul tema dell'interpretazione.

L'interpretazione autentica

Prima ancora di addentrarsi sul possibile significato del dettato normativo espresso, a fronte di dubbi e difformità esegetiche, deve ammettersi che il Legislatore può emanare una legge di interpretazione autentica volta a dissipare le possibili ambiguità.

Ciò non toglie che la stessa legge di interpretazione autentica non possa sottrarsi a essere interpretata e che, sebbene da ritenersi applicabile ex tunc, non possa considerarsi retroattiva ove il dettato normativo, ora così interpretato, possa ritenersi contra reum.

Ne discende, da un lato, che, in tal caso, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., dovrà applicarsi nella sua vecchia dizione più favorevole (Cass. pen., Sez. III, 30 settembre 2008, n. 41839) e che, dall'altro lato, il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua ratio ispiratrice, l'area operativa, perché finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (Cass. pen., Sez. unite, 19 aprile 2012, n. 34472).

L'interpretazione estensiva

La classica distinzione fra interpretazione dichiarativa (facente aggio sulla dizione letterale della proposizione), quella restrittiva e quella estensiva (riducendone ovvero dilatandone la portata), per quanto dottrinalmente raffinata, nel campo dell'operatività penale lascia il tempo che trova, in quanto, comunque la si intenda, l'interpretazione rimane sempre nell'ambito del significato effettivo della norma, alla stregua dei parametri di cui all'art. 12 delle preleggi. Il punto sta, invece, nel non sconfinare nell'analogia, donde la vitale importanza della linea di confine tra l'interpretazione c.d. estensiva (ossia nel suo significato più ampio) e l'analogia, vietata per il diritto penale.

Sul piano dommatico è affatto pacifico che l'interpretazione estensiva si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo alla intenzione del legislatore, cui si riferisce l'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. Di guisa che la massima ubi lex voluit dixit, ubi non dixit noluit vale per escludere l'interpretazione analogica e non già quella estensiva che avviene per necessità logica e non per similitudine di rapporti. In altri termini, l'interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma ma impedisce che fattispecie a essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. È infatti dovere dell'interprete applicare la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe, in modo da far coincidere esattamente la portata della norma stessa con il pensiero e la volontà del legislatore (Cass. pen., Sez. V, 2 aprile 1986, in Cass. pen, 1987, p. 1116; Cass. pen., Sez. V, 8 gennaio 1980, ivi, 1981, p. 1033).

In definitiva, l'interpretazione estensiva è un criterio ermeneutico con il quale si attribuisce il più ampio significato, fra quelli possibili, ai termini che definiscono la norma, che trova, però, il proprio limite invalicabile nella stessa lettera della legge. L'analogia, invece, è un procedimento di astrazione logica, attraverso il quale viene risolto un caso non previsto dalla legge, applicando la disciplina espressamente prevista per un caso diverso, ma collegato a quello in esame da un rapporto di similitudine (Cass. pen., Sez. II, 27 febbraio 2003, n. 21168, in Giur.it., 2004, c. 1926).

In evidenza

Del tutto scontato che, dovendo la legge penale applicarsi solo ai casi in essa considerati, non è consentito, in mancanza di una espressa disposizione, estendere al tentativo, avente autonoma configurazione giuridica, la disciplina del reato consumato (Cass. pen.,Sez. II, 22 ottobre 2013, n. 5504; Cass. pen., Sez. II, 21 marzo 2012, n. 24643; Cass. pen., Sez. III, 2 aprile 1984, n. 6218, in Giust. pen., 1985, II, c. 328).

Gli elementi dell'art. 12 delle preleggi

Tuttavia, individuare, sul piano della prassi, tale linea di confine non è sempre semplice. Infatti, prima ancora di esaminare la peculiarità delle singole fattispecie, sono gli stessi elementi strutturali dell'art. 12 preleggi a presentare, essi stessi, questioni interpretative: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore»

Il significato proprio delle parole conduce ai lemmi linguistici che se, a volte, sono incontrovertibili (ad esempio: i numeri) altre volte possono essere polisenso ovvero, seppur di immediata intuizione, non di indiscussa applicazione alla fattispecie di riferimento. E gli stessi termini giuridici adoperati, specie se extrapenali, non appare scontato abbiano il medesimo significato nella disposizione penale: si pensi, ad esempio, al concetto di “possesso”, ben preciso e definito nel diritto civile (art. 1140 c.c.), ma inteso non nella stessa identica accezione nel delitto di peculato (art. 314 c.p.).

Peraltro, la connessione di esse conduce all'interpretazione sistematica. Tuttavia, pur tenendo conto dell'articolata e rigida struttura (anche logico-gerarchica) del codice penale, esattamente si è affermato che le partizioni sistematiche di una legge, in particolare titoli, capi e rubriche, non fanno parte né integrano il testo legislativo e quindi non vincolano l'interprete, in quanto la disciplina normativa sulla formazione delle leggi prevede che solo i singoli articoli siano oggetto di esame e di approvazione da parte degli organi legislativi (Cass. pen., Sez. I, 20 marzo 2015, n. 16372; Cass. pen., 12 ottobre 1982, in Giust. pen., 1983, II, c. 633).

Infine, per quanto concerne l'intenzione del Legislatore, è assodato che, per quanto significativi, i lavori preparatori di una legge non possono essere decisivi ai fini dell'interpretazione della norma e si deve attingere a simili fonti con estrema cautela, specialmente quando l'evoluzione dell'intero ordinamento giuridico comporta una inevitabile modificazione dei concetti espressi in un contesto storico assai lontano e profondamente diverso dall'attuale (Cass. pen., Sez. VI, 22 aprile 1980, in Giust. pen., 1981, III, c. 141).

In tale prospettiva, non solo l'intenzione del Legislatore può essere, allora, considerata secondo i contrapposti criteri oggettivo/soggettivo (ossia ancorato, o meno, al contesto storico dell'emanazione della legge), ma viene individuata alla stregua della ratiodella disposizione, della sua finalità e del bene protetto. Prescindendo dalle sottili distinzioni fra questi tre ultimi concetti, si è a tal proposito affermato che, in tema di interpretazione della norma penale, il criterio dell'individuazione del bene giuridico protetto non può valere ad inficiare principi essenziali, come quelli di legalità e tassatività, che costituiscono la chiave di volta del sistema penale; non è pertanto consentito all'interprete ridurre, sia pure in bonam partem, il contenuto della previsione normativa, introducendo in essa un elemento estraneo, mutuato dall'identificazione, spesso problematica, del bene giuridico, del quale la medesima costituirebbe proiezione e protezione (Cass. pen., Sez. III, 25 marzo 1983, in Giust. pen., 1984, II, c. 222).

La questione, dunque, si attesterebbe nel senso che, pur partendo dal significato linguistico, l'interpretazione è anche valutativa: anzi, come autorevolmente è stato rilevato, sembra ormai dimostrato che il procedimento interpretativo avanza per successivi aggiustamenti, trascorrendo dal significato linguistico a quello valutativo e viceversa.

Interpretazione e divieto di analogia nelle preleggi: una diversa soluzione?

A tale proposito mette conto evidenziare una riflessione che tende a precisare particolarmente la latitudine dell'interpretazione, ponendo a confronto proprio quanto disposto dalle disposizioni preliminari al codice civile.

Com'è noto, le preleggi, dopo aver disposto, all'art. 12, comma 2, la regola generale dell'analogia per l'ordinamento giuridico (nelle due forme della analogia legis e della analogia iuris) ne vieta l'applicazione per il settore penale nel successivo art. 14, ove testualmente afferma che «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o a altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Divieto di analogia, peraltro, sancito anche dall'art. 25, comma 2, Cost. e dall'art. 1 c.p. e non interessa qui rilevare se riferibile all'analogia tout court ovvero solo a quella in malam partem (come peraltro ritenuto da gran parte della dottrina).

Il punto è un altro. Se l'art. 12 stabilisce il principio generale e l'art. 14 la sua non applicazione settoriale, ci si chiede cosa stava scritto nell'art. 13, da tempo abrogato, in quanto in riferimento all'ordinamento corporativo, istituzione fascista caduta assieme al regìme. Ebbene, l'art. 13 disponeva che «le norme corporative non possono essere applicate a casi simili o a materie analoghe a quelli da esse contemplati». Come dire che l'analogia era vietata per le norme corporative.

Se, in definitiva, l'analogia era vietata sia per le norme corporative sia per le norme penali, ci si chiede perché il Legislatore non ha usato la medesima dizione. Come aveva fatto per le norme corporative, poteva dire che «le norme penali non possono essere applicate a casi simili o a materie analoghe». Oppure disporre che «le norme corporative e le norme penali non possono essere applicate a casi simili o a materie analoghe».

L'ipotesi prospettata, allora, è quella che il legislatore, usando nell'art. 14 la diversa espressione «le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati» abbia voluto esprimere qualcosa di diverso e di più ampio rispetto al semplice divieto di analogia: che abbia voluto, in altri termini, restringere l'interpretazione e l'applicazione della norma penale a quella più aderente al dettato letterale, limitandone ogni estensione. Si tratta di un rilievo di particolare interesse: inutile dire che, in tale prospettiva, non avrebbe spazio un'interpretazione più dilatata.

E non a caso può allora essere ulteriormente riproposto il dettato dell'art. 1 c.p. («nessuno può essere punito per un fatto per non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite»), ove l'avverbio espressamentenon solo sancirebbe il divieto di analogia, ma anche quello di una interpretazione che si discosti da quella letterale.

Il dettato letterale fra disposizione e norma

Inutile dire che tale impostazione verrebbe, in poche parole, a limitare fortemente la discrezionalità del giudice nella sua attività ermeneutica e si porrebbe, invece, di traverso a tutt'altra concezione, avanzata nel più generale contesto della teoria generale del diritto e, a quanto pare, se non completamente accettata, certamente approfondita e discussa nel certamen penalistico.

Infatti, posto che, come evidenziato, complesso appare il procedimento interpretativo come delineato dall'art. 12, comma 1, preleggi, ove imprescindibile appare l'intervento attivo del giudice, si afferma che il dettato della legge sia solamente una “disposizione” giuridica e che solo tramite la sua interpretazione da parte del giudice, in vista della sua applicazione, diviene una “norma” giuridica.

Peraltro, si ritiene affatto superata ed improponibile la classica visione di Montesquieu del giudice quale “bocca della legge” artefice del c.d. sillogismo giudiziale, anche se non pare superfluo ricordare, e con forza, che l'art. 101, comma 2, della Costituzione afferma che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».

Per usare una terminologia più à la page dovremmo insomma passare dalla law in the books alla law in action.

L'interpretazione costituzionalmente orientata

Al di là del dettato dell'art. 12 delle preleggi si afferma che l'interpretazione deve essere costituzionalmente orientata.

In effetti, sin dai primi tempi del suo operare la Consulta aveva affermato che, ai fini del controllo di legittimità costituzionale, è buona regola quella di far prevalere, rispetto ad una norma di dubbio significato, quella interpretazione secondo cui la norma sia intesa in un senso conforme alla Costituzione (Corte cost., 16 aprile 1964, n. 43). Peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che, nel caso siano ipotizzabili più interpretazioni di una legge, si deve scegliere, se esiste, quella consona ai principi della Costituzione piuttosto che sollevare, sulla base di una possibile interpretazione non conforme, la questione di legittimità costituzionale (Cass. pen., 29 settembre 1982, in Riv. pen., 1983, p. 614).

Ora, se è vero che il giudice (ovviamente: non quello che aveva sollevato l'eccezione di legittimità costituzionale) potrebbe anche discostarsi da una sentenza c.d. interpretativa di rigetto, ove la Corte costituzionale interpreta la norma sotto il suo scrutinio discostandosi da un'interpretazione più consona alla ratio del legislatore per renderla più aderente ai princìpi della Carta e, quindi respingendo la relativa eccezione, è anche vero che, in tale caso, rischia, in sede di gravame, o una forte censura ovvero una ulteriore eccezione di legittimità con l'inevitabile sentenza, questa volta di accoglimento, da parte della Consulta.

Più di recente la Corte costituzionale ha affermato che il giudice deve dare della norma in esame una lettura costituzionalmente orientata alla stregua della propria giurisprudenza, per cui, a fronte ad una fattispecie similare a quella già oggetto di una sentenza di accoglimento ovvero manipolativa della Corte stessa, deve applicare direttamente il principio così affermato nel procedimento de quo, astenendosi dal sollevare una questione di legittimità analoga a quella già risolta.

Così, ad esempio, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 609-sexies c.p., il quale sanciva (nella vecchia dizione) la presunzione assoluta di conoscenza dell'età del minore infraquattordicenne nei reati sessuali, poiché della disposizione doveva darsi una lettura costituzionalmente orientata, secondo la quale, alla luce del principio di colpevolezza affermato dall'art. 27, comma 1, Cost., e di quanto già in precedenza ritenuto dalla Corte stessa in riferimento a fattispecie similari, quale la fondamentale sentenza 24 marzo 1988, n. 364 (ove lo scrutinio contemplava l'art. 5 c.p.), tale presunzione ammetteva la prova dell'ignoranza inevitabile (Corte cost., 24 luglio 2007, n. 322). Parimenti ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4, c.p.), in quanto la stessa Corte si era già pronunciata su questioni identiche, dichiarate dapprima inammissibili e poi manifestamente infondate, poiché i rimettenti non hanno verificato la possibilità di un'interpretazione conforme a Costituzione, posto che il presupposto secondo cui la recidiva reiterata sarebbe divenuta obbligatoria in ogni caso non è l'unica soluzione prospettabile (Corte cost., 29 maggio 2009, n. 171).

La rilevanza dei precedenti giudiziari

Meramente formale, peraltro, porsi il problema di un'interpretazione conforme ai precedenti giudiziari sul tema. Per quanto possa essere un punto sensibile nella visione moderna della law in action, appare superfluo rimarcare come nel nostro ordinamento, anche ai sensi dell'art. 101, comma 2, Cost., non possa applicarsi il principio anglosassone dello stare decisis.

È ben vero che la Suprema Corte di Cassazione adempie alla sua funzione nomofilattica, per cui, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., come integrato dalla recente legge 23 giugno 2017, n. 103, se una sezione della corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle Sezioni unite: e, parimenti, se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso. Ma è anche vero che, per quanto autorevoli, le pronunce della Cassazione, anche nella massima espressione delle sezioni unite, possono ben essere disattese da qualsiasi giudice nella sua decisione.

L'interpretazione conforme alle disposizioni della Cedu

Ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost., «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». E in tali obblighi internazionali rientra la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu). A tale proposito, la Corte costituzionale, a partire dalle c.d. sentenze gemelle n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, ha costantemente ritenuto che le norme della Cedu – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (Corte Edu), specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Come dire che il giudice, nell'interpretare la norma da applicare deve darne non solo una interpretazione conforme alla Costituzione, ma anche quella (il parametro è stato definito, oltre che di interposizione, anche come sub-costituzionale) conforme alle disposizioni della Cedu ma – e questo è un dato di particolare rilevanza – nella particolare interpretazione datane dalla Corte Edu.

Pertanto, nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Cedu, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Se questa verifica dà esito negativo e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Cedu, nella interpretazione che ne ha fornito la Corte di Strasburgo, e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo una questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost., 28 novembre 2012, n. 264; Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113).

Il rischio di una interpretazione creativa

A questo punto è giocoforza constatare come il quadro dell'interpretazione, nei suoi princìpi, nei suoi criteri e nelle sue applicazioni è andato viepiù dilatandosi, proprio perché è andata viepiù aumentando la portata dei compiti ermeneutici affidati al giudice. E non a caso si vuole fare sempre più riferimento alla law in action.

Il tema clou, pertanto, non verte più tanto sulla annosa distinzione fra interpretazione estensiva ed analogia (le cui numerose fattispecie sono elencate e ben rinvenibili nella trattatistica e nei vari repertori di settore), ma nella possibilità di una vera e propria interpretazione creativa giurisprudenziale.

Il caso più paradigmatico, almeno allo stato, è rappresentato dalla nota vicenda Contrada. Le scansioni sono note: l'imputato, dopo una lunga e turbinosa vicenda processuale, era stato condannato in via definitiva (Corte appello Palermo, 25 febbraio 2006) per concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis c.p. Il discusso nodo era rappresentato dal fatto che, secondo il Contrada e parte della dottrina, il delitto di riferimento veniva considerato di mera creazione giurisprudenziale e non ricavabile dalla stretta interpretazione delle norme di riferimento.

Breve: il Contrada adiva la Corte Edu, la quale condannava l'Italia per violazione dell'art. 7 Cedu (Sez. IV, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia) ma non per la fonte meramente giurisprudenziale della norma incriminatrice, che, anzi, veniva equiparata alla fonte legislativa, ma per violazione del divieto di retroattività della norma penale, in quanto siffatta interpretazione giurisprudenziale doveva datarsi a partire dalla nota sentenza Demitry (Cass. pen., Sez. unite, 5 ottobre 1994, n. 16), mentre i fatti addebitati al ricorrente erano precedenti a tale data e, quindi, l'innovazione esegetica giurisprudenziale non era da lui prevedibile.

Peraltro, la vicenda ha avuto anche una ulteriore complessità: i giudici di merito italiani inizialmente avevano rifiutato di dare esecuzione alla sentenza di Strasburgo revocando la condanna nostrana al Contrada, affermando che, per la sua particolare rilevanza di soggetto apicale nelle istituzioni di polizia e, quindi, a stretto contatto con la magistratura, avrebbe ben potuto prevedere tale impostazione giurisprudenziale (Corte d'app. Caltanissetta, 17 marzo 2016; parimenti la Corte app. Palermo, Sez. I, 24 ottobre 2016, aveva dichiarato inammissibile il proposto incidente di esecuzione).

Infine, la Suprema Corte ha chiuso definitivamente il caso (Cass. pen., Sez. I, 20 settembre 2017, n. 43112), annullando la sentenza di condanna di Bruno Contrada dichiarata come ineseguibile e improduttiva di effetti penali.

Al dà di tale concreta vicenda, per quanto di pregnante interesse, due sono i punti di rilievo della sentenza della Corte di Strasburgo. In primo luogo, ha del tutto equiparato l'interpretazione creativa giurisprudenziale ad una fonte legislativa. In secondo luogo, ha introdotto il principio della “prevedibilità” della norma penale incriminatrice. In altri termini: una diversa concezione ed applicazione del principio di legalità, quale finora inteso dall'esegeta di casa nostra in riferimento all'art. 25 Cost. e non all'art. 7 Cedu.

A nostro avviso, se il secondo rappresenta un novum rappresentativo di quella ratio di garanzia che ispira i princìpi costituzionali e sovranazionali in campo penale, ossia la “prevedibilità”, che viene ad ampliare la nota esigenza di conoscibilità della norma incriminatrice, il primo non va sopravvalutato, ma inteso correttamente. La Corte, infatti, non ha preso posizione sulla reale fonte della norma penale in oggetto, quale la sola legge per l'ordinamento italiano, ma ha stabilito la princìpio della prevedibilità di tale norma, da qualsiasi fonte essa provenga. Ed essendo un principio valido per tutti gli Stati aderenti alla Cedu, la Corte aveva ben presente anche gli ordinamenti giuridici di common law, nei quali, per l'appunto, sussiste anche la possibilità della interpretazione giurisprudenziale nello spettro delle fonti del diritto penale.

In conclusione

Il tema dell'interpretazione nel diritto è particolarmente ampio ed in evoluzione, con l'intervento di giuristi di diversa matrice, ove accanto ai cultori del diritto positivo si pongono quelli della filosofia e della teoria generale del diritto. Inevitabile, quindi, che pure l'interpretazione nel diritto penale ne sia influenzata.

Anche senza scomodare la nota definizione di Kelsen per cui la sentenza è la norma del caso concreto ovvero delle posizioni (per noi: inaccettabili) del realismo giuridico (sia esso scandinavo ovvero anglosassone), è indubbio che il dilatarsi della discrezionalità del giudice – specie in un contesto, quale quello attuale, dell'imporsi della c.d. supplenza legislativa da parte della giurisdizione – tende all'attuazione concreta della citata law in action.

Tuttavia, nel quadro dell'art. 25 Cost. che afferma il primato della legge come fonte del diritto penale, irrinunciabile appare il primario riferimento al dettato della legge, come affermato dall'art. 12 delle preleggi. Il che non comporta un regresso all'interpretazione esclusivamente letterale, quasi a rifiutare il complesso di quella valoriale, ma a fissarne, al contrario, l'imprescindibile punto di partenza e di coerenza con qualsivoglia risultato ermeneutico, posto che solo in tale prospettiva viene rispettato quel principio di legalità, che pervade i delitti e pene, ora garantito dalle disposizioni di una Costituzione rigida, e già a suo tempo espresso nel celebre libretto di Cesare Beccaria.

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