Manifesta infondatezza del ricorso per cassazione: la regola c'è

30 Marzo 2018

Il tema affrontato dal Supremo Collegio riguarda l'opzione per la declaratoria di manifesta infondatezza dei motivi costituente causa speciale d'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 606, comma 3, c.p.p. e, in particolare, l'identificazione dei criteri che consentano al giudice di formulare il giudizio de quo senza alcun arbitrio o discrezionalità.
Massima

La manifesta infondatezza si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastata da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento, solo per indicare le più frequenti ipotesi di applicazione dell'art. 606, comma 3, secondo periodo, c.p.p. fino a profilare - sul piano funzionale - come costante la pretestuosità del gravame, non importa se conosciuta o no dallo stesso ricorrente.

Il caso

Il tribunale di Rimini ha dichiarato l'imputato colpevole del reato di estorsione, escluse le aggravanti contestate, e lo ha condannato alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed euro 800 di multa, con le statuizioni accessorie, anche in favore della parte civile. In parziale riforma, la Corte di appello di Bologna, con sentenza ha assolto l'imputato «limitatamente alla prima consegna di euro 50.000,00» perché il fatto non sussiste, ed ha conseguentemente ridotto la pena ad anni cinque e mesi due di reclusione ed euro 700 di multa, rideterminando anche le statuizioni accessorie, in favore della parte civile. Contro tale provvedimento, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi, conclusivamente chiedendo «l'annullamento della sentenza impugnata, anche nelle statuizioni civili, con tutte le conseguenze di legge». Perveniva, successivamente, una memoria del difensore del ricorrente nella quale si rappresenta essere intervenuta nelle more la prescrizione del reato.

La questione

Il tema affrontato dal Supremo Collegio riguarda l'opzione per la declaratoria di manifesta infondatezza dei motivi costituente causa speciale d'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 606, comma 3, c.p.p. e, in particolare, l'identificazione dei criteri che consentano al giudice di formulare il giudizio de quo senza alcun arbitrio o discrezionalità.

La questione, osserva la Sez. II, è particolarmente delicata in ragione della possibili implicazioni quanto al rispetto dei principi del processo equo, della presunzione d'innocenza ed, in definitiva, della certezza del diritto, garantiti dall'art. 6, §§ 1 e 2, della Convenzione Edu, ma anche dagli artt. 25, 27 e 111 della Costituzione, che sarebbe astrattamente possibile ritenere violati da un sistema nel quale l'estinzione di un reato per prescrizione dipenda non soltanto dal decorso del tempo e dal susseguirsi degli eventi che possono sospenderla od interromperla, ma anche da una valutazione del giudice sulla manifesta infondatezza del ricorso, in ipotesi arbitraria, se non ancorata a parametri certi e predefiniti. Una tale necessità di fa vieppiù necessaria nel caso in cui ricorra la prescrizione del reato, posto che la ricorrenza della causa di inammissibilità ne esclude la possibile declaratoria. La Sez. II ritiene, opportunamente, che devono essere compiutamente individuati i parametri ai quali il giudice di legittimità deve attenersi ai fini della relativa valutazione.

Le soluzioni giuridiche

Muovendo dalle Sezioni unite 11 novembre 1994, Cresci, in cui (in motivazione) si è affermato che «il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile», che diventa assai impegnativa, proprio perché l'inammissibilità per manifesta infondatezza, secondo l'orientamento in atto dominante, risulta preclusiva del proscioglimento dell'imputato a norma dell'art. 129 c.p.p., la Sez. II opera nella decisione che si commenta una sorta di ricognizione delle ipotesi in cui è previsto un tale parametro. Preso atto che l'intervenuta formazione del giudicato sostanziale, derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati nell'art. 591, comma 1, c.p.p. e, ora, art. 581, comma 1, c.p.p. con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, preclude ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata, sia di rilevarla di ufficio, la Corte si sofferma a distinguere la manifesta infondatezza.

Operata una ricognizione degli altri contesti normativi in cui quel parametro è richiamato (v., oltre all'art. 524, comma 3, c.p.p. 1930; artt. 26 e 29 l. 87 dell'11 marzo 1953 e art. 9 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate il 7 ottobre 2008) e le statuizioni costituzionali (cfr., fra le tante, Corte cost. n. 32 del 1963, n. 37 del 1970 e n. 8 del 1971) in cui si dichiara che è manifestamente infondata la questione che si riveli «ictu oculi priva di ogni consistenza», ovvero che riproponga pedissequamente una questione già dichiarata non fondata in difetto «di nuovi motivi che possano indurre a modificare la precedente decisione»), la Sez. II afferma, in maniera neppure troppo velata, che ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso, il giudice non è chiamato ad una delibazione del tutto discrezionale (e quindi arbitraria) quanto alla infondatezza manifesta dei motivi, ma è tenuto ad operate una valutazione “tecnica”.

Ponendosi in tale linea prospettica il Collegio fornisce, così, dei condivisibili criteri discretivi.

Tale ultima connotazione sarebbe riscontrabile:

a) con riferimento ai motivi che deducano inosservanza o erronea applicazione di leggi, la circostanza che essi risultino, o meno, caratterizzati da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso.

Sotto tale aspetto, il criterio si uniforma a quanto già prospettato dalle Sezioni unite che, nel chiarire il concetto assimilandolo alle altre cause di inammissibilità, sulla scorta della convinzione che anche ad esso sia estraneo ogni scrutinio contenutistico del ricorso, hanno affermato che la manifesta infondatezza si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento (Cass. pen., Sez. unite, 22 novembre 2000, De Luca). Entro tale linea prospettica si colloca la successiva Cass. pen., Sez. unite 22 marzo 2005, Bracale, che ha puntualizzato come la metodica di accertamento della manifesta infondatezza è assolutamente conforme a quella indispensabile per dichiarare le altre cause di inammissibilità previste dall'art. 606, comma 3, c.p.p.

Il merito della decisione in commento è, tuttavia, quello di andare ben oltre quegli approdi, indicando come tale causa (che, chiaramente, non consente di accedere nel merito, pena l'infondatezza) ricorra quando:

  • si invochi una norma inesistente nell'ordinamento;
  • si pretenda di disconoscere l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge; si riproponga una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi.

b) Con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione, purché consentiti (pena l'inammissibilità per violazione della legge) e dotati, ora, della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p., come delineata dalle Sez. unite, 27 ottobre 2016, Galtelli.

Anche in tal caso, in difetto, opererebbe una diversa e tassativa causa d'inammissibilità del ricorso, valorizzando la circostanza che essi muovano, o meno, sul fatto, sullo svolgimento del processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali.

Ciò accade, ad esempio, nel caso in cui il motivo di ricorso attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale.

D'altro canto, la Cassazione ha già desunto che il ricorso per cassazione, la cui definizione presupponga la risoluzione di un problema oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità, non può considerarsi proposto per motivi manifestamente infondati e, come tale, non è inammissibile, sicché non preclude la rilevazione della prescrizione del reato maturata nelle more della sua discussione (Cass. pen., Sez. VI, 11 luglio 2003, n. 35391).

Osservazione

La questione affrontata nella sentenza dalla Sezione II non è certamente nuova ma la decisione si apprezza in quanto, a dispetto di quanto accade normalmente, la Corte affronta il tema riguardante la ricorrenza della manifesta (o mera) infondatezza del ricorso, non tanto ammonendo il ricorrente, come tradizionalmente avviene, anche perché tale inammissibilità speciale è quella di maggiore incidenza statistica (l'ipotesi de qua coprirebbe circa il 44% delle declaratorie di inammissibilità), ma cercando di definire e identificare, al fine di evitare gravi sperequazioni e assicurare la sua prevedibilità, i parametri attraverso i quali identificare il requisito in esame.

Il Collegio non si preoccupa, come tradizionalmente avviene, di porre dei margini all'[ab]uso del mezzo impugnativo ma, mutando, significativamente prospettiva, anche al fine di eliminare ogni discrezionalità selettiva sul punto in capo al giudice, opera una sorta di “ricognizione” delle violazioni ex art. . 606, comma 3 c.p.p.

La sentenza offre delle valide guidelines, desunte, invero, dalla prassi, ma del tutto idonee a fornire il discrimen tra infondatezza e manifesta infondatezza del ricorso, che si fa ancora più necessario alla luce della nuova fisionomia attribuita al vaglio di inammissibilità in Cassazione dalla l. 103 del 2017.

Non casualmente la sentenza prende le mosse dall'approdo raggiunto dalle Cass. pen., Sez. unite., 22 ottobre 2000, De Luca, quale esito di quel movimento giurisprudenziale, condiviso da una parte della dottrina, che ha omologato le annoverate cause d'inammissibilità in vizi originari dell'atto d'impugnazione.

Le Sezioni unite hanno escluso del tutto che il sindacato sulla manifesta infondatezza abbia natura contenutistica, escludendo, in tal modo, ogni sorta di (possibile) “contaminazione” tra due piani distinti, quello del controllo della sussistenza delle condizioni necessarie per la pronuncia di merito e quello della risoluzione del problema di merito (adde, Cass. pen., Sez. IV, 21 gennaio 2004, Tricomi; Cass. pen., Sez. II, 21 aprile 2006, D&G 2006, 29, 51].

Esclusa definitivamente ogni impostazione fin qui coltivata, che ha ritenuto la causa de qua vaga e fievole, tanto più alla ricorrenza della prescrizione o di ogni atra causa ex art. 129 c.p.p., dunque, e venuta meno ogni alternativa inammissibilità-rigetto, manifesta infondatezza-infondatezza che – come premette la decisione in commento, per esplicita ammissione delle stesse Sezioni unite- è un'alternativa “evanescente”- lo sforzo operato dal Collegio della Sezione II è (proprio) quello di compiere un ulteriore passo in avanti, fornendo un utile decalogo, fortemente ispirato da esigenze di certezza in senso obiettivo e di tutela dell'ordinamento (da applicare, fra l'altro, in caso di concorrenza con la prescrizione del reato).

Segnatamente, riassumendo, rientrano in quell'ambito:

a) i motivi che deducano l'inosservanza od erronea applicazione di leggi, la circostanza che essi risultino, o meno, caratterizzati da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso (il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa);

b) i motivi che deducano vizi di motivazione, purché consentiti e dotati, ora, della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p., come delineata dalle Sez. unite, Galtelli (in difetto, opererebbe, infatti, una diversa e tassativa causa d'inammissibilità del ricorso), valorizzando la circostanza che essi muovano, o meno, sul fatto, sullo svolgimento del processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali.

A giurisprudenza vigente, per superare lo sbarramento previsto all'art. 606, comma 3, c.p.p., il ricorso deve, dunque, essere scevro da ogni pretestuosità nel contenuto e possedere una caratura tale da abilitare il giudice a distaccarsi dall'osservanza del precedente.

Si dovrà trattare, dunque, di un overturing ovvero di una fattispecie talmente caratterizzante la questione che consente di superare l'orientamento consolidato del Supremo Collegio.

La condizione della manifesta infondatezza del ricorso non ricorre, infatti, quando l'atto presupponga la risoluzione di problema oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità: il fatto stesso che il motivo consenta di accedere al Collegio Riunito esclude di per sé la ricorrenza di quel vizio. Una tale affermazione vale tanto più alla luce dell'art. 618, comma 1-bis,c.p.p. introdotto dalla l. 103 del 2017.

V'è da chiedersi, peraltro, se quell'ipotesi debba valere anche nel caso in cui il principio di diritto espresso nella motivazione è troppo ampio rispetto ai fatti che ne costituiscono la cornice e la sua applicazione porterebbe ad una decisione impropria, per cui il giudice dovrebbe interpretare il precedente in senso restrittivo, ergo, dichiarare il ricorso inammissibile.

Del pari, è da escludere che il ricorso sia ammissibile quando la questione è già stata risolta dalle Sezioni unite, atteso che, anche in questo caso le differenti impostazioni hanno trovato un loro consolidamento. All'interno di tale opzione dovrebbe fare eccezione l'ipotesi in cui si rilevi un dissenso interno, vale a dire allorché si riscontri che l'estensore non sia lo stesso relatore. Invero, proprio questo caso lascia emergere come, rivitalizzato il valore dell'uniforme applicazione della legge e del precedente, è forse arrivato il tempo di ripensare al giusto valore da assegnare alla dissenting opinion.

Anche il nostro sistema pare configurare, così, delle categorial rule: in presenza di una rule, il giudice deve limitarsi ad accettare se ricorrono le circostanze indicate dalla rule, senza fare riferimento a circostanze ulteriori. Quando se ne discosta è perché vuole modificare la regole (overruling) o distinguere il caso (distinguishing).

Mette conto ricordare, poi, che. come indica una parte autorevole della magistratura, quanto alla censura relativa al vizio di motivazione, occorrerebbe distinguere l'ipotesi del ricorso avverso la doppia conforme: in questa evenienza, una guideline – radicata in una prassi semiufficiale - potrebbe essere quella di inviare il ricorso alla settima sezione, in quanto la conferma in seconde cure della sentenza di primo grado garantisce un grado elevato di probabilità logica del giudizio sul fatto: più alto e diverso è il grado di censura richiesto per l'annullamento per vizio di motivazione di una c.d. doppia conforme.

Operata una tale opportuna distinzione, preso atto del fatto che l'intrinseca capacità dell'atto invalido di accedere davanti al giudice dell'impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolubtio ab instantia, derivante, ora, da precise sequenze procedimentali, ora, dall'ossequio a regole giuridicamente e logicamente compatibili con gli strumenti d'impugnazione, la Corte, posta l'incapacità del ricorso di superare il delineato standard, dunque, di consentire alla Corte di accedere al vaglio della doglianza, conclude escludendo l' applicabilità dell'art. 129 c.p.p., secondo quanto da tempo già prospettato, peraltro, dalle Cass. pen., Sez. unite, 11 febbraio 1995, Cresci da cui ha preso avvio la decisione.

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