Ne bis in idem negli illeciti tributari. In una pronuncia di inammissibilità una prima apertura (mal celata) del giudice delle leggi

Ciro Santoriello
22 Marzo 2018

Va disposta la restituzione al giudice a quo degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale sollevata, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione ...
Massima

Va disposta la restituzione al giudice a quo degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale sollevata, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 4 del protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, con riferimento all'art. 649 c.p.p. nella parte in cui tale disposizione non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei relativi protocolli, onde il giudice remittente possa valutare se dopo la nuova giurisprudenza sovranazionale, conseguente alla decisione, la questione mantenga la sua rilevanza.

Il caso

Come è noto, l'art. 4 protocollo n. 7 integrativo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».

Questa disposizione, per lungo tempo trascurata nelle aule giudiziarie del nostro Paese, ha ricevuto una significativa attenzione in ragione di alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell'Uomo, le quali hanno ampliato la sfera di applicazione di questo principio e posto fortemente “a rischio” l'operatività di un gran numero di fattispecie incriminatrici, specie in ambito penal-tributario, presenti nel nostro ordinamento.

Ovviamente, il principio del ne bis in idem – disciplinato dal citato art. 4 protocollo n. 7 – non è certo sconosciuto dall'ordinamento italiano essendo regolamentato dall'art. 649 c.p.p., il quale tuttavia è da sempre interpretato in maniera restrittiva dalla giurisprudenza, secondo cui si può parlare di violazione di tale disposto a) se il medesimo fatto è perseguito due volte in ambito penale – e non in sede penale ed amministrativa; b) se fra i fatti per cui si procede vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. pen., Sez. III, 20 luglio 2015 n. 31378; Cass. pen.,Sez. II, 22 giugno 2015, n. 26235; Cass. pen.,Sez. VI, 23 luglio 2014, n. 32715).

Diversa la posizione della Corte europea dei Diritti dell'uomo, secondo cui l'articolo 4 del protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest'ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi (Corte Edu, Grande Camera, Sergueï Zolotoukhine c. Russia, n. 14939/03) – circostanza che ricorre anche quando non vi è una assoluta identità del fatto perseguito dall'ordinamento in sedi diverse, essendo sufficiente che i fatti ascritti al soggetto siano riconducibili alla stessa condotta. Inoltre, la Corte europea, pur riconoscendo che il principio del ne bis in idem si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l'ipotesi dell'applicazione congiunta di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa tributaria, da tempo utilizza una nozione sostanziale di materia penale e, dunque, di reato e di pena, escludendo rilievo alla circostanza che l'illecito o la misura sanzionatoria siano o meno considerati come reato o come pena nel singolo ordinamento nazionale: lo scopo della nozione sostanziale di materia penale accolta dalla Corte europea è, infatti, assicurare la massima estensione delle garanzie convenzionali annullando gli effetti di un'eventuale “frode delle etichette” (Corte dei Diritti dell'Uomo n. 307 del 9 febbraio 1995 Welch v. Regno Unito nonché 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia).

Da tale impostazione della giurisprudenza europea è stata “interessata” anche l'Italia, con la c.d. sentenza Grande Stevens (Corte europea dei diritti dell'uomo,n. 18640/10 del 4 marzo 2014) a seguito della quale si è sviluppato in significativo dibattito tanto in dottrina che in giurisprudenza, specie con riferimento ai rapporti fra l'illecito amministrativo di cui all'art. 13, comma 1, d.lgs. 471 del 1997 e gli illeciti penali di cui agli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. 74 del 2000.

Si ricorda che sul tema, la Cassazione assume da sempre un atteggiamento di chiusura negando – con particolare riferimento ai rapporti fra i delitti di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto con l'illecito amministrativo di cui all'art. 13, comma 1, d.lgs. 471 del 1997 – la sussistenza di una possibile violazione del ne bis in idem, affermando sostanzialmente che si tratta di fatto non identici e non sovrapponibili (Cass. pen., Sez. unite, 28 marzo 2013, n. 37425 Favellato e Cass. pen., Sez. unite, 28 marzo 2013, n.37424, Romano; Cass. pen., Sez. III, 22 giugno 2015, n. 25815; Cass. pen., Sez. III, 15 maggio 2014, n. 20266). Inoltre, in diversi pronunce la Suprema Corte ha sostenuto che di un ne bis in idem con riferimento all'applicazione di sanzioni amministrative tributarie e penali per l'omesso versamento degli acconti Iva e delle ritenute non può parlarsi in ragione del fatto che diversi sono i destinatari delle stesse: infatti, assai di frequente, la violazione tributaria è contestata ad una società, mentre, ovviamente, il relativo illecito penale è attribuito al soggetto persona fisica che gestisce le predette imprese ed evidentemente tale circostanza impedisce di affermare che un medesimo soggetto giuridico sia destinatario di una duplicità di sanzioni per il medesimo fatto.

A prescindere da tali decisioni, tuttavia, la problematica del ne bis in idem, con riferimento al concorso di sanzioni penali e tributarie aventi ad oggetto la medesima vicenda, torna con frequenza all'esame della giurisprudenza, la quale, in assenza - e non potendosene certo ipotizzare una pronta risposta - di un intervento del legislatore ha cercato in più occasioni di individuare alcune possibili soluzioni onde evitare nuove condanne del nostro Paese in sede sovranazionale per violazione dell'art. 4 prot. 7 Cedu. In alcuni casi, i giudici di merito hanno denunciato la violazione del ne bis in idem avanti alla Corte di Giustizia Ue (Trib. Torino, Sez. IV, 27 ottobre 2014; Trib. Bergamo, 16 settembre 2015), con esiti non soddisfacenti posto che i giudici del Lussemburgo hanno escluso ogni loro competenza sul punto; in altre pronunce (Trib. Asti, 5 maggio 2015, n. 717; Trib. Terni, 12 giugno 2015) si è affermato che la violazione del principio di ne bis in idem potrebbe essere riscontrata dallo stesso giudice di merito che dovrebbe quindi adottare una decisione di non luogo a procedere nei confronti dell'imputato che risulti per il medesimo fatto già stato sanzionato – con una pena pecuniaria assolutamente significativa, tanto da assumere natura penale – in sede amministrativa; infine – con soluzione presumibilmente più coerente con il sistema nazionale – si è scelto di adire sulla questione la Corte costituzionale onde verificare se una pronuncia della stessa potesse determinare una soddisfacente soluzione del problema (cfr. Corte cost., sentenza n. 102 dell'8 marzo 2016, con riferimento all'art. 187-bis comma 1, Testo unico della finanza nella parte in cui la disposizione impugnata prevede salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato anziché salvo che il fatto sia previsto come reato e all'art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede «l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale»; entrambe le questioni sono state dichiarate inammissibili).

La questione

A sollecitare un ulteriore intervento della Corte costituzionale è stato il tribunale di Monza che ha denunciato, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 4 del protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), l'art. 649 c.p.p. «nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei relativi protocolli».

Nel caso di specie, il giudizio a quo aveva ad oggetto una contestazione di omessa dichiarazione di cui all'art. 5, comma 1, d.lgs. 74 del 2000, per non avere presentato la dichiarazione relativa all'imposta sul reddito delle persone fisiche e all'imposta sul valore aggiunto, al fine di evadere tali imposte per un importo superiore alla soglia di punibilità. Come è noto, la medesima omissione costituisce illecito tributario ed è sanzionata in via amministrativa, ai sensi degli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 ed a tale titolo l'imputato era già stato destinatario di una sanzione amministrativa, irrogata in via definitiva, pari al 120 per cento di entrambe le imposte evase. Secondo il giudice a quo la sanzione amministrativa tributaria inflitta in via definitiva all'imputato aveva natura penale, ai sensi dell'art. 7 della Cedu, e non poteva certo dubitarsi, sulla base della concezione di idem factum accolta dalla consolidata giurisprudenza europea, che il fatto contestato in sede penale ed in sede amministrativa fosse il medesimo.

In presenza di tale situazione, l'ordinamento italiano non presenta alcuna soluzione che impedisca la duplicazione di sanzioni. In particolare, gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. 74 del 2000 prevengono, «sul piano sostanziale, la duplicazione delle sanzioni», ma non impediscono l'avvio del procedimento penale pur dopo che la sanzione tributaria amministrativa è divenuta definitiva: infatti, l'art. 19 del d.lgs. 74 del 2000 stabilisce che quando il medesimo fatto è punito in quanto reato e allo stesso tempo in quanto illecito amministrativo, deve essere applicata la sola disposizione speciale, ovvero quella penale, ma ciò, in base all'art. 21 del d.lgs. 74 del 2000, non impedisce che il procedimento amministrativo finalizzato all'applicazione della sanzione e il processo tributario siano avviati e se del caso conclusi, posto che la legge esclude che essi siano sospesi a causa della pendenza del procedimento penale (cosiddetto sistema del doppio binario) e la sanzione amministrativa è applicata in ogni caso, ma non può essere eseguita, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione, o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con una formula che esclude la rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, del d.lgs. 74 del 2000).

In sostanza, in base al d.lgs. 74 del 2000 è scongiurato il rischio di duplicazione delle sanzioni al medesimo soggetto per l'identico fatto, ma si postula, sul piano processuale, che il giudizio penale debba essere celebrato nonostante la definitività della sanzione amministrativa già inflitta, benché sospesa nell'esecuzione: la sanzione tributaria viene disposta e acquisisce natura definitiva ma, in virtù del principio di specialità, può essere messa in esecuzione solo se per il medesimo fatto non è stata inflitta una pena ed a questo fine è necessario avviare il procedimento penale, quand'anche, come è accaduto nel giudizio a quo, esso sia posteriore alla definizione del procedimento e del contenzioso tributario.

Questa situazione è reputata dal rimettente in contrasto con il divieto di bis in idem enunciato dall'art. 4 del protocollo n. 7 alla Cedu, giacché la normativa vigente presuppone una fisiologica duplicazione dell'attività sanzionatoria, che dà vita ad un fenomeno di bis in idem processuale: è consentito procedere nuovamente per il medesimo fatto già oggetto di un procedimento di altra natura anche se quest'ultimo è già stato definito. Come detto non vi sarebbe modo di far valere una simile regola nell'ordinamento, perché l'art. 649 c.p.p., enunciando il divieto di un secondo giudizio penale per il medesimo fatto, opera solo se l'imputato è stato già giudicato con «sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili», ovvero presuppone la formazione di un giudicato penale; da qui, la censura di costituzionalità sollevata innanzi alla Consulta.

Le soluzioni giuridiche

La questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale, ma – diversamente dai precedenti che si sono sopra citati – la decisione in esame evidenzia una maggiore attenzione della Consulta alla tematica in parola.

Il giudice delle leggi conferma che, in un'ottica attenta solo alla normativa nazionale, ordinaria e costituzionale, il Legislatore può legittimamente scegliere di punire un fatto, sia con la sanzione penale, sia con la sanzione tributaria (sempre che le risposte sanzionatorie nel complesso palesemente sproporzionate), demandando l'applicazione di tali sanzioni a due diverse autorità – quella giurisdizionale e quella amministrativa – e in tal caso l'eventualità che il processo penale origini dopo che l'esito del procedimento sanzionatorio amministrativo, vertente sul medesimo fatto, è divenuto definitivo, o viceversa, non comporta alcuna violazione del divieto di bis in idem processuale ricavabile dalla Costituzione, ma riflette piuttosto l'ampia sfera di reciproca autonomia tra sanzioni amministrative e penali in senso proprio che è tipica dell'ordinamento giuridico nazionale (affermazioni già presenti nelle sentenze n. 109 e n. 43 del 2017, n. 49 del 2015).

Al contempo, però, la Corte costituzionale riconosce che tali affermazioni devono mutare di segno laddove le sanzioni di natura amministrativa rivestano carattere penale ai sensi dell'art. 7 della Cedu, sulla base dei criteri di qualificazione enunciati dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi), posto che, una volta riconosciuta la natura penale, in base all'art. 7 della Cedu, di una sanzione amministrativa, deve ritenersi operante il divieto di bis in idem, con la conseguenza che la definitività dell'esito del procedimento amministrativo deve precludere l'avvio del processo penale, e viceversa. Con questa affermazione, la Corte costituzionale finalmente riconosce che il ne bis in idem cd. convenzionale ha natura processuale e ha carattere tendenzialmente inderogabile, nel senso che la sua efficacia non può essere mediata da apprezzamenti discrezionali del giudice in ordine alle concrete modalità di svolgimento dei procedimenti sanzionatori ma si riconnette esclusivamente alla constatazione che un fatto, colto nella sua componente naturalistica (cosiddetto idem factum), è già stato giudicato in via definitiva, con ciò impedendo l'avvio di un nuovo procedimento. In particolare, diversamente da quanto affermato in alcune occasioni dalla Corte di Giustizia Ue (26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson) – secondo la quale, a fronte di un obbligo a carico dello Stato membro di repressione di certe condotte, l'efficacia del divieto di bis in idem basato sull'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea è subordinata ad una verifica sul carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo delle sanzioni applicate, per cui qualora la risposta sanzionatoria è da ritenersi inadeguata il giudice potrebbe procedere ad un secondo giudizio anche se il primo è già esaurito – nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, il divieto di bis in idem esclude ogni valutazione di tale natura, operando su una sfera esclusivamente processuale, e perciò per la violazione di tale divieto è indifferente l'eventuale eccessiva gravosità della sanzione complessivamente erogata al singolo contribuente infedele.

In questo modo, in sostanza, la Consulta perviene – superando o comunque integrando la sua precedente giurisprudenza – ad una definizione compiuta della problematica del ne bis in idem, sostenendo a) che la nozione in parola ha natura processuale, il che significa che b) il rispetto del divieto di bis in idem impedisce che un soggetto sia processato due volte, in due sedi diverse, per il medesimo fatto e ciò c) a prescindere che i due diversi processi si concludano con due sanzioni ovvero che uno dei due procedimenti si concluda senza applicazione di sanzione ovvero essendo irrilevante che la sanzione complessivamente irrogata – ovvero la pena risultante dalla “somma” delle sanzioni applicate nei due diversi processi – sia ragionevole o di contro eccessivamente gravosa per l‘interessato.

Questa conclusione, secondo il giudice delle leggi, incontra una sola limitazione, conseguente a una innovativa giurisprudenza della stessa Corte europea dei diritti dell'uomo. Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la Grande Camera della Corte di Strasburgo infatti ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente strettosufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza.

In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato che a) legame temporale e materiale sono requisiti congiunti, che b) il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell'accertamento, che c) il legame materiale fra i due procedimenti dipende:

  1. dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta;
  2. dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti;
  3. dal grado di coordinamento probatorio tra di essi,; e soprattutto
  4. dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l'imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito.

Al contempo, sempre secondo la Corte Edu si dovrà valutare anche se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si dovrà valutare con maggiore severità la sussistenza del legame fra i procedimenti e più riluttanti a riconoscerne la ricorrenza in concreto.

Sulla scorta delle innovazioni introdotte con la sentenza A e B contro Norvegia e sopra menzionate, secondo la Consulta la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Monza deve essere ripensata dallo stesso giudice a quo e ciò in quanto il ne bis in idem cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d'atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una close connection è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell'altro. Inoltre neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all'entità della sanzione complessivamente irrogata: se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all'applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante.

Secondo la Consulta, dunque, la sentenza A e B contro Norvegia ha innovato profondamente il divieto di bis in idem rispetto al quadro esistente al tempo dell'ordinanza di rimessione, essendosi passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l'uno dall'altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all'entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata. Tale mutamento della giurisprudenza sovranazionale, che determina una modifica del significato dell'art. 4 protocollo n. 7 integrativo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sopravvenuto all'ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, impone secondo la nostra Corte costituzionale la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale: se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell'ordinamento, incidendo sull'art. 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.

Osservazioni

Nonostante la decisione della Corte costituzionale in commento presenti un dispositivo analogo a quello presente nelle altre decisioni che lo hanno preceduto – essendo in tutti i casi in cui è stata portata all'esame della Consulta la tematica del bis in idem stata pronunciata dichiarazione di inammissibilità della questione – ci pare indiscusso che la sentenza in esame presenti contenuti affatto particolari e in essa possano rinvenirsi profili di novità e apertura significativi rispetto ai precedenti della giurisprudenza costituzionale.

Accanto ad alcune affermazioni che ribadiscono acquisizioni già consolidate nella giurisprudenza costituzionale – come quelle inerenti il concetto di materia penale da ricostruirsi secondo i cosiddetti criteri di Engel o la ricostruzione della nozione di medesimo fatto che ormai la Consulta opera secondo i dettami della Corte europea – nella decisione in parola, come detto, finalmente la Corte costituzionale riconosce che la nozione di bis in idem accolta in ambito sovranazionale è assolutamente diversa dalla definizione che della medesima figura è accolta dal nostro ordinamento, il quale parla di violazione del relativo divieto solo quando il medesimo soggetto è punito (e non semplicemente processato) due volte per il medesimo fatto. Accolta tale nozione, dunque, è innegabile che il contenuto dell'art. 649 c.p.p. è inadeguato rispetto alle esigenze di tutela dell'accusato che l'art. 4 protocollo 7 citato della Carta europea vuole garantire.

In secondo luogo, ed è il profilo più importante, la Consulta pare riconoscere che a tale situazione di impossibilità di far ricorso all'art. 649 c.p.p. per prevenire situazioni di ne bis in idem occorre porre rimedio. In realtà, che la citata disposizione del codice di procedura penale necessitasse di una riforma la Corte costituzionale lo aveva già asserito in precedenti occasioni, specie nelle decisioni in tema di market abuse (sentenza n. 102 dell'8 marzo 2016), ma – come detto – sempre dichiarata la questione inammissibile escludendo ogni sua possibilità di intervento e attribuendo la responsabilità della necessaria riforma al solo legislatore. Con la decisione odierna, invece, la Corte dichiara sì la questione inammissibile, ma non per ragioni connesse all'impossibilità di un suo intervento bensì in ragione della svolta giurisprudenziale introdotta con la sentenza A e B contro Norvegia, la rilevanza della quale nel procedimento a quo va valutata dallo stesso giudice remittente: motivare la dichiarazione di inammissibilità con tali argomentazioni, tuttavia, significa che la Corte costituzionale giudica il disposto dell'art. 649 c.p.p. inadeguato rispetto al contenuto dell'art. 4 prot. 7 – ed infatti nella parte finale della decisione si legge che «la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende meno probabile l'applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell'ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell'ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l'adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali» –, il che pare preparare la strada (se il Legislatore non provvederà egli stesso a «stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni» che il sistema del cosiddetto doppio binario «genera tra l'ordinamento nazionale e la Cedu») a una dirompente intervento demolitivo della Consulta che riscriverà i rapporti fra procedimenti penali ed amministrativi aventi ad oggetto i medesimi fatti.

Va detto tuttavia che una tale conclusione pare meno (se non probabile) urgente dato che, pochi giorni dopo la decisione in commento, sono intervenute ben tre decisioni della Grande Sezione della Corte di Giustizia in tema di compatibilità con il diritto dell'Unione – con riferimento alla previsione di cui all'art. 50 della Carta dei diritti dell'Unione europea – del sistema italiano del doppio binario penale/amministrativo, profilo riguardato con riferimento al doppio binario sanzionatorio in materia di reati tributario (causa Menci, C-524/15), in tema di abusi di mercato (causa Garlsson Real Estate e a., C-537/16) e infine in materia di insider trading (cause Di Puma, C-596/16, e Zecca, C-597/16).

Tali decisioni sicuramente hanno introdotto alcuni punti fermi nel discorso sul divieto di bis in idem, soprattutto in materia di manipolazioni di mercato, che potranno utilmente indirizzare il giudice italiano nella sua, non semplice, opera di interpretazione. In primo luogo, viene ribadito che il concetto di idem factum va riferito al fatto storico in sé considerato e non alla sua qualificazione giuridica così come si afferma che una sanzione va qualificata come penale, nonostante sia diversa la sua qualificazione formale, quando la stessa presenti caratteri di afflittività. Ciò posto, secondo la Corte di Giustizia, il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico non costituisce tout court una violazione del bis in idem europeo, potendo rappresentare una semplice limitazione di tale diritto, purché a) le sanzioni siano finalizzate – nel rispetto del principio di proporzionalità – a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare il cumulo (fermo restando che i procedimenti e le sanzioni devono avere scopi complementari); b) siano previste da regole chiare e precise, tali da rendere prevedibile il ricorso ad un sistema di doppio binario sanzionatorio; c) garantiscano un coordinamento fra i due procedimenti relativi all'idem factum, in modo da limitare il più possibile gli oneri supplementari che il ricorso a tale sistema genera; infine d) siano rispettose del principio di proporzione della pena, limitando a quanto strettamente necessario il complesso delle sanzioni irrogate.

Ovviamente, la verifica circa il rispetto di tali requisiti spetta al giudice nazionale, per il tramite di un'analisi e un esame delle caratteristiche concrete della vicenda sottoposta al suo esame. Volendo dare esemplificazione di quali siano i compiti del giudice nazionale, ad esempio, la Corte di Lussemburgo esclude la possibilità di censurare il doppio binario previsto dal legislatore italiano in materia tributaria, in quanto l'applicazione di una duplice sanzione sembra limitata ai procedimenti penali inerenti reati di una certa gravità e il complessivo trattamento punitivo risultante dall'applicazione della sanzione penale e di quella amministrativa pare rispettoso dei canoni del minimo sacrificio necessario, mentre di contro la medesima soluzione sanzionatoria assunta con riferimento alle condotte di manipolazioni di mercato viene ritenuta confliggente con il divieto di bis in idem, essendo eccessivo il sacrificio dell'imputato, tanto dal punto di vista degli oneri cui il doppio procedimento lo espone , quanto da quello della proporzione della sanzione (in particolar modo, i giudici affermano che la prosecuzione del procedimento formalmente amministrativo ma sostanzialmente penale di cui all'art. 187-ter Tuf eccede quanto strettamente necessario per conseguire l'obiettivo che la normativa in materia di manipolazione di mercato si prefigge, essendo la sanzione prevista dall'art. 185 Tuf – salvo verifica del giudice nazionale – sufficientemente severa da reprimere il comportamento in questione in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva).

È evidente che nell'ottica proposta dalla Corte di Lussemburgo gli spazi per una valutazione circa la violazione del divieto di ne bis in idem sono decisamente maggiori. Rispetto a un riconoscimento di un automatico divieto del secondo giudizio, teso a infliggere una sanzione di natura sostanzialmente penale in relazione a un medesimo fatto storico, quando il primo giudizio sia giunto a una pronuncia definitiva di condanna o assoluzione, i giudici della Corte di Giustizia hanno preferito rimettere al singolo giudice nazionale l'individuazione dell'eventuale violazione del predetto principio, sulla base degli indici riassunti nei punti di cui alle lett. a)-d) sopra indicate.

Guida allì'approfondimento

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FLICK- NAPOLEONI, Ad un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, in Riv. Soc., 2015, 8678;

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PERINI, La riforma dei reati tributari, in Dir. Pen. Proc., 2016, 14;

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TRAVERSI, Interpretazione rigorosa delle Sezioni Unite sull'omesso versamento dell'IVA e delle ritenute, in Corr. Trib., 2013, 3487.

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