Rapporti tra mediazione obbligatoria e opposizione a decreto ingiuntivo

Gianluca Cascella
15 Marzo 2018

Nella sentenza in commento, il tribunale di torre Annunziata si è occupato del tema relativo all'individuazione del soggetto obbligato a presentare la domanda di mediazione nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo.
Massima

L'opponente a decreto ingiuntivo, instaurando il contraddittorio dopo la prima fase inaudita altera parte, in ipotesi di obbligatorietà della mediazione è tenuto a presentare la domanda di mediazione nel rispetto del termine assegnatogli dal giudice, per evitare che la proposta opposizione sia dichiarata improcedibile ed il decreto opposto divenga definitivo.

Il caso

La decisione che si commenta si è trovata ad esaminare, nel contesto di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la problematica relativa all'assolvimento dell'onere di esperire il tentativo di mediazione, in fattispecie in cui la stessa, ai sensi del d.lgs. n. 28/2010, è prevista come obbligatoria, e che, dalla decisione risulta avere ad oggetto la materia dei contratti bancari, vertendo quindi, verosimilmente, sull'inadempimento di un contratto rientrante in tale categoria.

La questione

Le problematiche affrontate dal tribunale oplontino, per decidere la controversia, hanno riguardato, da un lato, l'individuazione della parte da ritenersi onerata, nel silenzio legislativo, dell'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione e, dall'altro, l'istituto della rimessione in termini, disciplinato dall'art. 153, comma 2, c.p.c.. Si tratta, come appare evidente, di due questioni diverse, involgendo la prima aspetti di solo diritto, attinenti alla ricostruzione delle coordinate ermeneutiche sulla scorta delle quali individuare, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, la parte processuale da ritenersi effettivamente onerata ad introdurre il procedimento di mediazione - ed a carico della quale, conseguentemente, porre le conseguenze del mancato assolvimento di detto onere - in relazione alla quale non può dirsi sussistere un orientamento univoco, nella giurisprudenza di merito, mentre si conta, ad oggi, un solo arresto di legittimità, sul punto; la seconda, invece e specularmente, afferente la valutazione di circostanze meramente fattuali, al fine di verificare se, sulla scorta delle stesse, possa o meno dirsi imputabile alla parte il mancato compimento di una determinata attività cui è connesso il verificarsi dell'effetto decadenziale previsto dal legislatore.

Le soluzioni giuridiche

Per la prima delle due questioni prospettate, il tribunale procede alla ricognizione della normativa contenuta, al riguardo, nel d.lgs. n. 28/2010. In proposito, il giudice ha ritenuto che, alla luce dell'orientamento palesato dall'unica pronuncia in termini della Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629) ove la condizione di procedibilità non possa dirsi assolta in quanto la parte che era tenuta a provvedervi - cioè il debitore opponente, per la Suprema Corte - abbia omesso di farlo, il giudice di merito altro non può fare che dichiarare l'improcedibilità dell'opposizione, statuendo in conseguenza la definitività del decreto ingiuntivo che, se non già provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c., lo diviene per effetto di tale statuizione. La decisione del tribunale risulta fondata sulle seguenti argomentazioni: i) il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in ragione della natura solo eventuale di tale fase, necessariamente inizia per volontà del debitore ingiunto, che in esso assume la veste di attore; ii) essendo il decreto ingiuntivo astrattamente idoneo al giudicato (se il debitore non propone l'opposizione ovvero il relativo giudizio si estingue), se la condizione di procedibilità non si avvera, il decreto ingiuntivo resta insensibile a tale situazione, che influisce sul solo giudizio di opposizione, che il creditore non ha introdotto nè può dirsi interessato a coltivarlo, il che, poi, dovrebbe avvenire al solo fine di conservare l'efficacia di un provvedimento, quale il decreto ingiuntivo che, al contrario, è già efficace di suo; iii) ritenere il creditore gravato di un simile onere, allora, per il tribunale, risulterebbe in contrasto con la concorde ricostruzione, dottrinale e giurisprudenziale, del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo come procedimento la cui introduzione dipendente esclusivamente dalla univoca decisione del debitore ingiunto; iv) quindi, non può ravvisarsi, in capo al creditore opposto, alcun interesse giuridicamente rilevante ad instaurare il procedimento di mediazione, da sanzionare, in caso di mancato esperimento, con la revoca del decreto opposto, ritenendosi tale conseguenza ingiustificata e contrastante non solo con le regole proprie del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ma anche con gli scopi - di chiara deflazione del carico dei processi - che il legislatore ha inteso perseguire con il procedimento di mediazione. Ha ritenuto pertanto il tribunale che, essendo l'art. 5, d.lgs. n. 28/2010 norma disegnata in funzione deflattiva, per relegare il ricorso al processo quale extrema ratio, come ultima possibilità dopo che le altre sono risultate precluse, ne consegue che l'onere di esperire il tentativo di mediazione debba allocarsi presso la parte che, oltre ad avere interesse al processo, è pure fornita del potere di iniziarlo. Per quanto riguarda la seconda problematica, il tribunale campano, esaminando la documentazione prodotta dall'opponente a sostegno della chiesta rimessione in termini, ha rilevato l'insussistenza, nel caso de quo, dei presupposti per la rimessione in termini, riscontrando, da un lato, che l'opponente - rectius, il suo difensore - prima che il termine di 15 giorni fosse scaduto, disponeva ancora di alcuni giorni - un tempo ritenuto sufficiente - per introdurre la mediazione e, dall'altro, che, pur essendovi tale possibilità nonchè venuto meno l'impedimento del difensore, parte opponente non vi aveva provveduto, incorrendo nella sanzione conseguente all'inosservanza di un termine ritenuto perentorio.

Osservazioni

La dottrina non è uniforme sull'individuazione di chi è onerato ad introdurre la mediazione in tali controversie, in quanto, alla posizione di chi ritiene detto onere gravare sull'opponente, siccome formalmente attore in detto giudizio e come tale onerato a curare il regolare svolgimento di esso - mediazione inclusa - in ogni suo aspetto (Lupoi M.A., Ancora sui rapporti tra mediazione e processo civile, dopo le ultime riforme, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2016, 1, 12 e ss.) si contrappongono ricostruzioni che ritengono invece tale onere gravante sull'opposto. Da alcuni, infatti, si sostiene che l'affermazione della Suprema Corte per la quale la scelta del debitore di fare opposizione sarebbe processualmente dispendiosa, quindi osteggiata dal legislatore onerando l'opponente ad introdurre la mediazione, con le relative conseguenze in caso di omissione, non è condivisibile in quanto, anche se formalmente collegata al principio del giusto processo, nella sostanza lo vanifica, mirando ad impedire che un processo - quello di opposizione a decreto ingiuntivo - venga celebrato (Benigni E., Mediazione e opposizione a decreto ingiuntivo: onerato dell'avvio è l'opponente, in Giur. it, 2016, 1, 73 e ss.); secondo altri, tale ricostruzione della Suprema Corte è ingiustificata, innanzitutto perchè, considerando che sul debitore già grava un provvedimento emesso inaudita altera parte, ed egli è anche onerato a fare opposizione, se vuole realizzare, ex post, il contraddittorio assente nella fase monitoria, oltre che evitare la definitività del decreto, si rivela eccessivo ritenerlo anche tenuto - pur in assenza di una previsione di legge - ad introdurre la mediazione (Minelli G., Permane il contrasto su chi, tra opponente ed opposto, sia onerato ad introdurre il tentativo obbligatorio di mediazione, in Società, 2016, 10, 1153 e ss.); inoltre, la ricostruzione della Suprema Corte comporta un'ulteriore incongruenza, trattando in modo diverso situazioni sovrapponibili, dato che la stessa situazione soggettiva - un diritto di credito verso un terzo - riceve trattamento differenziato a seconda della scelta processuale attuata per la tutela del proprio diritto, atteso che il creditore che sceglie il procedimento di ingiunzione viene esentato dall'onere di introdurre la mediazione - ove obbligatoria ex lege - mentre su colui che sceglie il processo ordinario di cognizione grava tale onere (Minelli G., op. loc. cit.); l'interpretazione proposta dai Giudici di legittimità, pertanto, appare di dubbia costituzionalità, contrastando con il principio di uguaglianza in senso sostanziale, di cui all'art. 3, comma 2, Cost. (Cascella G., La fase oppositiva ed i suoi esiti, in Il Decreto ingiuntivo, a cura di Natali A.I., Milano, 2017, 224).

In giurisprudenza, del resto, non poche decisioni dissentono dalla Suprema Corte, riscontrandosi sia posizioni di tipo intermedio, che rivendicano al giudice di merito il compito e l'autonomia di verificare, caso per caso, quale sia la parte da ritenersi effettivamente tenuta ad introdurre la mediazione, poiché in tal modo risulta possibile attribuire certezza a entrambe le parti sulle conseguenze del mancato avvio della mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, superando incertezza determinata dal richiamato orientamento della Suprema Corte, da un lato, e, dall'altro, una giurisprudenza di merito oscillante tra adesione all'insegnamento della Suprema Corte e un motivato dissenso (Trib. Pavia, 26 settembre 2016) sia pronunce che onerano a tanto il solo creditore opposto, statuendo improcedibilità della domanda monitoria in caso di inadempimento. Si afferma, innanzitutto, come l'onere di impulso del procedimento di mediazione va posto a carico dell'opposto, in quanto nell'opposizione a decreto ingiuntivo - come da costante giurisprudenza della Suprema Corte - egli è parte attrice in senso sostanziale, avendo proposto la domanda monitoria, di cui la fase di opposizione rappresenta mera eventuale prosecuzione (Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 16 febbraio 2016); su tale premessa, non si condivide la ricostruzione della Suprema Corte, sia rilevando che il procedimento di cognizione è l'unico mezzo di cui l'opponente dispone per difendersi, sia considerando che la legge onera ad introdurre la mediazione colui che intende esercitare in giudizio un'azione, e deve provare i relativi fatti costitutivi, e non, invece, quella parte che ha interesse ad introdurre un giudizio di merito solo per accertare fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto azionato in via monitoria dalla controparte, quindi un interesse solo generico (Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 16 febbraio 2016, cit.); ulteriore decisione afferma innanzitutto la dubbia compatibilità, con l'art. 24 Cost., della posizione della Suprema Corte, in quanto lega l'onere di proporre la mediazione alla scelta del debitore di opporsi ad un provvedimento emesso dopo un'istruttoria sommaria e senza contraddittorio, quasi che la mediazione fosse una singolare sanzione per la sua scelta di fare opposizione, contrasto che si ritiene sussistere a maggiore ragione considerando che, per la Suprema Corte, il giudizio di opposizione a d.i. comporta che il procedimento di ingiunzione sia un processo unitario, in cui l'opposto è, sostanzialmente, l'attore, e l'opponente il convenuto (Trib. Busto Arsizio, 3 febbraio 2016, n. 1199), per cui si perviene a riconoscere che, in materia di contratti bancari l'onere di introdurre la mediazione grava sull'opposto, sia in quanto egli è attore, sia in quanto l'azione cui fa riferimento il d.lgs. n. 28/2010 è la domanda monitoria e non anche l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso in esito alla prima (Trib. Busto Arsizio, 3 febbraio 2016, n. 1199, cit.); la scelta del procedimento incide in modo rilevante sull'individuazione del soggetto onerato ad introdurre la mediazione, essendosi affermato, in una controversia introdotta con il rito ordinario, che, nel contesto bancario l'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 prevede, più in particolare, che il potenziale attore debba, preliminarmente, esperire il procedimento di mediazione disciplinato da tale decreto oppure, in alternativa, il procedimento istituito in attuazione dell'art. 128-bis t.u.b. (Trib. Ravenna, 6 aprile 2017, n. 361).

Da altro punto di vista, va rilevato che la decisione del tribunale di considerare perentorio il termine per introdurre la mediazione non risulta pacifica in giurisprudenza: infatti, il termine di 15 giorni viene ritenuto ordinatorio, ma non si dubita della perentorietà del termine di 3 mesi entro il quale il procedimento di mediazione deve essere espletato, ritenendosi inoltre indispensabile che il relativo procedimento, anche se oltre il termine di 15 giorni, sia in ogni caso attivato, per fare in modo che esso si celebri e si ultimi prima dell'udienza fissata dal giudice per il prosieguo del giudizio, sanzionando l'opposizione con l'improcedibilità, se ciò non avviene (App. Milano, 7 giugno 2017, n. 2515); si rileva, in particolare, che ciò che può causare l'improcedibilità della domanda giudiziale non è il ritardo nella presentazione della domanda di mediazione, bensì il suo mancato svolgimento (Trib. Roma, 14 luglio 2016, n. 14185) ed, ancora, che il mancato esperimento del tentativo di mediazione (perché mai introdotto, né entro il termine inizialmente fissato dal giudice a tal fine, e nemmeno in seguito) comporta che non può dirsi avverata la condizione di procedibilità dell'azione giudiziale avente come oggetto l'opposizione a decreto ingiuntivo, con le relative conseguenze (App. Milano, 7 giugno 2017, n. 2515, cit.). Il tribunale oplontino, di contro, appare avere aderito a quell'orientamento della Suprema Corte secondo cui, pur in presenza dell'art. 152 c.p.c., per il quale tutti i termini che la legge stabilisce sono ordinatori, tranne quelli che espressamente dichiara perentori, detta previsione non può indurre a ritenere che l'assenza di tale esplicita dichiarazione senza altro escluda la perentorietà di un termine, poiché nulla impedisce di verificare se, indipendentemente da quanto la norma stabilisce, in ragione dello scopo perseguito e della funzione adempiuta, comunque di un determinato termine sia richiesta la sua rigorosa osservanza, per cui debba ritenersi perentorio (Cass. civ., sez. I, 6 giugno 1997, n. 5074, in Giust. Civ., Mass., 1997, 930). In ogni caso, si ritiene che il tribunale avrebbe potuto dichiarare l'improcedibilità anche sul mancato rispetto del provvedimento del giudice che onerava l'opponente ad introdurre la mediazione, emergendo dalla decisione che la mediazione non è mai stata introdotta, avendo l'opponente solo chiesto la rimessione in termini, il che appare, tuttavia, contrastante con il principio del giusto processo. Si è affermato, infatti, che il termine di giorni 15 non è perentorio, sia perché, in assenza di una espressa previsione legale in tal senso, lo si deve ritenere ordinatorio, in applicazione del principio ex art. 152, comma 2, c.p.c., sia per la ragione - di natura sostanziale - dell'assenza dei presupposti che consentano di ritenerlo tale in via interpretativa, sulla base dello scopo che il termine persegue e della funzione che esso adempie (Trib. Vasto, sez. lav., 27 settembre 2017) riconoscendosi comunque che colui che ritarda l'attivazione della procedura si assume il rischio della mancata conclusione del procedimento nel termine massimo di tre mesi, che decorre dalla scadenza del termine assegnato dal giudice, per cui è indispensabile verificare, caso per caso, se la ritardata presentazione della domanda ha causato effetti negativi sulla procedura di mediazione o sul processo (Trib. Vasto, sez. lav., 27 settembre 2017, cit.). Ancora, si è affermato che l'espletamento, ovvero il mancato espletamento, della mediazione, non può violare il principio del giusto processo, dovendosi evitare che la condizione di procedibilità, imposta dal legislatore per ragioni di efficienza del sistema, si trasformi in una causa di ritardo nella risposta giudiziale alla richiesta di tutela, in contrasto con l'art. 24 e con l'art. 111 Cost. (Trib. Lucca, 25 febbraio 2017, n. 441). Sulla rimessione in termini, per alcuni non sussisterebbe il diritto ad ottenerla ove la decadenza consegua alla condotta negligente del difensore, in quanto le relative conseguenze sono oggettivamente imputate alla parte assistita, in ragione del legittimo interesse della controparte a trarre vantaggio da detta decadenza (Caponi R., Rimessione in termini nel processo civile, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, Torino, 2010, 466 e ss.); unica eccezione per il caso in cui, nell'ambito della valutazione e bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti, risulti che l'opponente sia portatore di un interesse di rango superiore, come ad esempio nel caso di diritti personalissimi, per cui in simili eventualità si ritiene non imputabile alla parte la negligenza del suo avvocato (Caponi R., op. loc. cit.). Allora, non versandosi nel caso concreto - ovviamente sulla scorta di quanto è dato evincere dalla decisione - in una di quelle ipotesi in cui può derogarsi al principio per il quale le conseguenze della condotta negligente dell'avvocato ricadono sulla parte rappresentata, correttamente il giudice oplontino ha ravvisato un'ipotesi di imputabile decadenza (e quindi negligenza) - pur se autorevole dottrina considera la degenza provocata da malattia, astrattamente configurabile quale causa non imputabile (Consolo C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino, 2010, II, 281 e ss.) - avendo in concreto riscontrato che l'impedimento per il difensore dell'opponente era terminato in tempo utile alla tempestiva presentazione, escludendo quindi la sussistenza dei presupposti per la rimessione in termini.

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