Il regime di esenzione dall'IMU agricola non viola il principio di riserva di legge
29 Marzo 2018
Il contenuto della decisione
Non è costituzionalmente illegittimo il regime di esenzione dall'IMU dettato per i terreni agricoli collocati nel territorio dei Comuni classificati totalmente o parzialmente montani nell'elenco tenuto dall'Istat, regime in vigore negli anni 2014-2015 e ormai abrogato per dall'art. 1, comma 13, L. n. 208/2015.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 17/2018, ritenendo in parte infondate e in parte inammissibili le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Regione autonoma Sardegna – che lamentava, oltre alla lesione delle proprie competenze, la violazione di parametri non competenziali – nonché dal TAR del Lazio, per il mancato rispetto del principio di riserva di legge in materia tributaria.
L'interesse all'impugnazione della Regione e dei Comuni – questi ultimi ricorrenti nei giudizi a quibus – nasceva dal fatto che la normativa censurata – riducendo la platea degli enti locali (e, quindi, dei contribuenti) interessati dell'esenzione rispetto a quella originaria – determinava un teorico incremento di gettito a vantaggio dei Comuni non più esenti (in quanto destinatari del provento dell'IMU), ma li avrebbe al contempo potenzialmente pregiudicati per la correlata previsione di una corrispondente riduzione dei trasferimenti loro destinati, trattenuti nel bilancio dello Stato. Il beneficiario effettivo della manovra, quindi, sarebbe risultato quest'ultimo, mentre i Comuni avrebbero subìto la sostituzione di risorse finanziarie certe (quelle rappresentate dai trasferimenti) con risorse incerte (quelle costituite dal maggior gettito tributario, condizionato da vicende imponderabili). Di qui l'interesse degli enti locali e della Regione, che ne può far valere le istanze, a denunciare il regime così concepito.
La Corte Costituzionale ha evidenziato che l'IMU costituisce un tributo erariale, in quanto istituito e disciplinato da legge dello Stato, il cui gettito è devoluto ai Comuni. Su tali presupposti, ha ricondotto la sua disciplina, comprensiva del regime agevolativo, alla competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) – in tal modo escludendo la lesione delle attribuzioni regionali, segnatamente in materia di «agricoltura e foreste» e di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» – e ha negato che la Regione potesse incidere sulla modulazione dell'imposta, ai sensi dell'art. 10 del proprio statuto, non essendo destinataria del relativo provento.
Secondo la Corte, le disposizioni censurate non dettavano un regime palesemente arbitrario o irrazionale – in quanto, nell'identificazione dei Comuni esenti, contemperavano il criterio altimetrico, tendenzialmente stabile nel tempo, con parametri indicativi di bassa redditività – né realizzavano un'ingiustificata discriminazione rispetto ad altre aree eventualmente svantaggiate. Ancora, la Corte ha escluso che il regime agevolativo e il correlato impatto sulla finanza degli enti locali non violassero gli artt. 81 e 119 Cost. Sebbene non sia implausibile che la nuova disciplina potesse ridurre il grado di certezza dell'entrata tributaria e quindi della copertura delle spese previste, da un lato le autonomie territoriali non godono di una rigida garanzia quantitativa di disponibilità finanziarie immutabili nel tempo e, dall'altro lato, il legislatore si è fatto carico dei potenziali squilibri, stabilendo temporaneità e sperimentalità delle disposizioni impugnate e prevedendo meccanismi correttivi dei potenziali scompensi. Con ciò le esigenze dei Comuni montani – anche di quelli più piccoli, particolarmente esposti al rischio di penuria di risorse – risultavano sufficientemente salvaguardate, rimanendo peraltro salva la possibilità di attivare il controllo giurisdizionale nel caso in cui i meccanismi correttivi non fossero adeguati.
Infine, la Corte ha escluso la violazione del principio di riserva di legge, denunciato dal Tar del Lazio con quattro ordinanze del medesimo contenuto.
È su quest'ultimo profilo che ci si intende soffermare in questa sede. Le ordinanze di rimessione
Il Tar del Lazio censurava l'art. 1, comma 1, lettere a) e b), D.L. n. 4/2015, in quanto, prevedendo che l'esenzione dall'IMU si applicasse ai terreni agricoli, nonché a quelli non coltivati, ubicati nei Comuni classificati totalmente o parzialmente montani – in quest'ultimo caso se posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola – nell'elenco predisposto dall'Istat, avrebbe rimesso a detto Istituto – o a chi per esso – la determinazione dei presupposti di fatto per l'applicazione del regime agevolativo. Ciò, tuttavia, senza vincolo legislativo alla discrezionalità amministrativa, atteso che l'art. 1 L. n. 991/1952, che originariamente disciplinava la formazione dell'elenco – poi recepito dall'Istat – è stato abrogato dall'art. 29, comma 7, lettera a), L. n. 142/1990, con la conseguenza che il successivo mantenimento della classificazione sarebbe avvenuto sulla base di parametri non più legislativamente determinati bensì assolutamente discrezionali, in violazione dell'art. 23 Cost.
L'art. 23 Cost. prevede una riserva relativa di legge. Il carattere relativo della stessa fu sin da subito riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 47/1957) ed è stato successivamente ribadito anche dalle pronunce più recenti (ex plurimis, Corte Cost. n. 174/2017), mentre la “base legislativa” per l'imposizione delle prestazioni patrimoniali viene diffusamente ritenuta rispondente a una duplice ratio: una di garanzia e tutela della libertà e della proprietà individuale – costantemente evidenziata dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più risalenti, Corte Cost. n. 4/1957 e, tra le più recenti, Corte Cost. n. 69/2017) – l'altra, che si può definire “democratica”, correlata all'esigenza che le scelte di fondo sulla ripartizione dei carichi impositivi siano assunte in seno agli organi istituzionalmente rappresentativi di tutte le istanze sociali, nell'ambito di un procedimento politico sufficientemente ampio da coinvolgere le minoranze in modo che, nel rispetto degli specifici principi costituzionali (suscettibile di controllo a opera della Corte costituzionale), sia favorito il più ampio grado di consenso e razionalità nella ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte medesime. Si tratta di rationes inscindibili e compenetrate, atteso che la ratio democratica della riserva – intesa nella sua valenza partecipativa e, segnatamente, come inclusione delle minoranze nel processo di formazione legislativa – non è altro che l'evoluzione del primordiale “no taxation without representation”.
La qualificazione della riserva di legge di cui all'art. 23 Cost. come relativa implica che una porzione della disciplina del tributo possa essere il frutto dell'esercizio di poteri amministrativi. Inevitabilmente, l'attenzione si focalizza sul riparto dei rispettivi spazi di intervento, onde valutare in concreto la “sufficienza” della disciplina legislativa. In dottrina prevale la tesi secondo cui la fonte primaria deve recare la diretta disciplina degli elementi individuanti il tributo, vale a dire dei soggetti e del presupposto impositivo, mentre l'indicazione di criteri direttivi e limiti cui l'organo amministrativo deve conformarsi viene confinata alla determinazione del quantum della prestazione (imponibile e aliquote).
La giurisprudenza costituzionale fa più diffuso riferimento alla necessità che la legge individui criteri idonei a delimitare la discrezionalità degli enti impositori, affermando che il precetto costituzionale di cui all'art. 23 Cost. «deve ritenersi rispettato quando la legge che prevede l'imposizione pur non fissandone il massimo, determina criteri, condizioni limiti e controlli idonei a contenere la discrezionalità dell'ente impositore nell'esercizio del potere attribuitogli e ad evitare così che possa trasmodare in arbitrio» (Corte cost. n. 51/1960). La distanza tra la posizione dottrinaria e quella giurisprudenziale, tuttavia, è più apparente che reale, così come diffusamente rilevato in dottrina e confermato dalla medesima Corte costituzionale, laddove, nel tempo, ha reiteratamente affermato che «il legislatore deve indicare compiutamente “il soggetto e l'oggetto della prestazione imposta, mentre l'intervento complementare ed integrativo da parte della pubblica amministrazione deve rimanere circoscritto alla specificazione quantitativa (e qualche volta, anche qualitativa) della prestazione medesima: senza che residui la possibilità di scelte del tutto libere e perciò eventualmente arbitrarie della stessa pubblica amministrazione, ma sussistano nella previsione legislativa – considerata nella complessiva disciplina della materia – razionali ed adeguati criteri per la concreta individuazione dell'onere imposto al soggetto nell'interesse generale”» (Corte cost. n. 69/2017 e n. 34/1986).
Tanto premesso in generale, si deve affrontare il tema dell'applicabilità della riserva di legge alle agevolazioni. Il problema della loro legittimità in riferimento all'art. 23 Cost. non sembrerebbe nemmeno porsi per chi accede alla tesi secondo cui le disposizioni aventi simile oggetto non soggiacciono alla riserva di legge, in quanto finalizzate ad avvantaggiare il contribuente. La tesi potrebbe ritenersi corroborata dal mancato richiamo delle disposizioni di tale natura a opera del fondamentale art. 52, comma 1, D.Lgs. n. 446/1997.
L'opinione prevalente in dottrina, tuttavia, riconduce anche le agevolazioni all'ambito di applicazione del principio di riserva di legge sulla base dell'assunto per cui, in quanto destinate a restringere l'ambito applicativo del tributo, non possano che appartenere anch'esse alla medesima tipologia delle norme impositive a cui derogano. Ciò comporterebbe, a rigore, che debbano essere effettuate esclusivamente a livello legislativo non solo le scelte relative all'individuazione dei presupposti del tributo e dei soggetti interessati, ma anche quelle afferenti alle agevolazioni. L'approccio più rigoroso è condiviso dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale «non vi è dubbio che le norme di agevolazione tributaria siano anch'esse, come le norme impositive, sottoposte alla riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost., perché realizzano un'integrazione degli elementi essenziali del tributo (sentenza n. 123/2010). Ne consegue che i profili fondamentali della disciplina agevolativa devono essere regolati direttamente dalla fonte legislativa. [… Q]uest'ultima non deve limitarsi a fissare i tetti massimi dell'importo delle agevolazioni accordate, ma deve determinare in modo sufficiente anche le fattispecie di agevolazione, individuandone gli elementi fondamentali, quali i presupposti soggettivi e oggettivi per usufruire del beneficio» (Corte Cost. n. 60/2011).
Sebbene, dunque, anche la previsione dei presupposti soggettivi e oggettivi dell'agevolazione debba essere prevista dalla legge e non possa essere rimessa alla mera discrezionalità dell'amministrazione, ciò non ha condotto la Corte a ravvisare la violazione della riserva di legge nella fattispecie al suo esame.
All'uopo, la norma censurata rinviava a un elenco preesistente, non più aggiornato dal 2009, i cui dati (quanto a montanità) l'Istat aveva raccolto e diffuso per finalità informative e a cui il legislatore aveva attinto. La disposizione, dunque, non attribuiva all'Istituto né ad altra amministrazione il compito di stabilire quali Comuni fossero totalmente o parzialmente montani e, di conseguenza, quali terreni fossero esenti dall'IMU; non recava una norma “in bianco” che si limitasse a prevedere il potere in capo all'amministrazione senza indicare sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della relativa discrezionalità, così priva di vincoli nella possibilità di incidere sulla sfera generale di libertà dei cittadini. Con il rinvio rivolto a un'elencazione già predisposta il legislatore – inevitabilmente consapevole di quali fossero i suoi contenuti – aveva condiviso le scelte ivi cristallizzate a fini differenti – a prescindere da chi e come fossero state eseguite – adottando quella valutazione in funzione agevolativa fino alla sopravvenuta abrogazione della norma che vi provvedeva. Attraverso il rinvio, dunque, l'individuazione dei presupposti soggettivi e oggettivi dell'esenzione era tutt'altro che rimessa all'amministrazione, alla quale, viceversa, non era riconosciuto alcun margine di discrezionalità, nemmeno quella condizionata da criteri e direttive che la rendessero compatibile con la riserva relativa, in quanto la scelta è stata operata integralmente dal decreto-legge – senza che fosse denunciata la violazione dell'art. 23 Cost. per l'impiego di simile veicolo normativo – in pieno ossequio alle due rationes sottese alla riserva di legge, sopra evidenziate. La Corte ha così potuto evitare di prendere esplicita posizione sulla natura recettizia del rinvio – negata dal rimettente – la quale, peraltro, appariva sostenibile alla luce degli elementi già parzialmente indicati, che potevano ritenersi deporre in tal senso in maniera univoca e condurre a vincere la presunzione di rinvio non recettizio: il riferimento a un atto specifico (Corte Cost. n. 311/1993), anche se il rilievo non sarebbe di per sé concludente (Corte Cost. n. 258/2014, n. 250/2014 e n. 85/2013); il fatto che si trattasse di un mero elenco, privo di contenuto dispositivo, tenuto a fini diversi (informativi) da quelli fiscali; la circostanza che esso fosse preesistente alla disposizione che lo richiamava, non fosse stato più aggiornato dal 2009 e mancasse una normativa che attribuisse e disciplinasse il potere di aggiornamento, attribuendole un dinamismo che consentisse di configurare il rinvio come rivolto alla fonte piuttosto che alla norma (Corte Cost. n. 250/2014); la concreta utilità di effettuare il rinvio all'elencazione preesistente invece di riprodurla nel corpo della disposizione. Alla stregua dei rilievi che precedono, l'effetto di incorporazione dell'elenco nella norma censurata e la sua “legificazione” (Corte Cost. n. 250/2014, n. 80/2013, n. 241/2008 e n. 461/1995) avrebbero escluso in maniera ancor più marcata la violazione dell'art. 23 Cost. Ma di pronunciarsi espressamente sul punto la Corte non ha avuto bisogno. Bibliografia di riferimento
L. Carlassare, Legge (riserva di), in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990 S. Cipollina, La riserva di legge in materia fiscale nell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006 G. Falsitta, Manuale di diritto tributario – parte generale, Padova, 2010 A. Fedele, La riserva di legge, in A. Amatucci (a cura di), Trattato di diritto tributario, Padova, 1994 P. Russo, Manuale di diritto tributario – parte generale, Milano, 2007 F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario – parte generale, Torino, 2016 |