Trasferimento fraudolento di valori. La Cassazione definisce caratteristiche e presupposti applicativi

Cristina Ingrao
23 Marzo 2018

Con la sentenza del 26 luglio 2017, n. 43144, depositata il successivo 21 settembre, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla norma che punisce il trasferimento fraudolento di valori, di cui all'art. 12-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 ...
Abstract

Con la sentenza del 26 luglio 2017, depositata il successivo 21 settembre, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla norma che punisce il trasferimento fraudolento di valori, di cui all'art. 12-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, recante Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, conv. in l. 356/1992, sulle sue caratteristiche e sui suoi presupposti applicativi.

Il reato di trasferimento fraudolento di valori e le sue modalità di contestazione

Con ordinanza del maggio 2017 il tribunale della libertà di Roma, in parziale accoglimento dell'istanza di riesame avanzata nell'interesse degli imputati, sostituiva la misura cautelare della custodia cautelare applicata a G.M. con gli arresti domiciliari e confermava la stessa misura nei confronti dei fratelli L.M. e F.M., figli del predetto.

Tali soggetti risultavano tutti indagati di una pluralità di ipotesi delittuose riconducibili all'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 e ad alcune ipotesi di riciclaggio e autoriciclaggio.

Secondo l'impostazione dell'ordinanza gravata dall'istanza di riesame, G.M., soggetto già giudicato per vari fatti delittuosi e sottoposto ad altri procedimenti, aveva fittiziamente intestato ai figli varie attività commerciali nell'ambito della ristorazione e del commercio di prodotti ittici, i cui profitti erano poi confluiti in conti correnti, acquisti immobiliari o nella costituzione di nuove società operanti in vari settori. Il tribunale di Roma, quale giudice del riesame, affermava la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza circa il contenuto fittizio ed elusivo delle operazioni che vedevano G.M. operare quale dominus delle attività intestate ai figli, oltre che ad un terzo soggetto, e la sussistenza anche della gravità indiziaria in ordine ai delitti di riciclaggio e autoriciclaggio, poi contestati con riguardo agli investimenti in altre operazioni dei profitti delle attività oggetto di intestazione fittizia.

Avverso detta ordinanza proponevano ricorso per cassazione gli indagati G.M. e L.M. deducendo una pluralità di motivi, fra i quali vi rientrano, per ciò che a noi interessa, l'erronea applicazione della legge penale e il difetto di motivazione, con riferimento alla sussistenza degli elementi costitutivi la fattispecie di cui all'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 citata, nelle condotte poste in essere e ricostruite in sede di indagini.

Con riguardo all'elemento oggettivo, il vizio del provvedimento impugnato veniva ravvisato nell'assenza di adeguati riferimenti alla pericolosità sociale del M.G., in quanto potenziale destinatario di misure di prevenzione patrimoniale, che avrebbe condotto alla scelta dell'intestazione fittizia. In particolare, sul punto si deduceva che nessun fatto sintomatico della pericolosità sociale veniva descritto o richiamato, mentre avrebbe dovuto tenersi conto, piuttosto, dell'esito assolutorio delle principali pendenze che riguardavano l'imputato predetto.

Per quanto attiene all'elemento soggettivo, invece, si affermava come requisito necessario per la configurabilità del fatto-reato fosse l'intento elusivo della fittizia intestazione, trattandosi di fattispecie penale a dolo specifico, divenendo essenziale accertare l'esclusivo scopo di sottrarre determinati beni al procedimento di prevenzione. Ed invece, su tale tema, il giudice del riesame aveva operato un automatismo illegittimo, ricavando la sussistenza della finalità elusiva dal fondato timore di essere sottoposto a misura di prevenzione, senza valorizzare la circostanza che, in epoca antecedente a tutte le operazioni contestate nel capo di imputazione provvisorio, era stato attestato che M. non era soggetto pericoloso, a seguito dell'avvenuta revoca da parte della Corte di appello di Roma della misura di prevenzione precedentemente disposta nei suoi confronti.

Inoltre, si lamentava come fosse stato adeguatamente dedotto e provato che le operazioni negoziali effettuate non potevano avere finalità elusiva, perché con esse si erano operate intestazione ai figli che, in caso di applicazione della misura di prevenzione, sarebbero state prive di efficacia, ex artt. 19 e 26 del codice antimafia.

A ciò si aggiunga che, nel corso del riesame, era stato dedotto come M. non avesse mai nascosto di essere il punto di riferimento dell'attività di ristorazione e che la mancata intestazione personale delle attività svolte rispondeva a necessità conseguenti una precedente condanna per bancarotta e l'applicazione delle relative pene accessorie.

Con un altro motivo si deduceva la violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p., con riferimento alla configurabilità dell'art. 12-quinquies l. 356/1992 nei confronti di L. M. a titolo di concorso, in quanto il tribunale del riesame aveva ricavato la gravità indiziaria in relazione al dolo specifico sulla base del solo rapporto di parentela, senza individuare alcuna circostanza fattuale da cui desumere che anche L. M. fosse consapevole della sottoponibilità del padre a misure di prevenzione e della finalità elusiva delle operazioni. In altri termini, secondo la difesa, doveva escludersi che il dolo specifico fosse provato dal solo legame di parentela.

Infine, si deduceva la violazione di legge in relazione alla configurabilità dell'ipotesi di autoriciclaggio contestata, affermando, al proposito, che l'impostazione seguita dal giudice del riesame non era corretta, dovendo, invece, ritenersi che la fattispecie di intestazione fittizia fosse priva di produrre profitti illeciti suscettibili di reimpiego. A parere della difesa, in particolare, la nozione di “profitto” del reato doveva limitarsi al vantaggio economico ricavato in via diretta ed immediata dal reato stesso, dovendosi escludere tale presupposto nei vantaggi puramente ipotetici e potenziali, come nel caso di specie.

Anche F. M. proponeva ricorso per cassazione con il quale si deducevano vari motivi, in gran parte coincidenti con quelli avanzati dai coimputati e già esposti. Fra questi: la violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. o la individuazione dell'intestazione fittizia quale reato presupposto della fattispecie di riciclaggio, con argomentazioni assimilabili a quelle già esposte. Inoltre, veniva lamentata l'assenza di qualsiasi approfondimento circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto in capo al ricorrente che, avendo operato quale soggetto interposto, avrebbe dovuto anche egli avere agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni in tema di misure di prevenzione.

L'art. 12-quinquies l. 356/1992: caratteristiche e presupposti applicativi delineati dalla Corte di cassazione

La Suprema Corte nell'affrontare le numerose questioni sottoposte alla sua attenzione, dopo aver esaminato e risolto le eccezioni preliminari avanzate dalle difese degli imputati, si occupa di chiarire le caratteristiche e i presupposti applicativi dell'art. 12-quinquies d.l. 306/1992.

Essendo stata in passato tale norma oggetto di contestazione riguardo a tale aspetti, tale pronuncia esprime in maniera chiara e sintetica lo stato dell'arte sul punto.

Con riguardo, in particolare, al reato di trasferimento fraudolento di valori, tutti i difensori ricorrenti, come accennato, contestavano la sussistenza della gravità indiziaria in ordine al reato di intestazione fittizia con riguardo ad una pluralità di aspetti.

In relazione a ciò la Suprema Corte richiama in sentenza quel costante insegnamento in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, secondo cui alla Suprema Corte spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la violazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie (Cass. pen., Sez. unite, 22 marzo 2000, n. 11). A ciò si aggiunga che la pronuncia cautelare è fondata su indizi tendenti all'accertamento non della responsabilità, ma di una probabilità di colpevolezza, e il giudizio di legittimità deve limitarsi a verificare se il giudice di merito abbia dato conto adeguatamente delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, senza possibilità di “rilettura” degli elementi probatori (Cass. pen., Sez. unite, 22 marzo 2000, n. 11). Secondo i giudici di legittimità, applicando tali principi, deve escludersi la fondatezza delle doglianze proposte in punto di sussistenza della gravità indiziaria in relazione al delitto di intestazione fittizia.

Proprio con riguardo alla stessa, la Cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 26 febbraio 2001, n. 8) ha più volte chiarito come il disvalore della condotta incriminata si esaurisca mediante l'utilizzazione dei meccanismi interpositori in grado di determinare l'effetto traslativo del diritto sul bene, così da determinare (attraverso lo schema della simulazione o del negozio fiduciario) la sola attribuzione formale, al fine di raggiungere la conseguenza elusiva delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p.

L'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 prevede e punisce, quindi, una fattispecie a forma libera, finalisticamente orientata a evitare l'attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altre utilità, volte ad eludere talune disposizioni legislative, tra le quali le norme in materia di misure di prevenzione patrimoniali. La fattispecie si caratterizza per la consapevole determinazione di una situazione di difformità tra titolarità formale, apparente, e titolarità di fatto di un determinato compendio patrimoniale, qualificata dalla specifica finalizzazione fraudolenta normativamente descritta. Per questa sua caratteristica risulta irrilevante che il provvedimento di prevenzione non sia ancora disposto, poiché, alla luce dell'interesse giuridico sotteso al reato, conserva interesse penale la cessione dei beni disposta proprio al fine di sottrarli all'effetto ablativo della misura. Deve, pertanto, escludersi che la provvista per le intestazioni fittizie punite dalla citata norma debba avere natura illecita, non essendo previsto tale profilo oggettivo della condotta dalla fattispecie incriminata.

L'ampiezza e l'indeterminatezza del momento oggettivo trova comunque un limite nella necessaria presenza del dolo specifico, consistente nello scopo elusivo (Cass. pen., Sez. II, 24 novembre 2011, n. 40).

In relazione a ciò si è affermato che, ai fini dell'integrazione del delitto di trasferimento fraudolento di valori, lo scopo elusivo che connota il dolo specifico prescinde dalla concreta possibilità dell'adozione di misure di prevenzione patrimoniali all'esito del relativo procedimento, essendo integrato anche solo dal fondato timore dell'inizio di esso, a prescindere dall'esito (Cass., Sez. II, 21 ottobre 2014, n. 2483). Difatti, l'art. 12 quinquies configura un reato di pericolo astratto, essendo sufficiente, per la sua commissione, che l'agente, sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione, compia un qualsiasi negozio giuridico al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali; ne consegue che la valutazione circa il pericolo di elusione delle misure va compiuta ex ante, alla stregua di circostanze che, al momento della condotta, erano conosciute o conoscibili da un uomo medio in quella determinata situazione spazio – temporale (Cass. pen., Sez. II, 9 marzo 2016, n. 12871). E nel caso in esame, l'analisi della condizione personale operata dal tribunale del riesame, con riferimento ai precedenti penali di G.M., ha portato, prima il Gip e poi il tribunale della libertà di Roma, a concludere per la sussistenza in capo al predetto di un concreto e fondato timore di essere sottoposto a procedimenti di prevenzione, che lo aveva portato a procedere all'intestazione fittizia.

A fronte di tale complessa situazione, secondo la Suprema Corte, non possono ritenersi fondate le doglianze difensive tese ad asserire che a seguito della revoca della misura di prevenzione disposta dalla Corte di appello di Roma nel 2009, G.M. fosse soggetto del tutto estraneo a ogni pendenza giudiziaria e così privo di qualsiasi interesse, se non quello di donare ai figli, ad operare le intestazioni fittizie. Peraltro, la Corte di cassazione ha escluso in passato che l'avvenuta revoca della misura di prevenzione precluda la configurabilità del contestato delitto di intestazione fittizia, in quanto, in tema di art. 12-quinquies d.l. 306/1992 le valutazioni effettuate nel giudizio di prevenzione sulla pericolosità del proposto non sono stabili e sono soggette a possibili rivalutazioni, sicché le stesse non hanno la capacità di elidere l'elemento soggettivo del reato, relativamente alle condotte poste in essere nel periodo in cui nel procedimento di prevenzione era stata esclusa la pericolosità del proposto, requisito necessario per l'adozione delle misure di prevenzione patrimoniali (Cass. pen., Sez. II, 2 dicembre 2014, n. 4136).

La Suprema Corte, nella sentenza in esame, analizza, poi, un ulteriore motivo comune ai ricorsi presentati nell'interesse dei ricorrenti e relativo alla configurabilità del reato contestato, nel caso, come quello di specie, in cui i fittizi intestatari siano i prossimi congiunti del ricorrente.

Il giudice dell'appello cautelare ritiene nell'ordinanza impugnata, richiamando una recente pronuncia della Suprema Corte, che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 12-quinquies d.l. 306/1992, fosse sufficiente l'attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità del denaro, beni o altre utilità, anche nel caso di beni intestati ad un familiare di un soggetto sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione patrimoniale. L'art. 26, comma 2, del codice antimafia, richiamato dalla difesa degli imputati, nel prevedere presunzioni d'interposizione fittizia destinate a favorire l'applicazione di misure di prevenzioni patrimoniali antimafia non impedisce, infatti, di configurare, eventualmente anche a titolo di concorso, il delitto di trasferimento fraudolento di valori, trattandosi di norme relative a situazioni aventi presupposti operativi ed effetti differenti (Cass. pen., Sez. II, 1 febbraio 2017, n. 269545). Nella specie, la Corte ha ritenuto, in queste pronunce, che il reato di cui all'art. 12-quinquies si manifesta attraverso una condotta comunque capace di mettere in pericolo l'interesse protetto dello Stato, tenuto conto «che l'esistenza di una mera presunzione relativa di elusività nell'intestazione di beni ai familiari del preposto non è certo elemento idoneo ad escludere ex se l'offensività del delitto contestato, commesso allo scopo deliberato di eludere, appunto attraverso la propria intestazione fittizia, l'efficacia di adottare misure di prevenzione patrimoniale» (Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2011, n. 31884). Non bisogna, dunque, secondo la Cassazione, confondere gli elementi integranti la fattispecie incriminatrice in esame con i criteri di giudizio o le presunzioni previste dalla disciplina delle misure di prevenzione reale, ai fini dell'adozione di siffatti provvedimenti di natura ablatoria, anche perché assimilare le due situazioni finirebbe per comportare l'arbitraria e inammissibile creazione di una causa di esclusione della punibilità a norma dell'art. 12-quinquies d.l. 306/1992.

La Corte di cassazione ha precisato che l'ambito di operatività del predetto art. 26 codice antimafia è squisitamente processuale, poiché la disposizione regolamenta particolari aspetti del procedimento di prevenzione per le misure patrimoniali, mentre quello dell'art. 12-quinquiesd.l. 306/1992 è penale sostanziale, poiché la disposizione punisce con la reclusione la fittizia intestazione di un bene ad un qualsiasi soggetto terzo, al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali, con la conseguenza che l'applicazione dell'uno non esclude l'applicazione dell'altra. La tesi secondo la quale, per la sussistenza del reato in esame, non basterebbe la sola fittizietà dell'intestazione in favore di uno dei suddetti soggetti ma occorrerebbe la presenza di ulteriori elementi di fatto che siano capaci di concretizzare la capacità elusiva dell'operazione (Cass. pen., Sez. V, 9 luglio 2013, n. 45145) non viene condivisa, in quanto tale esegesi finirebbe per richiedere la sussistenza di elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice non previsti dall'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 attribuendo tale veste a elementi fattuali che potrebbero avere solo una rilevanza ai fini della verifica dell'esistenza del necessario elemento psicologico del delitto.

Quanto poi alla prova dell'elemento soggettivo, inteso come lo scopo elusivo delle intestazioni fittizie, contestata da tutti i ricorrenti, il tribunale del riesame appare avere operato una interpretazione ed esposizione di dati di fatto priva dei vizi dedotti sia sotto il profilo della violazione di legge, che del difetto di motivazione. In relazione a ciò, si è, infatti, adeguatamente esposto come la ripetitività delle operazioni di fittizia intestazione e il coinvolgimento nelle stesse anche di soggetti estranei al nucleo familiare, che per detta posizione venivano retribuiti, costituisce elemento significativo proprio della volontà elusiva e della sussistenza del dolo specifico. E tali considerazioni paiono condivisibili proprio perché se vi sono plurime e ripetute intestazioni fittizie, anche a soggetti terzi, logicamente ne viene dichiarata la natura elusiva, quantomeno nella fase della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e, quindi, anche il dolo specifico richiesto per la configurabilità dell'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 risulta valorizzato sulla base di precise condizioni di fatto che non trovano smentita.

Tali considerazioni valgono anche per i figli di G.M., la cui partecipazione a plurime operazioni avvenute, anche con l'intervento di terzi appositamente individuati quali meri prestanome, ne manifesta il concorso nel delitto contestato. Né tali conclusioni possono trovare smentita nelle circostanze, pure dedotte nei rispettivi ricorsi, secondo le quali la sussistenza del dolo specifico e comunque del delitto di intestazione fittizia andrebbe esclusa sulla base dell'accertato effettivo svolgimento di attività di amministrazione e di gestione degli esercizi di ristorazione da parte dei figli. E difatti, la circostanza che gli stessi possano avere svolto reali attività all'interno degli esercizi destinati alla ristorazione, non esclude la fittizietà dell'intestazione iniziale delle quote sociali, e, dunque, la consumazione del fatto in quel preciso momento.

In particolare, in tema di momento consumativo del delitto di cui all'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 si è affermato che lo stesso è un reato a forma libera e a consumazione istantanea, che si consuma nel luogo in cui è avvenuta la disponibilità o l'attribuzione fittizia del bene (Cass. pen., Sez. II, 7 gennaio 2015, n. 15792), con la conseguenza di dovere affermare la sussistenza della fattispecie, in presenza della sola attribuzione fittizia e, quindi, indipendentemente della effettività dell'attività poi svolta all'interno della società dai soggetti ai quali le quote sono state inizialmente attribuite con volontà elusiva.

Con ulteriori motivi di ricorso i difensori degli imputati, poi, contestavano che il delitto di intestazione fittizia potesse fungere da delitto presupposto delle ipotesi di autoriciclaggio e riciclaggio pure loro contestate. Affermando che la fattispecie in esame non disegna una condotta produttiva di profitti illeciti si è voluto escludere a priori la possibilità che oggetto di condotte decettive riconducibili alle ipotesi di cui agli artt. 648 bis e 648 ter1 c.p. possano essere i profitti derivanti dalle attività delle società le cui quote risultano fittiziamente intestate.

Al proposito, però, nella sentenza in esame vengono richiamati quegli orientamenti della Suprema Corte che, affrontando la problematica, l'hanno risolta nel senso indicato dal Tribunale del riesame nell'ordinanza impugnata.

Si è, infatti, spesso affermato che il delitto di trasferimento fraudolento di valori può fungere da reato presupposto dei delitti di cui all'art. 648-bis e 648-ter c.p. Quella configurazione, secondo cui per aversi riciclaggio, autoriciclaggio o reimpiego, occorre che il reato presupposto sia in sé produttivo delle illecite attività economiche da riciclare o reimpiegare, incentrata su una prospettiva essenzialmente “naturalistica” che vede correlare l'oggetto del riciclaggio o del reimpiego all'oggetto del delitto presupposto, inteso quale bene fisicamente avulso dalla condotta materiale di quest'ultimo delitto, non può essere condivisa. Se, infatti, la ratio del delitto di interposizione fittizia è impedire la divaricazione tra titolarità formale e reale di beni appartenenti a soggetti sottoponibili a misure di prevenzione, perché gravitanti nel contesto della criminalità mafiosa, tale possibilità deve valere anche per i profitti derivanti dalle attività fittiziamente intestate. Il profitto delle attività oggetto di intestazione fittizia assume carattere illecito proprio in quanto apparente titolare dello stesso è un soggetto diverso da quello esposto all'applicazione della misura di prevenzione, e, quindi, esposto alle misure ablatorie; diversamente opinando si finirebbe per attribuire un effetto “sanante” allo svolgimento di attività produttive di profitto economico pur oggetto di iniziale intestazione fittizia, in palese dispregio dello scopo della norma.

Proprio dall'analisi strutturale dell'art. 12-quinquies d.l. 306/1992 può, dunque, dedursi la congruità di tale fattispecie a fungere quale reato presupposto dei delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p.

In conclusione

Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte, dopo aver ampiamente analizzato le caratteristiche e i presupposti applicativi del delitto di trasferimento fraudolento di valori, quale fattispecie a forma libera, a consumazione istantanea, caratterizzata dalla “consapevole” determinazione, in qualsiasi forma realizzata, di una situazione di difformità tra titolarità formale, apparente, e titolarità di fatto di un determinato compendio patrimoniale, qualificata dalla specifica finalizzazione fraudolenta normativamente descritta e idonea a costituire il reato presupposto dei delitti di cui agli artt. 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 c.p., rigetta i numerosi motivi di ricorso avanzati dagli imputati e condanna gli stessi alle spese processuali.

A nulla rilevando nemmeno quanto dedotto dalla difesa con riguardo alla circostanza che le intestazioni fittizie fossero state effettuate in favore dei figli dell'imputato, in quanto, ai fini della configurabilità del reato oggetto di esame, secondo la giurisprudenza più recente, è sufficiente l'attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità del denaro, beni o altre utilità, anche nel caso di beni intestati ad un familiare di un soggetto sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione patrimoniale. L'art. 26 del codice antimafia, richiamato dalla difesa degli imputati, infatti, nel prevedere presunzioni d'interposizione fittizia destinate a favorire l'applicazione di misure di prevenzioni patrimoniali antimafia non impedisce di configurare il delitto di trasferimento fraudolento di valori, trattandosi di norme relative a situazioni aventi presupposti operativi ed effetti differenti.

Guida all'approfondimento

E.R. Belfiore, Sub art. 12 quinquies, D.L. 8.6.1992, n. 306, in F.C. Palazzo – C.E. Paliero (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007;

F. Mucciarelli, Art. 12 quinquies l. 356/1992, in Commento al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, in Leg. pen., 1993;

M. Pellegrino, Il trasferimento fraudolento di valori (art. 12 quinquies d.l. n. 306/1992), in V. Maiello (a cura di), La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, Torino, 2015;

M. Zanotti, Le disposizioni di cui all'art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito nella l. 356/1992 in materia di trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, in P. Corso – G- Insolera – L. Stortoni (a cura di), Mafia e criminalità organizzata, II, in Giust. sist. Bricola – Zagrebelsky, Torino, 1995.

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