Utilizzabilità delle sommarie informazioni rese, anche in altro procedimento, dal testimone sottoposto a minacce e intimidazioni

Irma Conti
19 Marzo 2018

La sentenza in esame appare meritevole di approfondimento in quanto, da un lato, anche ricorrendo ad esempi pratici, specifica in quali casi possano ritenersi sussistenti i “concreti” elementi in forza dei quali il giudice di merito può ritenere che sussista una condotta intimidatrice nei confronti di un testimone, dall'altro ...
Massima

Nel caso in cui emergano concreti elementi che dimostrino che un testimone sia stato sottoposto a minacce o ad intimidazioni, risultano pienamente utilizzabili, ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p., anche le sommarie informazioni testimoniali rese dal teste alla P.G. in altro procedimento che il giudice procedente potrà liberamente apprezzare.

Il caso

La sentenza in commento riguarda il ricorso, presentato dall'imputato D I. A., condannato in primo e in secondo grado per il reato di estorsione e per plurime fattispecie di usura commesse in Imperia, Sanremo e località limitrofe tra il dicembre 2012 e il marzo 2013, con contestazione di recidiva reiterata e infraquinquennale.

Dall'esame della sentenza, è emerso che la prova della responsabilità dell'odierno ricorrente sarebbe stata raggiunta anche attraverso l'utilizzo, ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p., di verbali di sommarie informazioni rese da testimoni sentiti nel contesto di altro procedimento penale.

Secondo i giudici di merito, infatti, i profili di contrasto riscontrabili tra le dichiarazioni dei testimoni dovevano essere ascritti alle minacce, per di più reiterate (e spedite con tre diverse lettere raccomandate), lanciate dallo stesso imputato, idonee a incutere timore e far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti e che avevano determinato anche una momentanea ritrattazione da parte degli stessi e che doveva essere considerata del tutto irrilevante, ai fini della acquisizione ai sensi dell'art. 500 c.p.p., la circostanza che le dichiarazioni fossero state comunque confermate da gran parte delle parti offese in sede dibattimentale.

Unitamente alla sentenza emessa dalla Corte di appello di Genova, è stato proposto ricorso nell'interesse dell'imputato, anche avverso l'ordinanza, ex art. 500, comma 4, c.p.p., di acquisizione delle dichiarazioni rese dai summenzionati testimoni. Nel ricorso si è, infatti, sostenuta l'illegittimità della suddetta ordinanza, in quanto in quanto il tribunale non avrebbe verificato l'effettiva conoscenza da parte di tutte le persone offese delle missive contenenti minacce anche in ragione del fatto che le minacce medesime dovevano ritenersi inefficaci. Afferma la presenza di una motivazione aggirante e quindi apparente sul punto, tanto più ove si consideri che i testi hanno concretamente reso dichiarazioni dibattimentali dimostrando così di non essere stati intimiditi.

La questione

Nel contesto dei motivi tendenti ad affermare l'insussistenza della penale responsabilità del ricorrente, soprattutto sotto un profilo probatorio, particolare interesse merita quello relativo all'ordinanza ammissiva, ai sensi del comma 4 dell'art. 500 c.p.p., delle dichiarazioni predibattimentali rese, nel contesto di un altro procedimento, da alcuni testimoni che sono stati regolarmente escussi nella fase dibattimentale ma che sarebbero stati oggetto di minacce e/o intimidazioni da parte dell'odierno imputato.

Secondo i difensori dell'imputato, infatti, non esisterebbe la prova di una effettiva conoscenza delle presunte minacce da parte dei testimoni e quindi non sarebbe dimostrata l'incidenza che le stesse avrebbero avuto sul narrato dei testi in fase dibattimentale.

La Corte, pertanto, ha dovuto, da un lato, occuparsi della questione relativa alla sussistenza delle minacce e alle modalità attraverso cui il giudice di merito è tenuto ad appurarne l'esistenza e, dall'altro ai limiti entro i quali può essere esercita l'ammissione di verbali predibattimentali e se l'utilizzabilità ex art. 500, comma 4, c.p.p. possa essere estesa anche alle dichiarazioni rese in altro procedimento penale.

Le soluzioni giuridiche

Nell'affrontare le summenzionate questioni giuridiche, la Corte si è inserita nel solco di un ormai unanime orientamento di legittimità in tema di utilizzabilità delle dichiarazioni ex art. 500, comma 4, c.p.p., compiendo, però, alcune rilevanti specificazioni in ordine ai limiti (molto ampi) dei possibili atti che possono essere acquisiti in presenza delle circostanze previste dal più volte citato articolo.

La Corte di legittimità, pertanto, è partita dall'esame degli elementi attraverso i quali è possibile desumere la sussistenza di minacce ed intimidazioni ai danni di uno o più testimoni.

Preliminarmente, la Corte ha evidenziato ribadendo il principio di diritto sostenuto da costante orientamento di legittimità secondo cui «ai fini dell'utilizzo, ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p., delle dichiarazioni predibattimentali del testimone, gli elementi concreti sulla base dei quali può ritenersi che egli sia stato sottoposto a violenza o minaccia, affinché non deponga ovvero deponga il falso, non possono coincidere con gli elementi di prova necessari per una pronuncia di condanna e consistono in elementi sintomatici dell' intimidazione subita dal teste, purché connotati da precisione, obiettività e significatività e valutati secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività» (Cass. pen., Sez. II, 5 maggio 2016, n. 22440; Cass. pen., Sez. I, 10 ottobre 2016, n. 9646).

Fatta questa premessa, sempre nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità, la Corte ha analizzato quelli che sono i “concreti elementi” sintomatici dell'esistenza di un'attività di intimidazione ai danni di uno o più testimoni e che, ovviamente, giustificano la deroga alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti e consentono l'utilizzazione di dichiarazioni predibattimentali.

Si tratta quindi di comprendere quando sia possibile ritenere persuasiva una minaccia e/o un allusione minacciosa e quando determinate condotte possano essere ritenute concretamente minacciose.

A tal proposito, nella sentenza in commento, si precisa «qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi, ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando la circostanza che il teste abbia poi reso deposizione».

Pertanto, il tipo di analisi che dovrà essere svolto dal giudice di merito ha a che fare non solo con il concetto di “male ingiusto” sotto un profilo oggettivo ma con la percezione che il singolo teste può avere di tale prospettazione (anche in considerazione del contesto nel quale si pone).

La Corte, pertanto, al fine di esplicitare, concretamente, i casi dai quali può essere desunta la sussistenza di tali elementi concreti che devono essere valutati, caso per caso, sotto un profilo non unicamente soggettivo, ha operato una rapida rassegna di casi giurisprudenziali evidenziando come gli stessi possano essere desunti:

  • sulla base di circostanze emerse nello stesso dibattimento come, ad esempio, l'atteggiamento tenuto da più testimoni che nel corso del dibattimento, in assenza di giustificazioni plausibili, avevano reso dichiarazioni completamente diverse da quelle esposte nel corso delle indagini (Cass. pen., Sez. fer., 12 settembre 2013, n. 44315) «qualora la prudente valutazione del giudice gli consenta di cogliere dall'atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale i segni della subita intimidazione» (Cass. pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 49031);
  • prendendo in considerazione circostanze sintomatiche dell'intimidazione emerse soltanto al di fuori del dibattimento (Cass. pen., Sez. III, 19 ottobre 2014, n. 10486).

A questo punto, dopo aver delineato gli elementi che il giudice di merito dovrà individuare al fine di verificare la sussistenza di condotte intimidatrici ai danni dei testimoni, la Corte ha, altresì, precisato che i confini dell'ammissibilità degli atti utilizzabili ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p. sono decisamente molto ampi.

Secondo la Corte, infatti, ove siano riscontrati i «“concreti elementi” delineati dalla giurisprudenza di legittimità, risultano pienamente utilizzabili a tale limitato fine anche atti di indagine relativi alla subornazione stessa e segnatamente esiti di intercettazioni e relazioni di servizio della P.G. (Cass. pen., Sez. II, 22 ottobre 2013, n. 50323) ovvero – come nel caso di specie – sommarie informazioni testimoniali rese alla P.G. dai testi in altro procedimento che il giudice procedente potrà liberamente apprezzare»

Osservazioni

La sentenza in esame appare meritevole di approfondimento in quanto, da un lato, anche ricorrendo ad esempi pratici, specifica in quali casi possano ritenersi sussistenti i “concreti” elementi in forza dei quali il giudice di merito può ritenere che sussista una condotta intimidatrice nei confronti di un testimone, dall'altro precisa che anche i verbali di sommarie informazioni rese dal teste in un altro procedimento possono essere acquisiti ed utilizzati ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p.

Dalla rassegna giurisprudenziale esaminata dalla Corte si desume che il giudice possa raggiungere la prova di tale circostanza attraverso elementi di svariata natura: potranno essere considerati sia fatti e circostanze accadute durante il dibattimento (l'atteggiamento di un teste, la sua reticenza, etc.), sia completamente estranei allo stesso.

La Corte, però, nel delineare un quadro molto ampio di elementi da prendere in considerazione, specifica, contestualmente, che tali fatti e circostanze non possono coincidere con gli elementi di prova necessari per una pronuncia di condanna.

Prendendo in considerazione il caso trattato dalla Corte, i giudici di merito avevano correttamente desunto tali concreti elementi sulla base del contenuto delle lettere inviate dal carcere dall'imputato e di quelle sequestrate al coindagato per subornazione e sulla base della condotta processuale tenuta dai testimoni.

Sulla scorta di tali elementi, il tribunale ha, correttamente, ritenuto di dover acquisire le sommarie informazioni rese dai predetti testimoni nel contesto di un altro procedimento.

Tale scelta appare coerente con il sistema delle contestazioni previsto dall'art. 500 c.p.p. E ciò in quanto, pur rappresentando una deroga alla regola della formazione della prova nel corso del dibattimento, è pur vero che il caso previsto dal comma 4 rappresenta una evidente “anomalia” e che l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali avverrà solo in presenza di “elementi concreti” che rendono assolutamente necessaria tale deroga.

In tal senso, allo stesso modo, appare assolutamente coerente con quanto statuito dal comma 4 della summenzionata norma anche l'acquisizione di verbali provenienti da altri procedimenti, in quanto l'utilizzabilità di tali dichiarazioni è sempre diretta conseguenza di gravi condotte che dovranno essere sottoposte allo scrupoloso vaglio del giudice di merito.

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