Codice Civile art. 6 - Diritto al nome.Diritto al nome. [I]. Ogni persona ha diritto al nome [22 Cost.] che le è per legge attribuito [143-bis, 262, 299, 2292, 2314, 2326, 2563] (1). [II]. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome [XIV2 Cost.]. [III]. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati (2). (1) V. art. 52 l. 1° dicembre 1970, n. 898 e l. 28 marzo 1991, n. 114. (2) V. artt. 84 ss. d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. InquadramentoIl nome è il principale segno identificativo delle persone fisiche in un determinato contesto sociale. La dottrina rimarca tuttavia come il nome, in realtà, non sia l'unico mezzo di identificazione di una persona che ha rilevanza per il diritto, essendo rilevante per l'ordinamento anche l'insieme delle informazioni genetiche propria di ogni individuo – c.d. genoma personale o DNA –, nonché i connotati morfologici, anch'essi propri di ogni individuo, da cui il nome si distingue in quanto dato non biologico né fisico ma bensì sociale, capace quindi di esprimere le coordinate sociali fondamentali di ogni individuo (Lenti, 136). Più in generale, si ammette l'esistenza di un diritto all'identità genetica che, muovendo dalla esigenza di protezione del patrimonio genetico, si specifica nel diritto dell'individuo a conoscere e conservare il proprio patrimonio genetico, preservandolo da eventuali manipolazioni nonché nel diritto all'identità sessuale (sul quale si v. infra), avendo ogni individuo il diritto alla corrispondenza del sesso anagrafico con la propria realtà psico-somatica (Alpa, 256). Il codice civile riconosce la tutela del nome contro abusi ed usurpazioni altrui, in quanto diritto fondamentale dell'uomo, avente ad oggetto l'interesse di ognuno alla propria identificazione nel contesto sociale. Anche la Costituzione (art. 22), peraltro, ha elevato il diritto al nome, e conseguentemente la sua tutela, a principio generale del nostro ordinamento, atteso che «nessuno può essere privato, per motivi politici [...] del nome». Vanno ricordate, poi, le disposizioni della CEDU di cui agli artt. 8 e 14, riguardanti, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di ogni forma di discriminazione. A questo proposito, la dottrina (Alpa -Ansaldo, 407; Bessone, 393) ha osservato che l'inserimento, nel codice civile, della disciplina del diritto al nome segna un passaggio di svolta e di superamento da un lato della tesi privatistica (che vedeva il diritto in chiave strettamente proprietaria) e dall'altro lato della tesi pubblicistica (che riduceva la disciplina del nome alla sola esigenza di distinzione dei consociati), con cui si è voluto rimarcare il carattere fondamentale del diritto, nel senso che ogni persona in quanto tale ha un diritto soggettivo perfetto autonomo ed azionabile al nome, tutelato dall'ordinamento (art. 7 c.c.). Il nome di una persona si compone del prenome, e del cognome, secondo quanto previsto dal comma 2 dell'art. 6, in commento. Precisamente, il prenome è «un metodo di designazione speciale della persona entro il gruppo familiare», mentre il cognome (o nome patronimico) indica «quella parte di nome che è normalmente idonea a richiamare la situazione familiare della persona, la sua appartenenza ad una famiglia» (così De Cupis, 439; per Mazzoni - Piccinni, 183, «il nome è un mezzo di identificazione e di individualizzazione che consiste nell'uso di una serie di parole che designano la persona»). Nel senso che il nome di ciascun soggetto dell'ordinamento è destinato ad assolvere la funzione della sua identificazione, e che il diritto al nome costituisce un rilevante diritto assoluto della persona, la cui tutela risulta garantita sia dal codice civile (artt. 6 e ss.), che dalla Carta Costituzionale (art. 22), si veda T.A.R. Lombardia, Milano, I, n. 7/2011 . Secondo Cass. I, n. 18218/2009 , peraltro, la tutela civilistica del nome e dell'immagine, ai sensi degli art. 6, 7 e 10 c.c. , è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell'immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all'utilizzatore del bene in forza di un contratto di leasing, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell'avente diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l'immagine e la denominazione di un'imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo nell'ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio). Il cognome e la regola del patronimicoSecondo l'art. 29 del d.P.R. n. 396/2000, l'atto di nascita deve recare, tra l'altro, il nome del nato (comma 1), che generalmente viene scelto di comune accordo dai genitori, ovvero, in mancanza, dall'ufficiale dello stato civile (comma 4; quest'ultimo è chiamato ad intervenire anche nel caso di bambini di cui non sono conosciuti i genitori: comma 5). Il cognome, invece, è quello della famiglia del padre, avendo carattere esplicativo dello status familiare del nato. Esso assume rilevanza nel contesto dei rapporti sociali, e vale dunque a distinguere la persona di cui si tratta dagli altri soggetti, non appartenenti al suo nucleo familiare. Se ne desume che il figlio non ha alcun margine di scelta in ordine al proprio nome (Zeno Zencovich, 536, essendogli il nome attribuito dall'esterno, «senza che la sua volontà abbia rilievo o, addirittura, abbia qualche forma di legale espressione»). Di regola, infatti, «Il diritto della persona al nome si acquista — a titolo originario — al momento della nascita in base al rapporto di filiazione» (La Torre, 443). Si tratta, dunque, della tanto discussa regola del patronimico, secondo cui ad ogni persona viene di norma attribuito il cognome del padre (secondo Mazzoni — Piccinni, 194, si tratta non di una norma scritta, ma bensì di «una norma implicita del sistema (e non di una consuetudine), risultante da un'interpretazione sistematica di una serie di disposizioni che regolano altri profili della disciplina del nome»). È quanto, ad esempio, è stato previsto dall'art. 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184 in tema di adozione legittimante (si veda, per l'adozione di maggiorenni, l'art. 299 c.c.). In senso parzialmente diverso dispone l'art. 33, comma 1, d.P.R. n. 396/2000, poi abrogato a seguito del venir meno dell'istituto della legittimazione, secondo cui il figlio legittimato di regola ha il cognome del padre, pur potendo egli scegliere, se maggiorenne alla data della legittimazione, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a sua scelta, quello del genitore che lo ha legittimato (comma 1). Nel caso di filiazione fuori dal matrimonio, provvede l'art. 262 c.c., pesantemente inciso dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, secondo cui il figlio assumerà il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, mentre qualora il riconoscimento sia stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori gli verrà attribuito il cognome del padre. Ivi si assiste, invero, ad un potenziamento della volontà del figlio, ancorché minorenne, ben potendo il figlio stesso mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi. Secondo la dottrina, atteso che l'appartenenza ad una data famiglia comporta l'attribuzione al figlio di un cognome che esterni tale condizione, e cioè la sua discendenza da una determinata coppia, «ogni essere vivente ha diritto non ad un qualsiasi cognome, ma a quel cognome che testimoni il legame con i suoi genitori, con entrambi i genitori o, se si vuole, con ciascuno di essi», e di conseguenza «ciascuno dei genitori ha diritto a che il cognome del figlio testimoni tale legame» (Trimarchi, 36, secondo cui, però, un'applicazione rigorosa del principio di derivazione biologica dovrebbe portare alla regola, ad oggi non recepita nel nostro sistema legislativo, e talvolta finanche avversata in giurisprudenza, del «doppio cognome del figlio, tratto in parte da quello del padre in parte da quello della madre»). In merito al superamento della regola del patronimico, la giurisprudenza ha fornito un contributo fondamentale, soprattutto negli ultimi anni. Già in passato Cass. I, n. 23934/2008 aveva ritenuto, alla luce dei postulati costituzionali, dell'incipiente contrasto giurisprudenziale, dell'evoluzione della coscienza sociale e del costume, della normativa comunitaria ed internazionale e del cd. diritto vivente, di rimettere alle Sezioni Unite o eventualmente alla Corte costituzionale la seguente questione: se sia ancora attuale e legittima la norma consuetudinaria a termini della quale al figlio nato da matrimonio va imposto il cognome del padre anche quando entrambi i suoi genitori avanzino concorde richiesta di attribuire il cognome materno. Secondo il Trib. minorenni Milano, 10 gennaio 2011, il canone della cognomizzazione della prole legittima con il solo patronimico non ha una fonte sicura, e «non sembra più completamente coerente con i mutamenti intervenuti nell'ordinamento nazionale ed internazionale», sicché il giudice di merito ben può fare ricorso in sede di interpretazione sistematica ed adeguatrice al criterio generale ed elastico del c.d. «interesse del minore» (il Collegio dispose la conservazione cognome della madre in aggiunta a quello paterno). Nella giurisprudenza di legittimità, nel medesimo senso, Cass. I, n. 23635/2009, secondo cui nel caso di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall'art. 262 c.c., comma 3 del potere — dovere di decidere su ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all'unico criterio di riferimento dell'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, quale anche rinveniente ai fini dell'attribuzione del cognome di entrambi i genitori dalla pregressa durevole convivenza del medesimo minore con la madre (in termini analoghi si esprime Cass. VI, n. 772/2020). Più di recente, Cass. I, n. 12640/2015, secondo cui l'organo giurisdizionale deve pertanto aver riguardo al modo più conveniente di individuare l'interesse del minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento da parte del padre, ed è chiamato ad emettere, prescindendo da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome dell'uno o dell'altro genitore (nonchè, contrariamente a quanto sostenuto del ricorso, dalle richieste delle parti), un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell'ambito del quale assume rilievo centrale non tanto l'interesse dei genitori, quanto quello del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito. Ne consegue che, oltre che nei casi in cui ne possa derivare un diretto pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del padre, l'assunzione del patronimico con esclusione del cognome materno non può essere disposta quando l'esclusione di detto cognome, ormai naturalmente associato al minore nel contesto sociale in cui egli si trova a vivere, si risolva in una ingiusta privazione di un elemento distintivo della sua personalità. Con la sentenza 7 gennaio 2014 la Corte EDU (Cusan e Fazzo c. Italia), nel condannare l'Italia per violazione delle predette disposizioni normative, ha stabilito che sussiste una violazione dell'art. 14 CEDU, in combinato disposto con l'art. 8 CEDU, da parte di una legislazione nazionale, come quella italiana, che preveda per i figli legittimi la sola iscrizione nei registri dello stato civile con il cognome del padre, senza alcuna possibilità di deroga a favore del cognome della madre, in caso di consenso degli sposi. Per la Corte cost. n. 286/2016, è costituzionalmente illegittimo, in quanto pregiudica il diritto all'identità personale del minore e costituisce contemporaneamente una irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, la norma desumibile dagli artt. 237,262 e 299 c.c., 72 r.d. n. 1238 del 1939 e 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome della madre. In via consequenziale ai sensi dell'art. 27 l. n. 83 del 1953 sono costituzionalmente illegittimi, altresì, l'art. 262, comma 1, c.c. nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, nonché l'art. 299, comma 3, c.c., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell'adozione. La Corte, preso atto che nella famiglia fondata sul matrimonio rimane tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre, ritiene che «siffatta preclusione pregiudichi il diritto all'identità personale del minore e, al contempo, costituisca un'irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell'unità familiare», poiché da un lato la piena ed effettiva realizzazione del diritto all'identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l'affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori, mentre dall'altro lato il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell'art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell'unità familiare, di cui all'art. 29, secondo comma, Cost.; in ogni caso, va rilevato che «in assenza dell'accordo dei genitori, residua la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità». Va anche segnalata la decisione di Corte cost. n. 18/2021 con cui la Corte ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l'acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2,3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Di recente, la Corte Cost. (sent. n. 131/2022) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale: dell'art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui prevede, con riguardo all'ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; della norma desumibile dagli articoli 262, comma 1, e 299, comma 3, c.c., 27, comma 1, l. n. 184/1983 («Diritto del minore ad una famiglia») e 34 Dpr n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, l. n. 127/1997), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; dell'articolo 299, comma 3, c.c., nella parte in cui prevede che «l'adottato assume il cognome del marito», anziché prevedere che l'adottato assume i cognomi degli adottanti, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; dell'articolo 27, comma 1, l. n. 184/1983, nella parte in cui prevede che l'adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l'adottato assume i cognomi degli adottanti, nell'ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l'accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. Nella citata pronuncia viene inoltre rivolto un duplice invito al legislatore. In primo luogo, si rende necessario un intervento finalizzato a impedire che l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome. In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l'interesse del figlio a non vedersi attribuito — con il sacrificio di un profilo che attiene anch'esso alla sua identità familiare — un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ancora la Corte Cost. con sent. n. 135/2023 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 299, primo comma, c. c., nella parte in cui non consente, con la sentenza di adozione, di aggiungere, anziché di anteporre, il cognome dell'adottante a quello dell'adottato maggiore d'età, se entrambi nel manifestare il consenso all'adozione si sono espressi a favore di tale effetto. Va riconosciuta l'importanza, nell'adozione della persona maggiore d'età, della trasmissione all'adottato del cognome dell'adottante, nonché della regola generale dell'anteposizione di quest'ultimo cognome, quale segno identificativo del vincolo adottivo. Tuttavia deve considerarsi lesivo degli artt. 2 e 3 Cost. che, in considerazione degli interessi implicati, l'ordine dei cognomi non possa essere invertito dalla sentenza di adozione, quando sia l'adottando maggiore d'età sia l'adottante si siano espressi in tal senso. L'intervento della Corte Costituzione ha profondamente inciso sulla regola del patronimico, nei riguardi dei figli. La regola del patronimico trova applicazione, anche se in modo attenuato, con riguardo al cognome della moglie, in modo tale che tutti i membri della famiglia abbiano lo stesso cognome. Anche se in materia si è assistito ad una significativa evoluzione del dato normativo verso una maggiore valorizzazione della figura della donna all'interno della famiglia, che oggi, a seguito della riforma del 1975, non sostituisce più il cognome del marito al proprio, ma semplicemente lo aggiunge, «e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze» (art. 143-bis); d'altra parte, in tema di scioglimento del matrimonio, in virtù di quanto disposto dall'art. 156-bis «Il giudice può vietare alla moglie l'uso del cognome del marito quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall'uso possa derivarle grave pregiudizio», il che appunto conferma una maggiore autonomia della donna nella scelta, ed in questo caso nella conservazione, del cognome maritale. Ancora, secondo quanto dispone l'art. 5 della l. n. 898/1970, a seguito dello scioglimento del matrimonio «La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio», salvo che, previa autorizzazione del Tribunale, alla donna che ne abbia fatto richiesta sia stata concessa la conservazione del cognome del marito, sempre che, a tal riguardo, «sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela». Da ultimo, con l. n. 76/2016 in tema di unioni civili, è stato stabilito, all'art. 1 comma 10, che le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile. Si segnala, d'altra parte, che il d.lgs. n. 5/2017 , nel novellare il d.P.R. n. 396/2000 (art. 63, comma 1, lett. g-sexies), ha introdotto la facoltà per gli uniti civilmente di rendere una dichiarazione con la quale, dopo la costituzione dell'unione civile, dichiarano di voler assumere, per la durata dell'unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi o di anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso. In giurisprudenza di merito, per la App. Milano, 9 marzo 2011, anche se l'interesse sotteso alla norma di cui all'art. 5 l. n. 898 del 1970, sulla conservazione «post divortium» del cognome maritale non può intendersi limitato alla sfera professionale, ma deve ritenersi esteso anche ad altri ambiti (come, ad esempio, alla vita ordinaria di relazione od alla sfera morale), non può certamente essere, tuttavia, «meritevole di tutela» l'interesse della ex moglie a mantenere il cognome del marito solo perché essa è così conosciuta da stilisti e gioiellieri: l'interesse «meritevole di tutela» menzionato dalla legge sul divorzio non può esaurirsi nella irrinunciabilità ad un cognome famoso e comunque noto, che faciliti, di per sé, la frequentazione di ambienti mondani o di rango e censo elevati, assicurando notorietà ed agevolazioni confacenti a quelle di una famiglia molto conosciuta, ad esempio nel ramo imprenditoriale; andando in diverso avviso, sarebbe inevitabile ritenere che ogni moglie divorziata dovrebbe poter mantenere il cognome maritale allorché quest'ultimo appartenga ad una famiglia dotata di ampia, positiva notorietà. Di interesse anche la Cass. I, n. 21706/2015, secondo cui la possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica; ne consegue che l'autorizzazione alla conservazione del cognome, come prevista dall'art. 5 l. n. 898 del 1970, costituendo un'ipotesi eccezionale, non può prescindere dal riscontro, da parte del giudice, di un interesse meritevole di tutela sotteso alla richiesta, interesse destinato ad aumentare con il crescere del tempo in cui si sia «indossato» il cognome dell'ex coniuge.
I vincoli pubblicistici alla scelta del nomeLa disciplina normativa ha previsto una serie di vincoli alla scelta del nome da parte dei genitori. In particolare, ai sensi dell'art. 35 del medesimo d.P.R. n. 396/2000, di recente modificato dall'art. 5, comma 2, della l. 10 dicembre 2012, n. 219, «Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere costituito da un solo nome o da più nomi, anche separati, non superiori a tre». L'influsso di carattere pubblicistico, e quindi autoritario, è particolarmente avvertito anche in virtù di quanto previsto dall'art. 34, comma 1, secondo cui «È vietato imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi ridicoli o vergognosi»; tale disposizione ha carattere imperativo, essendo prevista per la sua violazione il promovimento del giudizio di rettificazione da parte del procuratore della Repubblica. E' stato invece abrogato il divieto di imporre nomi stranieri che sono, dunque, consentiti a condizione che siano espressi in lettere dell'alfabeto italiano, con salvezza per i diritti delle minoranze linguistiche. Evidente, in questi casi, l'interesse pubblico a che il nome assurga ad effetto elemento distintivo del soggetto di cui si tratta, e che chiaramente emerge dall'art. 6, comma 1, c.c., secondo cui «Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito». Non a caso, quando il figlio sia nato da genitori ignoti, spetterà all'Ufficiale dello Stato Civile attribuirgli il nome ed il cognome (art. 29 comma 5); lo stesso Ufficiale dello Stato Civile si accerta della verità della nascita mediante l'attestazione di avvenuta nascita ovvero mediante una dichiarazione sostitutiva ex art. 30 comma 3 (art. 29 comma 6). In questo senso, è stato notato in dottrina come il diritto a che ogni individuo abbia un proprio nome risponda alla «essenziale funzione pubblicistica di identificazione e distinzione dei soggetti» (Zeno Zencovich, 536). Fondamentale la Cass. I, n. 20385/2012, in merito ai vincoli pubblicistici imposti ai genitori nella scelta del nome. Secondo la S.C., «Il diritto alla scelta del nome (inteso come comprensivo del prenome e del cognome) diversamente dagli altri diritti fondamentali, caratterizzati dal minimo comune denominatore dell'autodeterminazione, non viene esercitato dal soggetto cui il nome è imposto al momento della nascita o nella sua immediatezza, ma dal genitore o dai genitori che lo riconoscono». Si pone, conseguentemente, il problema di un adeguato bilanciamento del diritto dei genitori alla scelta del nome — secondo preferenze, modelli o tradizioni costituenti il bagaglio culturale familiare di riferimento — ed il rispetto della dignità personale del figlio, nel cui esclusivo interesse deve essere esercitata la responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 316 c.c. Dagli artt. 34, commi 1 e 2, e 35 del citato d.P.R., emerge «la duplice dimensione, individuale e relazionale, della funzione identificativa e distintiva del nome, attraverso il riconoscimento dell'importanza, nella definizione dell'identità personale, del collegamento con il proprio nucleo familiare e il bagaglio culturale, nazionale e geografico che lo determinano». Al riguardo, secondo la S.C., il nome Andrea — che ha una valenza biunivoca, ben potendo essere indifferentemente utilizzato per soggetti femminili e maschili, e quindi di natura sessualmente neutra — «non può definirsi né ridicolo né vergognoso se attribuito ad una persona di sesso femminile, né potenzialmente produttivo di un'ambiguità nel riconoscimento del genere della persona cui sia stato imposto, non essendo più riconducibile, in un contesto culturale ormai non più rigidamente nazionalistico, esclusivamente al genere maschile», sicché la scelta dei genitori di attribuire alla propria figlia di sesso femminile il nome Andrea, alla luce dell'art. 34, comma 2, è del tutto legittima perché non determina alcuno sconfinamento nella lesione della dignità personale. Il diritto al nome come diritto fondamentaleIn dottrina si è discussose il diritto al nome possa essere effettivamente annoverato tra i diritti della personalità. In tal senso, già la dottrina tradizionale (De Cupis, 425; Nuzzo, 304), forniva risposta positiva al quesito. Infatti secondo alcuni il diritto al nome, è un «aspetto particolarmente importante del diritto all'identità personale» (De Cupis, 426, secondo cui, fungendo il nome da segno distintivo della persona, realizza il bene dell'identità personale: «Si può, certamente, parlare di diritto al nome, ma chiaro restando che in tale espressione è implicato semplicemente lo strumento — il nome — del bene — identità personale — che, in effetti, è oggetto del diritto stesso»). In questo senso, il nome, come d'altra parte anche lo pseudonimo e gli altri segni distintivi personali, costituisce una manifestazione del più generale diritto alla propria identità personale (così sempre De Cupis, 427: «il diritto al nome è il diritto volto a tutelare, a proteggere il bene, inerente alla persona, della sua identità, considerato nella sua più importante forma di attuazione: è dunque, per il carattere stesso del suo oggetto, un diritto della personalità»; così anche Lenti, 136). Altra, più attenta, dottrina, insiste sulla distinzione tra identità e segni distintivi della persona, essendovi tra i due una relazione di genere (l'identità) a specie (i segni distintivi, tra cui appunto il nome: così, Bavetta, 953, per il quale, i segni distintivi hanno una funzione meramente strumentale rispetto all'identità). Tale opinione è avversata da coloro i quali, in prospettiva pubblicistica, considerano il diritto al nome semplicemente come un «mezzo di identificazione nell'interesse generale» (Santoro Passarelli, 50), secondo cui, pertanto, il diritto al nome non da luogo, di per sé, ad un diritto soggettivo in capo al titolare, essendo l'art. 6 c.c. solo il presupposto di un diritto alla cessazione del fatto lesivo ed eventualmente al risarcimento del danno. La prima tesi, al contrario, in chiave tipicamente individualistica, predica l'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo al nome (così Messinetti, 355). Ancora, altra parte della dottrina più tradizionale (Nuzzo, 304), ha rinvenuto il fondamento positivo di tale diritto assoluto nell'art. 2 cost., sicché in definitiva «il nome rappresenta una delle diverse manifestazioni possibili della personalità umana, costituzionalmente tutelata dall'art. 2 Cost., che garantisce al singolo la libertà di autodeterminazione nello svolgimento della propria vita individuale e sociale; le uniche restrizioni ammissibili sono quelle derivanti da principi di analogo rango costituzionale» (in senso conforme ad quest'impostazione, che valorizza l'art. 2 Cost., Messinetti, 355). L'inclusione del diritto al nome tra i diritti della personalità costituisce, oggi, un dato acquisito, non più in discussione. La dottrina più recente è pienamente concorde nell'affermare che il diritto al nome sia da annoverare a pieno titolo tra i diritti della personalità (Zeno Zencovich, 537, secondo cui il nome del soggetto è il primo e più importante indicatore della sua identità personale), sicché ad oggi la discussione può dirsi archiviata (così anche Mazzoni — Piccinni, 199, secondo cui «Diritto all'identità personale: è la formula colla quale si qualifica da un lato il diritto al nome quale prototipo della categoria dei diritti della personalità, dall'altro come segno distintivo, come mezzo di individuazione della persona»; più di recente, La Torre, 443: «Non vi è dubbio che il nome rientri nella categoria dei diritti inviolabili, in quanto elemento primario nell'individuazione della persona umana, che ha una principale funzione di identificazione attribuita dalla legge alla persona e tutelata anche nei confronti dello Stato»; così anche Trimarchi, 35). A favore dell'esistenza di un diritto assoluto di personalità — inteso come diritto alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell'uomo come singolo — relativo alla tutela del nome, ex art. 2 Cost., si pronuncia anche la giurisprudenza. Così, già la Corte cost., n. 13/1994, giunse ad affermare che è il nome, in quanto attributo dell'identità personale, che assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione. Più di recente, la Cass. I, n. 20385/2012, secondo cui «Il diritto al nome costituisce una componente essenziale dei diritti fondamentali della persona umana perché rappresenta un elemento costitutivo dell'identità individuale, consentendo un'identificazione immediata e riconoscibile del soggetto che lo porta, da ritenersi un attributo necessario ed ineludibile per lo sviluppo soggettivo e relazionale della personalità (art. 2 Cost.art. 8 CEDU, art. 7Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea)». Ancor più di recente, Cass. I, n. 12640/2015, secondo cui il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona, avente copertura costituzionale assoluta, quale strumento identificativo di ogni individuo. Per il Trib. Modena, II, n. 7981/2015, il diritto al nome è un diritto soggettivo incomprimibile della persona, la quale, tra l'altro, non può sceglierlo al momento della nascita e, una volta attribuito, il nome costituisce il simbolo dell'identità personale: identifica il soggetto nei suoi tratti essenziali e lo fa riconoscere nel contesto di appartenenza. Di recente, secondo il Trib. Vicenza, 16 novembre 2016, il diritto al nome rappresenta uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta Da ultimo, per il Trib. Lecco, 4 marzo 2017, l cognome rappresenta una delle due articolazioni del diritto al nome e la sua funzione è quella di radicare e collegare l'individuo con la propria comunità familiare di appartenenza; anch'esso assume ruolo fondamentale per garantire la certezza della propria identità personale bell'ambito del gruppo familiare di rilevanza sociale, pertanto, il diritto al cognome è considerato, come il nome, diritto costituzionale della persona quale diritto all'identità personale e in quanto diritto alla personalità è inviolabile ai sensi dell'art. 2 Cost. Più di recente, si è affermato che il diritto al nome (art. 6 c.c.) è riconosciuto in quanto il nome è il segno legale distintivo della personalità e tale funzione adempiono i suoi componenti in corrispondenza all'idoneità di ciascuno alla funzione di individuazione nella vita sociale e nel commercio giuridico: il cognome, col designare l'appartenenza alla famiglia, ed il prenome, col completare tale designazione nell'ambito familiare. Ne consegue che la persona fisica ha sempre titolo di rivendicare per sé medesima il nome con il quale è stata individuata e iscritta dai propri genitori negli atti dello stato civile, senza che il cognome del coniuge, ove anche utilizzato in molteplici contesti, possa costituire un fatto causativo del suo indebolimento o della sua perdita, restando l'assolutezza di tale diritto un tratto ineliminabile di esso (Cass. I, n. 34090/2021). Il principio di immutabilità del nomeAbbiamo già detto, per opinione pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza, che il titolare del nome non ha alcuna facoltà di scelta in ordine a tale proprio segno distintivo, essendogli riconosciuto il nome dall'esterno, e viceversa, in applicazione della regola del patronimico, il cognome dovrebbe essere quello del padre. Si tratta del c.d. principio di immutabilità del nome, esplicitato dell'art. 6 comma 3, secondo cui non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati, che rappresenta diretta conseguenza degli interessi pubblicistici alla funzione di identificazione personale che il nome è chiamato ad esplicare, sin dalla nascita (De Cupis, 451, secondo cui il principio di immutabilità, e cioè il divieto di arbitrario mutamento del proprio nome, risponde ad un interesse pubblico «che confluisce con quello privatistico nella disciplina del nome: e tra i due evvi una reciproca integrazione»). Più in generale, si è ritenuto che sussiste un divieto assoluto di mutamento del proprio nome e cognome, sicuramente fondato sull'esigenza pubblica di un'esatta individuazione del soggetto, ed in tal senso dovrebbe ritenersi invalido un atto di autonomia privata, volto a tale mutamento (Dogliotti, 396). A seguito delle profonde modifiche, ad opera dell'art. 6, comma 1, d.P.R. n. 54/2012, ad oggi il principale referente normativo in materia è l'art. 89 d.P.R. n. 396/2000, in virtù del quale «chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l'origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l'ufficio dello stato civile dove si trova l'atto di nascita al quale la richiesta si riferisce» (comma 1), con l'importante precisazione che «In nessun caso può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza» (comma 3); il prefetto a sua volta, valutata la regolarità della procedura, se ritiene la domanda meritevole di tutela, autorizza il cambiamento o la modificazione del nome o del cognome (artt. 90 e 94). Si osserva tuttavia che il d.lgs. n. 5/2017 ha apportato modifiche al d.P.R. n. 396/2000, includendo nell'art. 63, comma 1, lett. g-sexies), la facoltà per gli uniti di rendere una dichiarazione con la quale, dopo la costituzione dell'unione civile, dichiarano di voler assumere, per la durata dell'unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi o di anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso. In generale, per Cons. St. III, n. 5021/2013, l'art. 6 c.c., esprime di massima il favor per la certezza e la stabilità del nome — nel binomio comprensivo del prenome e del cognome — nell'evidente intento di salvaguardare l'interesse pubblico alla certezza di status ed all'agevole individuazione delle persone, pur consentendo al comma terzo “aggiunte e rettifiche al nome nei casi e con le formalità” previste dalla legge ordinaria. Per il T.A.R. Sardegna, Cagliari, I, n. 445/2016, Il legislatore non limita la possibilità di richiedere il cambiamento del nome a ipotesi specifiche, citando a titolo meramente esemplificativo le ipotesi del norme «ridicolo o vergognoso» o capace di «rivelare l'origine naturale» dell'interessato, l'unico ostacolo predeterminato in termini vincolati dal legislatore è rappresentato dal fatto che non può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza. Ancora, il T.A.R. Lombardia, Milano, I, n. 676/2013, ha stabilito che la domanda di mutamento del cognome, oltre che per le cause tassative indicate dalla legge, può essere motivata anche da intenti soggettivi ed atipici, purché meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità e certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale e non può essere respinta per il solo fatto che non vi sia un rapporto di parentela o similare tra l'interessato alla modificazione del cognome e il titolare del cognome. Secondo il T.A.R. Liguria, Genova, I, n. 57/2012, se in generale non può respingersi la domanda di mutamento di cognome per il solo fatto che non vi sia un rapporto di parentela o similare tra l'interessato all'aggiunta del cognome e il titolare del cognome da aggiungere, ciò a maggior ragione vale laddove la domanda sia limitata a chiedere l'aggiunta di un cognome al proprio onde neppure possono evidenziarsi pericoli di generare confusione. Secondo T.A.R. Lombardia, Milano, I, n. 7/2011, è illegittimo, per violazione dell'art. 89 d.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, il decreto con il quale il Prefetto, pronunciando sull'istanza di un cittadino intesa ad ottenere la modifica del suo nome, per assumere un nome identico a quello di un amico defunto verso il quale nutriva un profondo sentimento di affetto e di riconoscenza, l'ha respinta motivando il diniego con la necessità di tutelare l'interesse pubblico a che i nomi rimangano immutati nel tempo. La rettifica del nome a seguito del mutamento dei connotati sessuali In tema di rettificazione del nome a seguito del mutamento del proprio sesso, a tutela del diritto (della personalità) all'identità di genere, dispone l' art. 1, l. 14 aprile 1982, n. 164 , come da ultimo novellato, in virtù del quale la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali. Si ricordi, al riguardo, che ai sensi dell'art. 35 d.P.R. n. 396/2000 , «Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso» dello stesso. Trattasi, quindi, di un'altra eccezione al principio di immutabilità del nome, che ha dato adito a numerose dispute. Si tratta di un vero e proprio diritto della personalità che trova nel diritto al nome ed all'immagine la propria disciplina (Dogliotti, 408; Alpa, 257). Il procedimento è disciplinato dall'art. 31 d.lgs. n. 150/2011 il quale prevede che tali controversie siano assoggettate al “rito ordinario di cognizione”, ponendo così il difficile compito, per l'interprete, di dover coniugale tale norma con il nuovo art. 473 bis c.p.c. – introdotto con il d.lgs. n. 149/2022 – che prevede l'applicabilità del “nuovo” rito ai procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni ed alle famiglie, salvo che la legge disponga diversamente e con le eccezioni in quella sede enunciate (tra le quali non si scorge il procedimento in esame). Il procedimento si conclude con sentenza che, passata in cosa giudicata, autorizza l'adeguamento dei caratteri sessuali mediante trattamento medico-chirurgico ed ordina la rettificazione del sesso – così come risultante nell'atto di nascita – all'ufficiale dello stato civile. All'accoglimento della domanda (con effetto irretroattivo) consegue lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ai sensi dell'art. 3 lett. g) della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (l. div.), a condizione che si proponga la relativa domanda in giudizio. Ai sensi dell'art. 1 comma 26 della l. n. 76/2016 la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso mentre, il successivo comma 27 prevede che alla rettificazione anagrafica di sesso consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, laddove le stesse, unite in matrimonio, abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili. Si ritiene, comunemente, che il giudice abbia discrezionalità contenuta entro limiti molto ristretti, nel senso che: da un lato, l'intervento non potrà essere negato tutte le volte in cui sussista contrasto tra sesso fisico e psicologico; dall'altro lato, l'intervento potrebbe essere negato quando, attraverso una consulenza d'ufficio, si accertasse che i medesimi risultati si potrebbero ottenere attraverso una terapia ormonale (Dogliotti, 422). Va osservato, quanto all'assunzione del nuovo nome, come la legge n. 164 ed oggi l'art. 31 comma 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 non indichi il procedimento necessario. Ora, se è indiscusso che al mutamento di sesso debba corrispondere un nome relativo alla nuova identità sessuale, sono controversi sia il modo attraverso cui ciò debba attuarsi, sia la possibilità di scelta del soggetto coinvolto. Il dubbio in particolare si è posto tra l'utilizzo del procedimento generale di modifica previsto dalle norme sull'ordinamento civile e la possibilità di attribuzione del nome mediante la stessa sentenza che definisce la nuova identità. Appare tuttavia preferibile la tesi secondo cui il mutamento di nome debba pronunciarsi con la medesima sentenza con cui si attribuisce il nuovo sesso e sia lasciata all'interessato una totale libertà di scelta al riguardo, in linea con la dottrina (Alpa-Ansaldo, 417; Dogliotti, 398) e la giurisprudenza di merito (v. Trib. Napoli Nord, Sez. I, 17/11/2016; Trib. Milano, Sez I, 18/5/2017; Trib. Trento 29/9/2017; Trib. Genova, Sez IV, 23/5/2016). Invero, pur in assenza di una apposita previsione normativa nel corpus della legge che disciplina la rettificazione dell'attribuzione di sesso, deve ritenersi che ciò sia ammissibile in quanto normale conseguenza della nuova assegnazione, attesa l'importanza che il nome ha nella individuazione e qualificazione del soggetto come appartenente all'uno piuttosto che all'altro sesso, e che ciò possa operarsi con la sentenza di rettificazione. Ciò è imposto, oltre che da ragioni logiche, anche da ragioni di carattere sistematico, ossia di non far permanere nell'unico atto di stato civile elementi che possano dar luogo ad un'equivoca e contraddittoria interpretazione del carattere sessuale della persona. La rettificazione dell'atto di stato civile a seguito della riassegnazione del sesso deve consentire una completa ridefinizione dei dati anagrafici del soggetto conseguenti a quella modificazione e non limitarsi alla sola nuova attribuzione del carattere, pena, oltre alla già ricordata contraddittorietà dell'atto, una valenza di possibilità discriminatoria o denigratoria del soggetto, sicuramente contraria alla legge del 1982. Un argomento letterale di conferma di tale interpretazione è offerto dalla menzione, nell'art. 5 della legge, al fatto che le attestazioni di stato civile debbono recare la sola indicazione del nuovo sesso e nome, con ciò facendo chiaramente intendere della possibilità di variazione di questo legata alla nuova attribuzione senza che si debba chiedere l'avvio di nuove procedure sicché, data l'assenza di indicazioni di potestà spettanti ad altri organi, tutti i nuovi dati debbono essere disposti dal Giudice che procede. Questa tesi è stata peraltro di recente sposata da Cass., n. 3877/2020, secondo cui in caso di disposta rettificazione della attribuzione di sesso (ai sensi della l. n. 164/1982) il riconoscimento del primario diritto alla identità sessuale sotteso alla disposta rettificazione, rende conseguenziale la rettificazione del prenome, il quale, peraltro, non va necessariamente convertito nel genere scaturente dalla rettificazione, dovendo il giudice tenere conto del nuovo prenome, indicato dalla persona, pur se del tutto diverso dal prenome precedente, ove tale indicazione sia legittima e conforme al nuovo stato. In dottrina, il transessualismo è inteso quale «sindrome caratterizzata dal fatto che un individuo, genotipicamente e fenotipicamente di un sesso determinato, ha la consapevolezza di appartenere al sesso, o meglio al genere opposto» (così Stanzione, 874). Si tratta, in altri termini, di un diritto alla corrispondenza dello status formale – il sesso risultante dall'atto di nascita – alla realtà psico-somatica del soggetto (Alpa, 257) ovvero del diritto ad essere se stessi, nella prospettiva di una compiuta rappresentazione della personalità individuale, in tutti i suoi aspetti ed implicazioni, nelle sue qualità ed attribuzioni; di un diritto alla personalità e alle condizioni che ne garantiscono lo sviluppo in una società, come quella attuale, che sempre più frequentemente espone l'individuo a brutali aggressioni, anche mediante l'utilizzo dei social (Dogliotti, 407). In questo senso, la massima aspirazione del soggetto che avverte un netto distacco tra il sesso anagrafico e la propria identità di genere, è appunto quella di sottoporsi all'operazione di cambio dei connotati sessuali (in tema di operazione di conversione, sempre Stanzione, 874, secondo cui «il mutamento di sesso mediante operazione chirurgica è legittimo se risponde all'interesse del soggetto obiettivamente valutato, tenendo presente che il sesso è la risultante di diverse componenti – biologica, psicologica, sociale – che per di più non sono immutabili, ma costituiscono entità variabili per evoluzione naturale ed ambientale»). L'intera disciplina si basa, dunque, sul consenso dell'interessato a sottoporsi all'intervento ovvero semplicemente alla coincidenza tra sesso anagrafico e quello avvertito, a condizione, tuttavia, che il soggetto sia effettivamente in grado di prestarlo, destando, per altro verso, più di una perplessità il silenzio mantenuto dal legislatore in tema di domande proposte da soggetti minori di età (Dogliotti, 423, secondo cui, alla luce della rinnovata considerazione dell'autonomia del minore, si deve ritenere che egli debba essere quantomeno informato sulla natura, caratteri, finalità dell'intervento e che potrebbe prestare esplicitamente o implicitamente il proprio consenso, ove fosse in grado di farlo). In giurisprudenza, si è discusso circa la necessità del mutamento, per via chirurgica, dei connotati sessuali. La transessualità irreversibile - intesa come situazione in cui un soggetto, pur presentando caratteristiche cromosomiche ed anatomiche di un certo sesso, avverte tuttavia di appartenere al sesso opposto - legittima la persona interessata a chiedere l'autorizzazione per l'adeguamento anatomico del proprio corpo e/o la rettificazione anagrafica alla personalità psico-sessuale effettiva. Tale interpretazione risulta avvalorata dalla sentenza n. 161/1985 della Corte Costituzionale. Afferma, in tale sede, la Corte: “l'esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto, di norma, è indispensabile il ricorso all'operazione chirurgica. (...) Ciò che conta (...) è che l'intervento chirurgico e la conseguente rettificazione anagrafica riescono nella grande maggioranza dei casi a ricomporre l'equilibrio tra soma e psiche”. La Corte, dopo aver affermato che il legislatore ha accolto una concezione di identità sessuale che non conferisce più esclusivo rilievo agli organi sessuali, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale, aggiunge: “… il legislatore ha preso atto di una simile situazione, nei termini prospettati dalla scienza medica, per dettare le norme idonee, quando necessario, a garantire gli accertamenti del caso ovvero a consentire l'intervento chirurgico risolutore e dare, quindi, corso alla conseguente rettificazione anagrafica del sesso”. Deve dirsi, tuttavia, che l'intervento chirurgico volto alla modificazione dei caratteri sessuali primari dell'individuo non è da ritenersi prodromico, e dunque necessario, rispetto alla modificazione degli atti anagrafici. Di recente, il Trib. Mantova, 21 aprile 2017, nel caso di un individuo affetto da distrofia di genere (sotto forma di transessualismo gino-androide), che, sin dall'infanzia, si sentisse di appartenere all'altro sesso, ha statuito che «si è ormai consolidato nella giurisprudenza anche comunitaria, l'orientamento secondo cui non deve ritenersi obbligatorio, ai fini della rettificazione del sesso, l'intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari». Rimane quindi ineludibile un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo, rispetto alle quali il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio, al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona. Nel medesimo senso, T.A.R. Reggio Emilia, n. 435/2017, e Trib. Bari, 11 ottobre 2016, n. 5079 , secondo cui la rettificazione anagrafica dell'attribuzione del sesso è possibile, sul solo riscontro medico-legale del cd. transessualismo primario, anche, quindi, in assenza di un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari al «sesso psichico»; a fortiori, la ridetta rettificazione va considerata possibile, allorché il singolo transessuale intenda far precedere la medesima rettificazione da un apposito intervento chirurgico. Conforme, Trib. Bari, 24 maggio 2016, n. 2829 , per il quale la piena attuazione dei diritti della persona porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l'adeguamento dei caratteri sessuali, sicché la prevalenza della tutela della salute dell'individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico. Questa tesi è stata da ultimo avallata sia dalla giurisprudenza di legittimità che dalla Corte Costituzionale. Nella giurisprudenza di legittimità, sempre in tema di diritto all'identità di genere, come espressione del diritto all'identità personale ( art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU ) e, al tempo stesso, di strumento per la piena realizzazione del diritto alla salute, si veda la Cass. I, n. 15138/2015 , secondo cui la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non può che essere una scelta espressiva dei diritti inviolabili della persona, sacrificabili soltanto se vi siano interessi superiori di carattere collettivo da tutelare espressamente indicati dal legislatore: in questo senso, il silenzio della legge sulla specificazione relativa ai caratteri sessuali da modificare costituisce un indicatore rilevante in ordine all'insussistenza d'interessi collettivi superiori. In materia, è quindi sempre necessario procedere al bilanciamento del diritto all'identità personale e del diritto alla salute con una prevalenza del secondo sul primo, purché in presenza di una diagnosi di disforia di genere e di una modificazione certa dei caratteri sessuali secondari attraverso interventi di chirurgia estetica e terapie ormonali. Sul tema, di recente, Cass. I, n. 3877/2020 , secondo cui in caso di disposta rettificazione della attribuzione di sesso (ai sensi della l. n. 164/1982 ) il riconoscimento del primario diritto alla identità sessuale sotteso alla disposta rettificazione, rende conseguenziale la rettificazione del prenome, il quale, peraltro, non va necessariamente convertito nel genere scaturente dalla rettificazione, dovendo il giudice tenere conto del nuovo prenome, indicato dalla persona, pur se del tutto diverso dal prenome precedente, ove tale indicazione sia legittima e conforme al nuovo stato (nella specie la S.C., in applicazione del principio che precede, ha disposto che unitamente alla rettificazione del sesso da maschile fosse riportato il prenome Alexandra in luogo di Alessandro). Nella giurisprudenza della Corte cost., fondamentale la sent. n. 221/2015, con cui – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell' art. 1, comma 1, l. 14 aprile 1982, n. 164 , per violazione degli artt. 2, 3, 32, 117, comma 1, Cost. , quest'ultimo in relazione all' art. 8 CEDU , in quanto prevede la necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell'attribuzione di sesso, dell'intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti clinici altamente invasivi – si è tentata una interpretazione correttiva del dato normativo in esame, statuendo che la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l'adeguamento dei caratteri sessuali. Si veda anche la sent. della Corte Cost. n. 180/2017 che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), in quanto l'interpretazione costituzionalmente conforme della legge citata consente di escludere che la rettificazione di attribuzione di sesso sia condizionata dal requisito dell'intervento chirurgico di normoconformazione, il che non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso, non solo della serietà e univocità dell'intento, ma anche dell'intervenuta oggettiva transizione dell'identità di genere. Al riguardo deve essere ulteriormente precisato che ai sensi dell' art. 1 l. n. 76/2016 , in tema di unioni civili, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso (comma 26); inoltre, alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso (comma 27). Tra le prime decisioni in merito, si segnala il Trib. Lecco, 4 aprile 2017 , secondo cui – premesso che il nome ed il cognome di una persona sono un elemento costitutivo della sua identità personale, della sua dignità e della sua vita privata, la cui tutela è garantita non solo dalle norme del nostro ordinamento, ma anche dalle norme sovranazionali – in forza dell' art. 1, comma 10, l. n. 76/2016 e dell' art. 4, d.P.C.M. n. 144/2016 , in esecuzione dei suddetti principi generali, è consentito ad una coppia unita civilmente di modificare, anche ai fini anagrafici, il proprio cognome, ovvero anche di trasmettere il doppio cognome alla precedente figlia di un partner della coppia. Pertanto «l' art. 3, comma 8 del d.lgs. n. 5/2017 nella parte in cui ha disposto che l'ufficiale dello Stato Civile annulli le annotazione effettuate in esecuzione del d.P.C.M. n. 144/2016 si pone in contrasto con i principi del diritto comunitario sopra richiamati e che tanto è sufficiente per giustificare la disapplicazione del citato art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 5/2017 »; ciò perché, essendo il giudice nazionale tenuto al rispetto del principio del primato del diritto dell'Unione, egli deve disapplicare, di propria iniziativa, una disposizione legislativa nazionale, anche posteriore, che egli ritenga contraria allo stesso diritto UE, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Diritto internazionale privatoLa l. n. 218/1995 (legge di riforma del diritto internazionale privato) detta i criteri per l'individuazione della legge applicabile con riguardo ai diritti della personalità e, quindi, anche del diritto al nome (cfr. l'art. 24 l. n. 218/1995). La citata disposizione prevede che l'esistenza ed il contenuto dei diritti della personalità sono regolati dalla legge nazionale del soggetto; tuttavia i diritti che derivano da un rapporto di famiglia sono regolati dalla legge applicabile a tale rapporto. Ne consegue che la legge nazionale del soggetto o la legge regolatrice del rapporto di famiglia (se il diritto deriva da tale rapporto) saranno i criteri da seguire nelle questioni di diritto internazionale privato. Ancora una volta, si assiste ad una deroga alla regola della legge nazionale: per i diritti della personalità che derivano da rapporti familiari troverà applicazione il criterio della legge regolatrice del rapporto cui ineriscono (lex causae). La norma tuttavia, all'ult. comma, prevede che le conseguenze della violazione di tali diritti sono regolate dalla legge applicabile alla responsabilità per fatti illeciti, e quindi dai criteri desumibili dall'art. 62. BibliografiaAlpa, Manuale di diritto privato, XII ed., Milano 2023; Alpa - Ansaldo, Le persone fisiche, in Comm. S., Milano, 2013; Autorino - Stanzione, Attribuzione e trasmissione del cognome. Profili comparatistici, in Comparazione e diritto civile, Annali 2010-2011, I, 251 ss.; Bavetta, voce Identità (diritto alla), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 953; De Cupis, I diritti della personalità, IV, in Tr. C. M., Milano, 1982; Di Ciommo, Diritti della personalità tra media tradizionali e avvento di internet, in Comandé, Persona e tutele giuridiche, Torino, 2003, 3; Dogliotti, Persone fisiche. Capacità, status, diritti, vol. 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