L'incostituzionalità del decreto Ilva 2015

Redazione Scientifica
29 Marzo 2018

È incostituzionale il decreto Ilva del 2015 che consentiva la prosecuzione dell'attività di impresa degli stabilimenti, in quanto di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro disposto dall'autorità giudiziaria per i reati inerenti la sicurezza dei lavoratori.

È incostituzionale il decreto Ilva del 2015 che consentiva la prosecuzione dell'attività di impresa degli stabilimenti, in quanto di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro disposto dall'autorità giudiziaria per i reati inerenti la sicurezza dei lavoratori.

La Corte costituzionale, sentenza n. 58 del 7 febbraio 2018 (dep. 23 marzo 2018), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale nonché per l'esercizio dell'attività d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 27 giugno 2015, n. 83 recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria).

Le motivazioni. La disposizione da parte dell'Autorità giudiziaria di sequestri preventivi nel corso di procedimenti penali non preclude, in via generale, al Legislatore di intervenire per la salvaguardia della continuità produttiva in settori strategici per l'economia nazionale e per garantire i correlati livelli occupazionali, tuttavia il Legislatore ha l'onere di bilanciare i valori costituzionali in gioco.

Tale bilanciamento non è rinvenibile nel caso del c.d. decreto Ilva, dove unico presupposto richiesto per la prosecuzione dell'attività d'impresa è la predisposizione unilaterale di un piano – il quale potrebbe persino essere provvisorio – a opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell'Autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Il Legislatore non ha, dunque, tenuto in adeguata considerazione le esigenze della tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita.

Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta la Consulta a concludere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all'attività d'impresa che , ex art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Si legge a tal proposito nella sentenza che «il Legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.

Lo scrutinio della Corte sulla norma abrogata. L'Avvocatura generale dello Stato aveva eccepito l'inammissibilità delle questioni sollevate per sopravvenuta carenza di interesse determinata dall'abrogazione della disposizione censurata data la non conversione del decreto legge.

I giudici delle leggi hanno dichiarato l'eccezione infondata in ragione del principio già affermato secondo cui: «la norma contenuta in un atto avente forza di legge vigente al momento in cui l'esistenza della norma stessa è rilevante ai fini di una utile investitura della Corte stessa demandato quando quella medesima norma permanga tuttora nell'ordinamento – con riferimento allo stesso spazio temporale rilevante per il giudizio – perché riprodotta nella sua espressione testuale o comunque nella sua identità precettiva essenziale, da altra disposizione successiva».

E, rilevano i giudici, l'anomalo intreccio di interventi normativi che ha interessato la norma censurata deve essere ricostruito nei seguenti termini: «prima della scadenza del termine per la conversione del decreto legge n. 92 del 2015, contenente la disposizione in esame, è sopraggiunta la legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria), che è legge di conversione di altro decreto legge: con una prima disposizione (art. 1, comma 2), essa ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. 92 del 2015 e contestualmente previsto una clausola di salvezza per gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi; nello stesso tempo, con l'art. 21-octies, ha reintrodotto la previsione abrogata, nella sua letterale identità.

Pertanto, la legge 132 del 2015 ha formalmente abrogato e simultaneamente salvaguardato e riprodotto il precetto normativo contenuto nell'impugnato art. 3 del decreto legge 92 del 2015; dunque, la norma introdotta dalla disposizione impugnata ha continuato ininterrottamente a esplicare effetti nell'ordinamento, dalla entrata in vigore del decreto legge impugnato fino a oggi, assicurando una copertura legislativa al protrarsi dell'attività dello stabilimento Ilva di Taranto, compresa quella dell'altoforno, nonostante l'avvenuto sequestro.

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