Codice Civile art. 418 - Poteri dell'autorità giudiziaria.Poteri dell'autorità giudiziaria. [I]. Promosso il giudizio d'interdizione, può essere dichiarata anche d'ufficio l'inabilitazione per infermità di mente [415]. [II]. Se nel corso del giudizio d'inabilitazione si rivela l'esistenza delle condizioni richieste per l'interdizione, il pubblico ministero [69 c.p.c.] fa istanza al tribunale di pronunziare l'interdizione, e il tribunale provvede nello stesso giudizio, premessa l'istruttoria necessaria [40 att.]. [III]. Se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l'amministrazione di sostegno, il giudice, d'ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente per l'interdizione o per l'inabilitazione può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell'articolo 405 (1). (1) Comma aggiunto dall'art. 6 l. 9 gennaio 2004, n. 6. InquadramentoLa dottrina ravvisa la ratio delle disposizioni contenute nell'art. 418 in esigenze di economia di giudizi. Le finalità comuni all'interdizione e all'inabilitazione, di protezione del soggetto incapace, consentono che possa essere mutato il provvedimento finale del giudice, rispetto a quello inizialmente richiesto, senza che si verifichino innovazioni non consentite nel procedimento o discordanti rispetto alle volontà espresse dai richiedenti. Tanto è consentito quanto, a vantaggio dell'incapace, sussistono le condizioni perché sia lo stesso giudice a disporre, d'ufficio, la scelta di un provvedimento meno riduttivo della capacità di agire del soggetto esaminato. L'unica condizione posta dalla normativa riguarda il passaggio inverso, dalla richiesta di inabilitazione a quella di interdizione: poiché questa è maggiormente invasiva, e più radicale di quella domandata con il ricorso introduttivo, si richiede che sia il pubblico ministero ad assumere la veste di soggetto richiedente. Per il principio della domanda, mentre è consentita, in osservanza di questo principio, una pronuncia di contenuto ridotto rispetto al domandato, occorre che un soggetto solleciti al giudice una pronuncia che, senza una apposita istanza, condurrebbe il giudice a decidere ultra petita. La norma citata indica come soggetto legittimato il solo pubblico ministero (a differenza di quanto è disposto nel comma ultimo, che menziona anche l'istanza di parte). Cass. n. 2704/1995 ha affermato che, ove sia in corso un giudizio diretto alla pronuncia dell'inabilitazione, il giudice non può, per il principio della domanda, pronunciare d'ufficio l'interdizione dell'incapace, ancorché le emergenze istruttorie dimostrino la sussistenza delle relative condizioni, in mancanza di una espressa richiesta in tal senso formulata dal pubblico ministero o da uno degli altri soggetti legittimati a proporre la stessa domanda; né una siffatta domanda di interdizione, non presentata in primo grado, può essere proposta per la prima volta in appello, per il divieto del novum nel giudizio di secondo grado posto dall' art. 345 c.p.c. Se nel giudizio di interdizione si ravvisano gli estremi per l'applicazione della sola inabilitazione per infermità di mente, questa può essere direttamente pronunciata dal giudice adito, in una sorta di riduzione lecita del petitum. L'inabilitazione può essere dichiarata soltanto per infermità di mente, che è l'unica circostanza in fatto comune all'interdizione, originariamente domandata. Quando, come sopra si è riferito, si accerta che nel giudizio di inabilitazione ricorrono gli elementi per pronunciare l'interdizione, questa è dichiarata nel medesimo procedimento. La precisazione non era forse necessaria ma ribadisce l'esigenza dell'unicità della procedura pur se l'iniziativa deve essere assunta nel suo corso dal pubblico ministero e pur se si rendono necessarie acquisizioni informative relative al mutato quadro della possibile interdizione. Il terzo comma dell'art. 418 è stato aggiunto dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6, per provvedere al necessario collegamento tra l'istituto dell'amministrazione di sostegno da essa introdotto e gli istituti di protezione degli incapaci in allora già regolati dal codice civile. Il legislatore è pervenuto a considerare le situazioni che possono fondare gli interventi dell'amministrazione di sostegno, dell'interdizione e dell'inabilitazione quali eventualità di fatto e sostanzialmente almeno in larga parte sovrapponibili; e nelle quali ciò che assume rilevanza non è tanto la maggiore o minore gravità delle infermità o delle condizioni soggettive minorate ma l'opportunità di scegliere tra i detti istituti quello più confacente a risolvere le difficoltà dell'incapace. Si imponeva, dunque, una disposizione che prevedesse anche il caso nel quale, pendente il giudizio per l'interdizione o per l'inabilitazione, si evidenziasse la convenienza di applicare la semplice forma di ausilio fornita dall'amministrazione di sostegno. In questo caso, profilandosi la competenza di un altro organo giudiziario (non più il tribunale ma il giudice tutelare), il giudice adito trasmette gli atti all'ufficio competente. Perché non si verifichi una vuota situazione di stallo, è disposto che il giudice a quo possa ordinare i provvedimenti urgenti per la cura della persona nonchè per la conservazione e per l'amministrazione del suo patrimonio che sono consentiti nel corso della procedura di amministrazione di sostegno, qualora ne sussista la necessità, ai sensi dell'art. 405 c.c. Rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, l'amministrazione di sostegno è misura che non incide sulla capacità di agire e che assume contenuto meno invasivo per il destinatario. Per questa ragione la legittimazione a chiederne l'applicazione, quando se ne rivela l'opportunità nel giudizio per interdizione o per inabilitazione, non è limitata al P.M. ma è estesa a tutti coloro che potrebbero domandare l'interdizione o l'inabilitazione. Il maggior ambito della loro legittimazione ricomprende il potere di chiedere, anziché la modifica di uno status, il ricorso ad uno strumento di semplice affiancamento ed assistenza. Mentre si concorda nell'affermare che il giudice tutelare resta libero di provvedere oppur no alla pronuncia dell'amministrazione di sostegno, si controverte sulla individuazione del «giudice dell'interdizione o dell'inabilitazione» cui spetta di trasmettere gli atti del procedimento: nel senso di stabilire se esso debba essere il tribunale, organo decidente, o possa essere anche il solo giudice istruttore. In questo secondo senso si esprime chi coglie argomento dal riferimento testuale al «corso del giudizio» che si legge nell'ultimo comma dell'art. 418. Per altri studiosi questo riferimento non è decisivo in quanto è immediatamente contraddetto dal tenore letterale della medesima disposizione, per la quale il potere di disporre i provvedimenti urgenti è affidato al giudice competente per l'interdizione o per l'inabilitazione: che altri non può essere se non il tribunale collegiale. Inoltre, si fa rilevare che nella disposizione di cui all'art. 429 c.c., regolatrice di una fattispecie analoga (il passaggio dal procedimento di revoca dell'interdizione a quello dell'amministrazione di sostegno) è chiaramente specificato che la trasmissione del procedimento è effettuata dal tribunale. La normativa utilizza il termine «trasmissione» riferito al procedimento, che parte della dottrina reputa improprio, in quanto presso il giudice tutelare deve essere aperto un nuovo fascicolo e si apre un procedimento nuovo. In realtà, quella espressione vuol far intendere che prosegue, attraverso la trasmissione degli atti, il procedimento che era stato intrapreso, così che, ad esempio, rimangono utilizzabili le informazioni acquisite nell'ambito delle ragioni esposte dall'originario ricorrente. Ne segue che la trasmissione degli atti può essere effettuata anche dal solo giudice istruttore, posto che nessuna decisione di chiusura del processo deve essere adottata. Ove, per contro, si ritenesse che il passaggio al giudice tutelare implica la chiusura della procedura dinanzi al tribunale e l'apertura di un processo nuovo, sarebbe giocoforza concludere che l'atto trasmissivo compete al tribunale. La questione relativa a questa prosecuzione del procedimento, piuttosto che alla sua conclusione dinanzi al tribunale, preliminarmente a quello da svolgersi dinanzi al giudice tutelare, ha diviso gli studiosi. Ci si è chiesti se occorra un formale provvedimento che dia atto della cessazione del processo presso il tribunale (vale a dire, la sentenza) o se sia sufficiente l'ordinanza che rimette gli atti al giudice tutelare. In proposito anche la magistratura di merito si è pronunciata con decisioni contrastanti. Per il Trib. Cagliari 19 gennaio 2005, (in Giur. it., 2005, 2133) la trasmissione degli atti al giudice tutelare configura un semplice mutamento del rito e davanti a tale giudice il procedimento semplicemente prosegue, nelle forme dell'amministrazione di sostegno. Lo stesso tribunale ha precisato che non deve essere pronunciata una sentenza e che degli atti deve essere disposta la trasmissione a mezzo di una ordinanza. In senso contrario si è pronunciato il Trib. Bologna 11 luglio 2005, in Foro it., 2005, I, 3482; Trib. Bologna 8 marzo 2005, in Giur. it., 2005, 2133) per il quale, quando nel corso del giudizio di interdizione appare opportuno applicare la misura dell'amministrazione di sostegno, il tribunale, in composizione collegiale, rigetta con sentenza la domanda di interdizione e dispone, con separata ordinanza, la trasmissione di copia degli atti al giudice tutelare. L'assunto del tribunale è che il giudizio di interdizione deve chiudersi sempre con una sentenza, anche per garantire a chi sia legittimato la possibilità di proporre l'impugnazione. In questo modo il procedimento di interdizione assume caratteristiche formali e viene completamente separato da quello demandato al giudice tutelare. Il tribunale si pone come fonte di semplice notizia per l'altro giudice; al quale trasmette gli atti con un atto che tiene vece e luogo del ricorso del singolo interessato. L'art. 418 ultimo comma ha costituito oggetto della rimessione alla Corte costituzionale della questione della sua legittimità, sotto il profilo dell'irragionevolezza della disciplina posta da esso e dall'art. 413 c.c. Si assumeva che queste norme, in quanto affidano ad organi diversi (il tribunale e il giudice tutelare) le istanze di protezione dei soggetti «deboli», non prevedono modalità di soluzione di eventuali divergenze tra tali organi. La Corte ha dichiarato infondata la questione ed erroneo l'assunto del giudice rimettente, di denuncia di assenza di norme di composizione dei possibili conflitti tra gli organi giudiziari. I provvedimenti di costoro sono impugnabili (rispettivamente, con il reclamo avverso il decreto del giudice tutelare e con appello alla corte di appello avverso la sentenza del tribunale): il meccanismo dell'impugnazione, si è affermato, costituisce la sede naturale per la soluzione dei contrasti paventati; e il coordinamento tra i due uffici è assicurato dagli artt. 413, quarto comma, e 418, terzo comma (Corte cost. n. 440/2005). La disposizione in commento è stata conservata dalla riforma del processo civile di cui al d.lgs. n. 149/2022. BibliografiaAmadio, Macario, Diritto di famiglia, Milano 2016; Bartolini, La riforma del processo civile, Piacenza, 2023, p. 98; Bianca, Diritto civile, I, Milano, 2002; Bonilini, Manuale del diritto di famiglia, 10° ediz. 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