Titolo esecutivo e intervento nell'esecuzione: una fattispecie particolare in tema di equa riparazione

Francesco Bartolini
26 Marzo 2018

Passivamente legittimato rispetto alle azioni esecutive volte a recupero di crediti derivanti dalla liquidazione dell'indennizzo per irragionevole durata del processo è il Ministero della Giustizia.
Massima

Passivamente legittimato rispetto alle azioni esecutive volte a recupero di crediti derivanti dalla liquidazione dell'indennizzo per irragionevole durata del processo è il Ministero della Giustizia, ex art. 5-quater, comma 2-bis, della l. n. 89/2001, introdotto dall'art. 55, comma 2, del d.l. n. 83/2012, conv. con modif. in l. n. 134/2012, di interpretazione autentica dell'art. 1, comma 1225, della l. n. 296/2006, che tale legittimazione aveva invece conferito al Ministero dell'Economia e delle Finanze. Sicché, trattandosi di norma avente efficacia retroattiva ed applicabile, pertanto, alle azioni in corso, qualora, sulla base della previgente disciplina, sia stata intrapresa una procedura esecutiva nei confronti di questo Ministero, ed essa sia pendente al momento dell'entrata in vigore del cit. art. 5-quater, l'istanza di intervento in essa proposta va rigettata, se fondata su titolo ottenuto nei confronti del Ministero della Giustizia.

Il caso

I ricorrenti per cassazione avevano proposto opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione di rigetto della loro istanza di intervento in una procedura esecutiva pendente nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze. Il titolo assunto a fondamento dell'intervento aveva per debitore il Ministero della giustizia e consisteva in un decreto pronunciato in esito a un giudizio per equa riparazione, ai sensi della l. n. 89/2001. A parere del giudice dell'esecuzione, tale titolo non consentiva di agire nei confronti di un soggetto passivo diverso da quello in esso menzionato, tanto meno dopo le modifiche introdotte dall'art. 55 d.l. n. 83/2012 alla citata l. n. 89/2001. Nella loro opposizione i pretesi interventori deducevano che la norma invocata dal giudice dell'esecuzione era sopravvenuta rispetto all'inizio della procedura esecutiva; che la decisione negativa si poneva in contrasto con l'insegnamento di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 61/2014; e che in ogni caso il credito oggetto di intervento poteva essere disconosciuto unicamente in esito alla procedura di cui all'art. 499, commi 5 e 6, c.p.c..

Il tribunale, nel respingere l'opposizione, dichiarò infondate tutte le doglianze: l'iniziale possibilità di agire esecutivamente nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze in base ad un titolo ottenuto contro il Ministero della giustizia era stata esclusa dall'art. 1, comma 1225, l. n. 296/2006, come successivamente interpretato dall'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012 (che aveva legittimato il Ministero dell'economia e delle finanze a rispondere dei soli provvedimenti emanati nei suoi confronti); gli opponenti non avevano dunque legittimazione ad agire nei confronti di un Ministero diverso da quello verso cui si era formato il loro titolo; la citata sentenza delle Sezioni Unite si riferiva ad una fattispecie difforme da quella in esame ed era dunque inconferente; mentre la procedura di cui all'art. 499 era applicabile al caso dei creditori non titolati e non anche a coloro che, come gli opponenti, vantavano un titolo giudiziale esecutivo.

Il ricorso per cassazione ha formulato quattro motivi di gravame.

Si deduce che il procedimento esecutivo pendente, nel quale fu effettuato l'intervento poi disatteso dal giudice dell'esecuzione, era stato promosso anche nei confronti del Ministero della giustizia: sì che la salvezza di tale procedimento avrebbe dovuto condurre all'accoglimento dell'opposizione. Si sostiene che il giudice dell'esecuzione non avrebbe dovuto rigettare de plano l'istanza di intervento ma avrebbe dovuto dar luogo alla procedura di cui all'art. 499, commi 5 e 6, c.p.c.. Si asserisce che erroneamente la norma di cui all'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012 è stata ritenuta di interpretazione autentica anziché di natura innovativa. E si sollecita, infine, il rilievo di una questione di legittimità costituzionale della medesima norma, per violazione del principio di ragionevolezza, in quanto la stessa è sopraggiunta a distanza di sei anni dall'entrata in vigore dell'art. 1, comma 1225, l. n. 296/2006, quando per effetto di tale considerevole lasso temporale si era formato un affidamento sulla interpretazione della disposizione precedente sconfessato inopinatamente dal nuovo principio che individuava nel Ministero dell'economia e delle finanze l'ente tenuto al pagamento degli indennizzi liquidati all'esito della procedura di cui alla l. n. 89/2001.

La questione

Una prima questione concerne un preteso errore di identificazione del soggetto nei cui confronti era stato promosso il procedimento esecutivo principale: errore che i ricorrenti deducono sub specie di falsa applicazione dell'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012. In proposito i giudici di merito avevano motivato il rigetto dell'istanza di intervento sull'assunto che non potesse vantarsi come titolo per intervenire in una procedura promossa contro il Ministero dell'economia e delle finanze un provvedimento emesso nei confronti del Ministero della Giustizia: con il ricorso si afferma che il procedimento esecutivo aveva per soggetto debitore anche il Ministero della Giustizia.

Si addebita al giudice dell'esecuzione di non aver convocato il debitore e i creditori intervenuti in osservanza della speciale procedura di verifica dei crediti oggetto delle disposizioni dettate dall'art. 499 c.p.c.. Questa procedura, introdotta dal d.l. n. 35/2005, persegue lo scopo di accertare quali, tra i crediti chirografari vantati verso il debitore, questi riconosca come sussistenti e da soddisfare con gli utili della procedura esecutiva.

I ricorrenti negano, inoltre, che la norma dettata dall'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012 abbia natura interpretativa e asseriscono che la sua introduzione è posteriore all'inizio della procedura esecutiva: essendo, questa, andata a buon fine per il creditore procedente, doveva conseguirne la salvezza dell'intervento in essa proposto medio tempore.

La richiesta di rilievo della questione di legittimità costituzionale dell'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012 è motivata con riguardo all'affidamento formatosi nell'interpretazione della disciplina precedente seguita nella prassi per un apprezzabile lasso temporale. In sostanza si deduce che la norma viola l'art. 3 Cost. perché contrastante con il principio di ragionevolezza, in quanto essa è intervenuta a distanza di circa sei anni dall'entrata in vigore dell'art. 1, comma 1225, l. n. 296/2006, che aveva individuato nel Ministero dell'economia e delle finanze l'ente tenuto al pagamento degli indennizzi di cui alla l. n. 89/2001: e pertanto quando era già maturata una interpretazione della norma citata in senso diverso, priva di dubbi o incertezze applicative. Per tal modo si sarebbe inciso sul legittimo affidamento insorto nella generalità dei cittadini circa la portata applicativa della disposizione originariamente emanata. Si assume, infine, che il chiaro carattere innovativo rende questa disposizione illegittima anche per contrasto con i principi della CEDU.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha ritenuto la prima delle questioni proposte con il ricorso in parte inammissibile e in parte infondata. Del possesso in capo anche al creditore procedente di un titolo formatosi nei confronti del Ministero della Giustizia, come quello vantato dai creditori intervenienti, non si era mai fatta discussione, nei gradi di merito del giudizio, sì che ne risultava la novità e la non deducibilità, nel grado di legittimità, del relativo motivo di gravame. Né i ricorrenti avevano assolto all'onere di specificità e autosufficienza del loro atto di ricorso (art. 366, n. 6, c.p.c.), con l'indicare l'atto processuale dal quale risultasse proposta la questione; e assumendo, in definitiva, l'esistenza di un fascicolo processuale (relativo al procedimento principale) estraneo a quello avente ad oggetto l'intervento e non prodotto in atti. Nella sua pronuncia il Collegio ha ulteriormente argomentato. L'intervento, si è osservato, è stato effettuato nei confronti di un soggetto (il Ministero dell'economia e delle finanze) diverso da quello risultante come debitore (il Ministero della giustizia) nel titolo esibito per tale atto: un debitore, oltre tutto, diverso da quello individuato dall'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012. Il riferimento alla sentenza n. 61/2014 delle Sezioni Unite era erroneo, posto che essa era riferita alla diversa ipotesi in cui nel corso della procedura esecutiva viene meno il titolo del creditore procedente e ad esso si sostituisce quello degli intervenuti: mentre nella vicenda di specie si sosteneva che la salvezza finale del procedimento (dunque, giunto alla sua fase conclusiva), a favore del creditore procedente, rendeva accoglibile l'intervento successivo.

Il secondo motivo di ricorso è stato dichiarato destituito di fondamento. La procedura di cui all'art. 499 c.p.c. riguarda, infatti, i creditori chirografari e non anche i creditori titolati, quali risultavano essere gli aspiranti intervenienti. Analoga pronuncia ha riguardato il terzo motivo di impugnazione. La natura interpretativa della norma contenuta nell'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012, disconosciuta dai ricorrenti, risulta a chiare lettere dal testo della stessa. La disposizione intende chiarire che non possono essere fatte valere nei confronti del citato Ministero ragioni creditorie ottenute verso amministrazioni diverse.

Il quarto motivo di ricorso è stato respinto per manifesta infondatezza del dubbio di illegittimità costituzionale ipotizzato nell'atto di gravame. I ricorrenti asserivano di aver confidato nel testo della l. n. 296/2006 quale risultava prima della modifica apportata dal d.l. n. 83/2012. E tuttavia risultava che il loro intervento era avvenuto dopo l'entrata in vigore della norma interpretativa di cui a tale decreto legge, in un momento, cioè, nel quale l'esistenza di una precisa disposizione di diritto positivo non poteva lasciare dubbio alcuno all'interprete in ordine alla disciplina vigente. Una questione in tema di affidamento si sarebbe potuta porre (ha aggiunto la Corte) nella diversa e non sussistente ipotesi in cui, avvenuto l'intervento sulla base del testo originario dell'art. 1, comma 1225, l. n. 296/2006, il giudice dell'esecuzione avesse riscontrato il difetto di legittimazione del debitore esecutato per il sopravvenire della norma interpretativa. In ogni caso (si è concluso) le censure di costituzionalità apparivano prive di fondamento, posto che la norma denunziata ha ritenuto di dover fornire la corretta interpretazione delle norme vigenti, ribadendo la regola di carattere generale secondo cui l'esecuzione deve essere intrapresa nei confronti del soggetto che il titolo stesso individua come debitore, non potendo incidere sulla correttezza di tale soluzione, imposta dai principi circa la natura personale della responsabilità del debitore, considerazioni legate alla maggiore o minore capienza del patrimonio dei vari Dicasteri.

Osservazioni

Il ricorso non ha meritato lunghe dissertazioni, ad opera della Corte. Sulla base di mere affermazioni si era sostenuto, in primo luogo, che la procedura esecutiva promossa dal creditore principale aveva per debitore esecutato anche il Ministero della Giustizia, quando per tutto il percorso dei gradi di merito si dava per pacifico che esso avesse riguardato il solo Ministero dell'economia e delle finanze. L'asserzione era totalmente nuova: e palesemente impresentabile nel giudizio di legittimità come motivo autonomo di impugnazione. Per di più, l'assunto dei ricorrenti si risolveva in asserzioni prive di un riscontro probatorio, che avrebbe potuto essere fornito soltanto dai riferimenti espliciti nella sentenza del tribunale oppure dalla produzione del fascicolo relativo al procedimento principale o di altra idonea documentazione (ad esempio, il provvedimento giudiziale costituente il titolo vantato dal creditore procedente). La diversità risultante tra l'identità del soggetto nei cui confronti gli intervenienti proponevano il loro atto (Ministero dell'economia e delle finanze) e quella del soggetto indicato come debitore nel loro titolo (Ministero della Giustizia) costituiva ragione per dichiarare detti intervenienti privi di legittimazione all'intervento. E' ovvio che l'azione esecutiva, anche nella forma dell'intervento, deve essere esercitata verso colui che risulta essere il debitore, o comunque il soggetto tenuto alla prestazione, dal titolo che si chiede al giudice di attuare esecutivamente. Né ricorreva la situazione alla quale si riferisce la menzionata pronuncia delle Sezioni Unite n. 61/2014 dalla quale i ricorrenti invocavano soccorso. Il principio posto in tale pronuncia si regge su due presupposti: l'identità del soggetto passivo nei cui confronti agiscono il creditore procedente e gli intervenuti; il venir meno, per qualsiasi causa, del titolo del creditore procedente in una procedura (promossa con un pignoramento efficace) nella quale la supplenza del titolo degli intervenuti possa valere a consentirne la prosecuzione. Nella vicenda di specie non ricorrevano l'identità del soggetto debitore e tanto meno la sopravvenuta inefficacia, invalidità o estinzione del titolo del creditore procedente.

Ugualmente infondato è apparso il motivo con il quale è contestata la natura interpretativa della norma dettata dall'art. 55, comma 2-bis, d.l. n. 83/2012: tale natura è specificamente affermata nel testo letterale della stessa. E ogni tentativo di contestazione doveva naufragare, come ha rilevato la Corte, a fronte di una considerazione che privava di rilievo la stessa questione della natura interpretativa, o meno, della disposizione citata. Questa, infatti, era entrata in vigore ben prima che fosse proposto l'intervento. Una siffatta circostanza escludeva in radice ogni possibile discorso in tema di affidamento e di violazione dei principi tutelati dalla CEDU. L'operatore è tenuto a conoscere la legge vigente e non può addurre a motivo di buona fede la propria ignoranza e la propria mancanza di diligenza.

Palesemente insostenibile, inoltre, appariva la tesi secondo cui il giudice dell'esecuzione avrebbe dovuto promuovere la procedura di verificazione dei crediti disciplinata dall'art. 499 c.p.c.. Questa procedura, infatti, concerne i creditori chirografari, privi, cioè, di quel titolo esecutivo di cui, per contro, gli intervenienti hanno sempre asserito di essere muniti. Proprio l'indisponibilità di un titolo avente efficacia di atto esecutivo costituisce la ragione che giustifica e che impone la procedura in questione: soltanto il credito vantato ma non tradottosi in un documento efficace verso i terzi ha necessità di essere sottoposto alla verifica nel contraddittorio con il debitore. Nella vicenda di specie i pretesi intervenienti esibivano un titolo giudiziale idoneo alla diretta azione esecutiva e per questo aspetto il motivo di ricorso non poteva non apparire privo di un appiglio concreto alla realtà fattuale.

Con il quarto motivo i ricorrenti hanno azzardato una tesi fondata sull'affidamento che l'interprete può nutrire sull'assetto interpretativo della legge quale viene a formarsi nel tempo. La tesi è suggestiva e merita qualche riflessione, anche se è stata sconfessata dalla Corte, se non altro, per una semplice ragione di fatto. Quando i ricorrenti presentavano la loro istanza di intervento, la norma in questione era esistente da tempo, sì che il conoscerla nel suo significato e l'osservarla nel suo contenuto cogente costituiva un preciso onere di diligenza professionale.

L'osservazione con la quale la Corte ha respinto il motivo di impugnazione ha le caratteristiche di ciò che è ovvio. Il contenuto di una norma modificata da altra successiva vale per il tempo sino al quale subentra l'innovazione: e, se esso può restare vivo nella memoria (o essere utilizzato per la ricostruzione dell'evoluzione di un istituto), certamente esce dal novero del diritto vivente per entrare a far parte di ciò che è passato. Pretendere di esercitare azioni in base ad una soggettiva fiducia di continuità nel tempo, nonostante il sopraggiungere di normative difformi (e magari specificamente sostitutive o abrogatrici), significa voler applicare un diritto che più non esiste e venir meno ai propri doveri di adeguatezza e di perizia. Il possibile affidamento ha dunque un limite: è dovere di chi intende ottenere tutela dal diritto conoscerlo e conoscerlo nei suoi mutamenti. La buona fede non può avere rilevanza se non nelle situazioni in cui sia stato impossibile, o sommamente difficile, l'aggiornamento necessario.

Può accadere, tuttavia, che il succedersi degli interventi legislativi giunga a cogliere l'operatore in un momento nel quale egli è ormai impedito a mutare i suoi asserti, divenuti, senza che ciò possa essergli addebitato, inadeguati rispetto alla normativa sopraggiunta. Non era questo, il caso di specie. Ma il discorso sull'affidamento nell'efficacia delle norme nel tempo ha attinenza con l'altro discorso che riguarda le modifiche sopraggiunte a sorprendere negativamente chi aveva regolato i suoi atti in base al dettato della normativa oggetto di modifica e la vede mutata quando è troppo tardi per adeguarvisi. In questa situazione non può propriamente invocarsi un affidamento dell'utente ma è certo che viene a determinarsi una situazione che compromette la posizione di chi si era regolato conformemente alle disposizioni vigenti, aveva fidato nel loro riconoscimento ad opera del giudice e le vede divenute, senza possibilità di rimedio, diverse.

Quando una siffatta fattispecie abbia a verificarsi, un temperamento a favore del soggetto che ne subisce gli effetti non può che provenire dall'applicazione dell'art. 101, comma 2, c.p.c..

Questa norma dispone che, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice deve riservare la pronuncia e assegnare alle parti, a pena di nullità, un termine per il deposito di memorie contenenti le loro osservazioni. La ratio della disposizione è stata indicata dalla comune opinione nell'esigenza di impedire possibili decisioni a sorpresa, vale a dire, su questioni e in base ad argomenti rimasti estranei al contraddittorio tra le parti ed a quanto esse ritenevano costituisse la materia tra loro controversa. Fattispecie di questioni rilevabili d'ufficio e da trattare in osservanza dell'art. 101, comma 2, sono anche quelle che sorgono dal subentro di normative nuove rispetto a quelle prese in considerazione dai contendenti: si vedano Cass. civ., sez. V, n. 11453, e Cass. civ., sez. II, n. 15194/2008, in tema di rilievo d'ufficio di normative sopraggiunte nelle fasi ultime del giudizio.

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