Codice Civile art. 54 - Limiti alla disponibilità dei beni.

Luca Stanziola

Limiti alla disponibilità dei beni.

[I]. Coloro che hanno ottenuto l'immissione nel possesso temporaneo dei beni non possono alienarli, ipotecarli o sottoporli a pegno, se non per necessità o utilità evidente riconosciuta dal tribunale.

[II]. Il tribunale nell'autorizzare questi atti dispone circa l'uso e l'impiego delle somme ricavate.

Inquadramento

L'articolo in commento – esattamente come l'art. 52 c.c. – è posto a tutela dell'assente, e in particolar modo del suo interesse a che il proprio patrimonio, nelle more della sua assenza, ed in previsione del suo ritorno, non venga depauperato da terzi.

D'altro come, come già osservato, la norma in commento ha fornito un utile spunto alla teoria che nega che con l'assenza si produca un fenomeno successorio.

Quanto, specificamente, al disposto dell'art. 54, è ivi previsto che coloro che sono concretamente immessi nel possesso temporaneo dei beni non possono liberamente disporne, se non con provvedimento autorizzativo del Tribunale.

In particolare, la norma vieta agli immessi di vincolare i beni in garanzia – con alienazione, pegno o ipoteca – se non per necessità o utilità evidente. Il requisito della evidente necessità o dell'utilità è rimesso al sindacato giurisdizionale, essendo il tribunale in ipotesi chiamato a pronunciarsi sulla richiesta autorizzazione al compimento di tali atti, nonché relativamente all'impiego della somma eventualmente ricavata.

L'istanza va proposta dall'immesso (o dagli immessi, se sono più di uno) al tribunale che provvede ex art. 737 c.p.c., in analogia peraltro con quanto disposto dall'art. 474 c.p.c. e dall'art. 320 c.c. in tema di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione compiuti dai genitori nell'interesse del figlio minore.

Atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione.

Ora, l'elenco contenuto nell'art. 54 c.c., per opinione unanime, non è affatto tassativo, ma meramente esemplificativo (Santarcalgelo, 106; Romagnoli, 288; Dogliotti, 456).

Ed infatti, la portata applicativa della norma non può essere limitata agli atti espressamente ivi indicati, dovendo l'art. 54 essere interpretato in senso lato, in modo da farvi confluire al suo interno ogni altro atto di straordinaria amministrazione.

L'art. 54 c.c. andrebbe quindi inteso come segue: è fatto divieto agli immessi nel possesso temporaneo dei beni di compiere qualsiasi atto di straordinaria amministrazione che possa limitarne in modo definitivo il libero godimento per l'ipotesi in cui l'assente faccia ritorno, salvo che non ricorra la necessità o utilità evidente (nei confronti dell'assente).

Le ragioni di utilità o di necessità che eccezionalmente consentono il compimento degli atti di disposizione eccedenti l'ordinaria amministrazione devono essere valutate esclusivamente con riguardo alla persona dell'assente e del suo patrimonio, con conseguente mortificazione dei bisogni personali dell'immesso, che non può perciò disporre liberamente dei beni di suddetto patrimonio (per Romagnoli, 289, sono quindi ammessi gli atti di ordinaria amministrazione nonché, più in generali, tutti gli acquisti funzionali alla corretta gestione del patrimonio momentaneamente relitto).

Il discrimine, quindi, tra atti dispositivi che non richiedono autorizzazione alcuna, ed atti vietati, o quantomeno limitati alla ricorrenza della necessità o utilità evidente per il patrimonio dell'assente, sta nella distinzione, di derivazione giurisprudenziale, tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione.

Così, rifacendosi alla tradizione impostazione della giurisprudenza, in assenza di un valido criterio orientatore da parte del legislatore devono intendersi di «straordinaria amministrazione» tutti quegli atti di maggiore rilevanza patrimoniale, capaci cioè di incidere pesantemente sul patrimonio, mutandone la consistenza originaria.

In generale, Cass., III, n. 7546/2003 secondo cui, in relazione alla natura e agli effetti dell'atto in relazione all'esigenza della conservazione del patrimonio amministrato, sono atti di ordinaria amministrazione quelli che tendono alla conservazione del patrimonio o al miglioramento della sua capacità produttiva (proprio in quanto per essere di ordinaria amministrazione non possono alterare l'integrità del patrimonio); sono atti di straordinaria amministrazione quelli che comportano un mutamento della essenza economica o della situazione giuridica dei vari elementi che formano la composizione base del patrimonio amministrato (come ad es. la riscossione e l'impiego dei capitali; ovvero l'alienazione e l'acquisto di beni immobili). Così, più di recente, anche il Trib. Roma, 9 settembre 2013, secondo cui Vanno inquadrati tra gli atti di ordinaria amministrazione che ex art. 320 c.c. non richiedono l'autorizzazione del giudice tutelare quelli che si limitano a conservare, fruttificare e a migliorare il patrimonio dell'amministrato, tra di essi includendovi l'azione di risarcimento danni poiché diretta a migliorare il patrimonio del minore; sono, invece, da considerare di straordinaria amministrazione gli atti che incidono sul patrimonio modificandone entità e consistenza.

Per il Trib. Trani 14 maggio 2014, va al riguardo adottato il criterio economico della maggiore o minore importanza patrimoniale degli atti stessi, incentrato sulla natura e intensità degli effetti dell'atto sul patrimonio dell'amministrato, in base al quale devono essere inquadrati tra gli atti di ordinaria amministrazione gli atti che si limitano a conservare, fruttificare e a migliorare il patrimonio dell'amministrato; al contrario, sono atti di straordinaria amministrazione quelli che incidono sul patrimonio modificandone entità e consistenza.

La dottrina si richiama a concetti non predeterminati, nel senso che «non un atto oggettivamente considerato può essere di ordinaria o straordinaria amministrazione, ma un determinato atto in relazione ai fini economici cui è diretto, all'entità del patrimonio, alla natura e agli scopi della persona rappresentata» (Lojacono, 158 ss.)

Atto di straordinaria amministrazione compiuto senza autorizzazione.

Si discute in dottrina se l'atto di straordinaria amministrazione compiuto in assenza della necessaria autorizzazione sia inefficace, nullo ovvero annullabile.

Ancorché taluni hanno preferito parlare di nullità, o meglio di inefficacia dell'atto privo della necessaria autorizzazione, richiamandosi in particolare alla disciplina dettata in tema di falsus procurator ( art. 1398 c.c. ; Santarcangelo, 107), altri ritengono che l'atto posto in essere in assenza di autorizzazione semplicemente annullabile, per incapacità del contraente, in applicazione analogica delle disposizioni dettata in tema di interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno per i casi analoghi a quello qui in esame (cfr. gli artt. 377, 378, 412 e 427; Romagnoli, 294), sul presupposto secondo cui la posizione dell'immesso sia equiparabile a quella del rappresentante dell'incapace ex artt. 322 e 377 c.c. (Dogliotti, 457).

 In questo senso, Cass. II, n. 2725/1993, che ha ritenuto che la norma di cui all'art. 1442 comma 2 c.c. – secondo la quale, qualora l'annullabilità di un contratto dipende da incapacità legale di uno dei contraenti, l'azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni decorrente al giorno in cui è cessato lo stato d'interdizione (o d'inabilitazione) –, da leggere in combinato disposto con gli artt. 1425 e 1443 c.c., si riferisca non soltanto al caso in cui il contratto sia stato stipulato direttamente dall'incapace, ma anche a quello in cui il contratto sia stato concluso dal rappresentante legale senza le necessarie autorizzazioni degli organi tutelari prescritte dalla legge per il compimento, in nome del minore, di alcune categorie di atti giuridici, ricorrendo anche in questo caso, caratterizzato, come il primo, da un vizio dell'atto determinato dalla sua stipulazione senza le garanzie previste alla legge nell'interesse dell'incapace, l'esigenza di tutela di questo soggetto agli effetti negativi dell'inerzia del tutore.

Sebbene dunque il secondo comma dell'art. 1442 c.c. si riferisca espressamente al contratto concluso dall'incapace, la S.C. ne predica una lettura estensiva anche al contratto sottoscritto dal tutore senza l'autorizzazione prescritta dagli artt. 375 e 424 c.c.

Prendendo dunque le mosse dall'orientamento espresso dalla S.C., può concludersi nel senso che, nel caso in esame, l'atto posto in essere in assenza della prescritta autorizzazione è da ritenersi affetto dal vizio dell'annullabilità per incapacità a disporre, con tutte le conseguenze che ne discendono.

Non è certamente un caso, d'altra parte, che la norma rimetta al Tribunale il potere di autorizzare l'atto dispositivo alla necessità o utilità evidente dello stesso, con espressa previsione in ordine al reimpiego delle somme ricavate.  

Bibliografia

V. sub art. 50 c.c.

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