Legge - 19/02/2004 - n. 40 art. 9 - (Divieto del disconoscimento della paternità e dell'anonimato della madre).

Marzia Minutillo Turtur
aggiornato da Francesco Bartolini

(Divieto del disconoscimento della paternità e dell'anonimato della madre).

Art. 9.

1. Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, nè l'impugnazione di cui all'articolo 263 dello stesso codice (1).

2. La madre del nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396.

3. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi (2).

(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 10 giugno 2014, n. 162  (in Gazz.Uff., 18 giugno, n. 26), ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del presente comma, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3».

(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 10 giugno 2014, n. 162 (in Gazz.Uff., 18 giugno, n. 26), ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del presente comma, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3».

Inquadramento

La materia dello stato giuridico del nato a seguito di PMA già prima dell'entrata in vigore della l. n. 40/2004 aveva determinato diversi orientamenti e considerazioni in ordine alla disciplina applicabile. Da una parte chi riteneva implicito, considerato il silenzio del legislatore, il richiamo all'applicazione delle norme in materia di filiazione, dall'altra chi riscontrava una vera e propria lacuna da riempire considerando i concetti emergenti di genitorialità sociale, con una riflessione ampia relativa al favor veritatis. Era emerso un atteggiamento ambiguo del legislatore e il mancato chiarimento, quanto alla disciplina da applicare al nato a seguito di PMA, rendeva in concreto complicato anche giuridicamente accedere a tali tecniche.

Occorre richiamare la recente decisione della Corte cost. n. 230/2020 . Il caso che ha portato alla pronuncia della Corte era relativo alla situazione di due donne, unite civilmente, che congiuntamente e con consenso reciproco, decidevano di accedere ad un trattamento di procreazione medicalmente assistita all'estero, dalla quale conseguiva la nascita di un bambino, sicché veniva formulata istanza affinché venissero registrate entrambe come madri nell'atto di nascita del minore. L'ufficiale dello Stato civile rifiutava la doppia iscrizione e annotava soltanto il nome della madre biologica.

La questione di legittimità è stata sollevata dal Tribunale di Venezia in relazione all'art. 1, comma 20,  l. n. 76/2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell'art. 29, comma 2,  d.P.R. n. 396/2000 e successive modificazioni (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'art. 2, comma 12, l. 127/1997), in riferimento agli artt. 2, 3 commi 1 e 2, 30 e 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24, par. 3 della Carta dei diritti Fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE), agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)  alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. È stata considerata dal Tribunale in particolare la disposizione dell'art. 1, comma 20, l. n. 76/2016 nella parte in cui prevede la tutela delle coppie di donne unite civilmente come circoscritta ai soli diritti e doveri nascenti dall'unione civile, nonché la previsione dell'art. 29 comma 2 d.P.R. n. 396/2000, che consente di indicare come tale solo il genitore legittimo o quelli che hanno dato il consenso ad essere nominati, sicché si devono ritenere escluse le donne unite civilmente tra loro, che hanno fatto ricorso a procreazione medicalmente assistita in paese estero. L'analisi del Tribunale ha evidenziato come tale cornice legislativa di fatto preclude la genitorialità (d'intenzione) alle coppie omosessuali in generale e nel caso concreto a due donne unite civilmente. Il diritto alla genitorialità viene considerato, nell'analisi del Tribunale nell'ambito dell'ordinanza di rimessione,  quale diritto fondamentale dell'individuo, sia singolarmente che nelle formazioni sociali nell'ambito delle quali si esplica la sua personalità. Il giudice rimettente, quanto alla rilevanza della questione richiama, inoltre l'art. 3 Cost., primo e secondo comma, evidenziando come tale situazione di fatto porterebbe alla legittimazione di un'effettiva disparità di trattamento, evidentemente concentrata sull'orientamento sessuale e sul reddito, poiché  si realizza un vero e proprio privilegio in favore di chi dispone di mezzi economici per concepire, ma anche per far nascere un figlio all'estero (mediante il c.d. turismo procreativo per poi formulare istanza per la trascrizione dell'atto di nascita straniero in Italia); e si incide irrimediabilmente sul futuro nascituro, creando una discriminazione basata sulla relazione affettiva esistente tra i genitori, perché a carattere omosessuale. L'ordinanza di rimessione richiama l'art. 30 Cost., non potendosi in tal modo ritenere rispettato il principio di tutela della filiazione. Un dato di centrale rilevanza, nella considerazione della ordinanza di rimessione è rappresentato dall'incidenza del progresso scientifico, e se, dunque, le nuove tecniche consentono una evoluzione del diritto dei singoli a realizzarsi, a prescindere dal proprio orientamento sessuale, come formazione sociale, sarebbe necessario considerare la filiazione non come mero status, ma come vero e proprio diritto pretensivo, che non può essere limitato se non in presenza e in considerazione di interessi considerati preminenti dal legislatore. Un'ultima argomentazione, quanto alla rilevanza della questione, viene spesa  con riferimento all'art. 117 Cost., richiamando anche l'art. 24, par. 3 della Carta dei diritti Fondamentali dell'Unione Europea, nonché gli artt. 8 e 14 della CEDU e la Convenzione sui diritti del fanciullo, in tal senso sottolineando come, in applicazione di una evidente interpretazione evolutiva il matrimonio e la famiglia basata su persone di sesso diverso non rappresentano un discrimine essenziale nella costituzione del rapporto tra genitori e figli. L'intenzionalità può direttamente caratterizzare il rapporto genitori – figli sia nel caso in cui ricorra una difficoltà fisiologica (sterilità), che nel caso in cui il partner sia dello stesso sesso, prescindendo dunque dal mero dato biologico di derivazione.

Nella decisione della Corte emerge una positiva considerazione della evoluzione interpretativa nel campo della procreazione medicalmente assistita, riconoscendo la rilevanza del consenso, quale elemento fondamentale e imprescindibile, nella genitorialità derivante dall'utilizzo di tecniche scientifiche avanzate. Genitorialità basata dunque sul consenso pieno e consapevole e sulla conseguente responsabilità della coppia che decide di accedere alla procreazione medicalmente assistita. Il riferimento normativo in tal senso è certamente rappresentato dall'art. 8 della l. n. 40/2004, tanto che i nati a seguito dell'applicazioni di tale tecnica acquistano lo status di figli “ nati nel matrimonio” o di “ figli riconosciuti”, così come dall'art. 9, che tutela il nascituro prevedendo che il coniuge o il convivente della madre naturale, nel momento in cui si acceda consapevolmente alla procreazione medicalmente assistita, non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità o impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità, pur mancando un suo apporto biologico alla nascita.

La Corte tuttavia, pur riconoscendo la particolare rilevanza di questo dato, e, dunque, l'emersione di forme di genitorialità di intenzione, sottolinea come lo stato della legislazione italiana, i presupposti normativi che caratterizzano la l. n. 40/2004, evidenzi la necessità che il nato abbia come genitori persone di sesso diverso, proprio in considerazione del chiaro divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie dello stesso sesso. In tal senso viene richiamata la precedente decisione della Corte cost. n. 219/2019, che ha esplicitamente considerato tale  disciplina  non discriminatoria dal punto di vista dell'orientamento sessuale, nonché l'orientamento della Corte EDU che ha effettivamente chiarito come rientri nella discrezionalità del legislatore individuare l'ambito applicativo di una legislazione che ha come sua precipua finalità la cura terapeutica della sterilità, con la conseguente esclusione di una disparità i trattamento, atteso che la situazione di una coppia eterosessuale sterile non può essere accomunata, per motivi oggettivi, alla situazione di una coppia omossessuale rispetto alla quale non può essere esteso il concetto di sterilità. (Gas e Dubois vs. France, Corte EDU 15 marzo 2012). Nessuna violazione è stata infatti riscontrata quanto all'art. 14 della Convenzione in correlazione all'art. 8 (divieto di discriminazione, diritto al rispetto alla vita privata e familiare). E, d'altra parte, anche la giurisprudenza interna si è espressa in termini analoghi, con la decisione della Cassazione, Cass I, n. 7668/2020, che ha affermato appunto che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell'atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l'inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all'estero, poiché nell'ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva.

In tal senso, nel percorso argomentativo della Corte, emerge la riflessione per cui se il legislatore nel 2016 ha riconosciuto piena dignità familiare alle coppie omossessuali, pur tuttavia non ha ritenuto applicabili a tale contesto le norme in materia di filiazione, ma solo ed esclusivamente quelle relative al rapporto di filiazione.  Emerge dalla legislazione vigente la considerazione che, come sottolineato dalla stessa sentenza n. 221/2019, sia solo il nucleo familiare composto da due genitori di sesso diverso, entrambi viventi e potenzialmente in età fertile il luogo più idoneo per crescere il nascituro. Ne consegue che non ricorre alcuna violazione degli art. 2 e 30 Cost. nel senso evidenziato dal giudice remittente, poiché l'aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non può essere declinato quale diritto fondamentale ai sensi dell'art. 2 Cost., così come non ricorre alcuna violazione dell'art. 30 Cost., atteso che la famiglia non è inscindibilmente legata alla presenza di figli. Si richiama inoltre quanto già evidenziato dalla decisione n. 162/2014 Corte cost. nel senso che la libertà e volontarietà dell'atto di diventare genitori non presuppone un concetto di libertà assoluta in tal senso e non implica che possa espletarsi senza limiti. Il richiamo è dunque inevitabilmente quello volto alla considerazione di un necessario bilanciamento con interessi costituzionalmente protetti, tenendo conto della incidenza di fenomeni di progresso scientifico che di fatto possono alterare le dinamiche ordinarie e naturalistiche del processo di  procreazione e nascita, creando interrogativi etici che sono stati già oggetto della considerazione da parte della Corte nella sentenza n. 221/2019. In tal senso, nel percorso argomentativo della Corte, emerge la riflessione per cui se il legislatore nel 2016 ha riconosciuto piena dignità familiare alle coppie omossessuali, pur tuttavia non ha ritenuto applicabili a tale contesto le norme in materia di filiazione, ma solo ed esclusivamente quelle relative al rapporto di filiazione.  Emerge dalla legislazione vigente la considerazione che, come sottolineato dalla stessa sentenza n. 221/2019, sia solo il nucleo familiare composto da due genitori di sesso diverso, entrambi viventi e potenzialmente in età fertile il luogo più idoneo per crescere il nascituro. Ne consegue che non ricorre alcuna violazione degli art. 2 e 30 Cost. nel senso evidenziato dal giudice remittente, poiché l'aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non può essere declinato quale diritto fondamentale ai sensi dell'art. 2 Cost., così come non ricorre alcuna violazione dell'art. 30 Cost., atteso che la famiglia non è inscindibilmente legata alla presenza di figli. Si richiama inoltre quanto già evidenziato dalla decisione n. 162/2014 Corte cost. nel senso che la libertà e volontarietà dell'atto di diventare genitori non presuppone un concetto di libertà assoluta in tal senso e non implica che possa espletarsi senza limiti. Il richiamo è dunque inevitabilmente quello volto alla considerazione di un necessario bilanciamento con interessi costituzionalmente protetti, tenendo conto della incidenza di fenomeni di progresso scientifico che di fatto possono alterare le dinamiche ordinarie e naturalistiche del processo di  procreazione e nascita, creando interrogativi etici che sono stati già oggetto della considerazione da parte della Corte costituzionale nella sentenza n. 221/2019. Sul punto si è espressa anche Corte cost. con sentenza n. 32/2021 riferita al  caso di un nato nell'ambito di un progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata da una coppia dello stesso sesso, e pronunciata relativamente alla richiesta di attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla madre intenzionale ove questa presti il consenso alla pratica fecondativa, non vi siano le condizioni per procedere all'adozione nei casi particolari e sia accertato giudizialmente l'interesse del minore. La recisione, nel caso di specie, del legame tra la madre biologica e la madre intenzionale, secondo la Corte, pur in presenza di un rapporto di filiazione effettivo tra questa e il minore, rendeva evidente un vuoto di protezione nell'ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro migliori interessi, intesa, come affermato in forte sintonia dalla giurisprudenza delle due corti europee, oltre che da quella costituzionale, come necessaria permanenza dei legami affettivi e familiari, anche se non biologici, e riconoscimento giuridico degli stessi, al fine di conferire certezza nella costruzione dell'identità personale. Le questioni sollevate confermavano, pertanto, l'impellenza di un intervento del legislatore in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del rapporto del minore con la "madre intenzionale", vista l'insufficienza del ricorso all'adozione in casi particolari, per come attualmente regolata. Risultava pertanto evidente che i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell'orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, quando destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall'altra persona che ha costruito il menzionato progetto, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi, in contrasto con il principio di eguaglianza. Riscontrato il suddetto vuoto di tutela, una pronuncia della Corte costituzionale rischierebbe tuttavia, di generare disarmonie nel sistema complessivamente considerato. Serviva, pertanto, ancora una volta attirare su questa materia eticamente sensibile l'attenzione del legislatore, al fine di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana. L'evoluzione dell'ordinamento, muovendo dalla nozione tradizionale di famiglia, ha progressivamente riconosciuto rilievo giuridico alla genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, tenuto conto che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa. Non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina; né esistono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l'inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore.

In tal senso è stata ritenuta irrilevante anche, ai sensi dell'art. 3 Cost., la differenza tra la normativa italiana e quella straniera (che consente la dichiarazione del rapporto di filiazione da parte di due madri), poiché altrimenti si dovrebbe ritenere necessario un allineamento della legislazione interna alle legislazioni più permissive degli altri paesi. D'altra parte le stesse fonti internazionali ed europee, richiamate dalla ordinanza di rimessione, rinviano in modo esplicito e rilevante alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei relativi principi, richiamando ancora una volta l'ampio margine di apprezzamento che è da riservare ai singoli stati, specialmente in campi caratterizzati dalla mancanza di un unanime consenso sociale. La questione è stata dunque dichiarata inammissibile dalla Corte, che ha tuttavia fornito un'indicazione chiara: il diritto all'omogenitorialità non è in astratto precluso, ma potrà essere effettivamente raggiunto solo per via normativa. Deve essere il legislatore a farsi interprete della volontà collettiva in tal senso, sicché è chiamato a realizzare un corretto bilanciamento tra i valori fondamentali dell'ordinamento, considerando gli orientamenti e le istanza maggiormente radicate in un dato momento nella coscienza sociale, come già evidenziato dalla sentenza della Corte cost. n. 84/2016. Nello stesso senso deve essere intesa la raccomandazione relativa alla considerazione del diritto del minore rispetto alla sua relazione con la madre d'intenzione, relazione garantita solo per il tramite  dell'adozione legittimante ex art. 44, comma 1, lett. d) l. n. 184/1983.

Il tema della connotazione del diritto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita trova una sua particolare declinazione nella sentenza della Cassazione, Cass. I, n. 13000/2019 che ha affermato un rilevante principio di diritto secondo il quale l'art. 8 l. n. 40/2004, recante lo status giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all'ipotesi di fecondazione omologa "post mortem" avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell'art. 6 della medesima legge e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell'embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all'utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre". In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che nell'atto di nascita alla figlia minore della ricorrente, nata a seguito di inseminazione medicalmente assistita "post mortem", possa essere attribuito lo status di figlia del marito deceduto. Il caso concreto affrontato è quello relativo alla nascita post mortem a seguito di applicazione di tecnica di procreazione medicalmente assistita. I coniugi in realtà avevano avviato l'accesso alla PMA prima della scoperta della grave malattia del coniuge e avevano espresso un consapevole consenso, poi reiterato a seguito della malattia del padre genetico, anche quanto alla possibilità di una applicazione della tecnica di procreazione medicalmente assistita anche post mortem. Si tratta, dunque, di un caso di fecondazione omologa post mortem. La decisione compie una analisi approfondita della disciplina relativa alle iscrizioni nello stato civile e quanto al caso concreto ci si interroga sul se, una volta verificatasi la nascita, debba trovare applicazione esclusivamente il meccanismo presuntivo previsto dagli artt. 231-233 c.c. in relazione alla prova della paternità o sia necessario tener conto anche della disciplina della l. n. 40/2004, considerato il rilievo decisivo e determinante della prestazione del consenso per il processo di generazione e procreazione mediante PMA.

Tale valutazione deve, a parere della Corte, tenere conto di diversi fattori che condizionano il diritto vivente e in particolare:  - il rilievo attribuito dalla società moderna a bisogni prima ignoti, non prevedibili ed ancora non regolamentati dal legislatore; - il costante dialogo tra le Corti supreme degli stati europei ed extra europei e la Corte di giustizia dell'Unione Europea; - la considerazione delle tecnica della PMA come metodo alternativo al concepimento naturale e non solo come un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di origine medica, la sterilità, che colpisce uno o entrambi i componenti della coppia. Il punto centrale della decisione della Corte è dunque rappresentato dalla piena comprensione del se, in un contesto in cui la genitorialità spesso può anche scindersi  dal nesso con il matrimonio e la famiglia, potendo essere declinato in una molteplicità di contesti inediti in passato, i divieti di genitorialità, evincibili nell'ambito del nostro ordinamento, posano fungere da contro limite alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra giungere ad un superamento dei tradizionali confini per comprendere i nuovi percorsi della genitorialità. È stata quindi richiamata da una parte la disciplina civilistica ex art. 233 e 254 c.c. e dall'altra quella della l. n. 40/2004  agli artt. 4, 5, 6,12. Si è quindi affermato che qualsiasi affermazione e valutazione in termini di illiceità/illegittimità in Italia delle tecniche di PMA non può riflettersi sul nato e sull'intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. Dunque il ricorso ad un caso di PMA non esplicitamente riconosciuto e disciplinato nel nostro nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone la preminente considerazione dell'interesse del nato al proprio complessivo contesto quanto allo status di figlio, come emerso anche in sede di giurisprudenza della Corte EDU con i casi Mennesson e Labasse vs. Francia. La Corte si è quindi interrogata sulla corrispondenza tra la realtà del fatto indicato dalla madre all'atto delle dichiarazioni all'ufficiale dello stato civile in mancanza di precedenti sul punto. Si è evidenziata la problematicità della questione di fronte alle pratiche di PMA nel tentativo di comporre esigenze evidentemente contrapposte (certezza e stabilità dello stato di filiazione e la sua corrispondenza alla verità), considerato che ormai si deve ritenere figlio non solo chi nasce da un naturale concepimento, ma anche chi nasce a seguito dell'applicazione di tecniche di PMA, o colui che sia tale per effetto di tecniche di adozione. La corte conclude dunque evidenziando che quelli che erano ritenuti i confini invalicabili in ordine al principio di legittimità della filiazione sono ormai ampiamente posti in discussione, tenuto conto della portata degli artt. 2 e 30 Cost. e del conseguente diritto del nato di crescere nella propria famiglia, ivi pienamente esplicando la propria identità personale, con piena certezza della propria provenienza biologica. Ovviamente il ritenere lo status del nato da PMA come del tutto alternativo ai principi in materia di filiazione naturale farebbe emergere una particolare pregnanza del consenso, che non andrebbe inteso come mero consenso al trattamento medico da parte dei futuri genitori, ma governerebbe invece la maternità o la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà. Sebbene l'art. 5 l. n. 40/2004 sembri escludere la possibilità del ricorso a tecniche di PMA post mortem, richiedendo che coloro che ricorrono alla tecnica in questione siano entrambi viventi, tuttavia si osserva come la norma non precisi esattamente quale sia il momento in cui entrambi i coniugi si dovrebbero necessariamente ritenere in vita per accedere alla tecnica in questione. La Corte si è quindi interrogata sulla applicabilità al caso in esame dell'art. 8 l. n. 40/2004, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato, come nel caso di specie, oltre i trecento giorni dalla morte del padre, sulla base dell'applicazione di una tecnica di PMA del tutto lecita secondo la lex loci dello stato estero al quale si era rivolta la madre. Richiamata dunque la ampia dottrina e le diverse interpretazioni sul tema della applicazione o meno della disciplina del codice civile in tema di filiazione naturale, il Collegio sottolinea come il legislatore nell'art. 8 non abbia delimitato la portata della previsione alle sole ipotesi di PMA “lecita”, ed anzi avesse esplicitamente ritenuto l'applicabilità anche alla PMA eterologa, disciplinando l'impossibilità di esercitare l'azione di disconoscimento di paternità e l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, sicché l'espressione del consenso  alle tecniche di PMA deve essere ritenuto del tutto sufficiente per l'attribuzione dello status di figlio. Da ciò consegue la necessaria tutela del figlio nato da fecondazione omologa post mortem, effettuata sulla base del consenso delle parti, con prevalenza della tutela legislativa  del nato, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l'instaurazione di un rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove si ritenga violato il quadro normativo in tema di PMA previsto dal nostro ordinamento interno.  Viene dunque evidenziata la assoluta centralità, proprio ai sensi dell'art. 8 l. n. 40/2004 del consenso come fattore determinante la genitorialità a seguito della applicazione di tecniche di PMA, con sicura preminenza della tutela del nascituro, con particolare riferimento alla certezza dello status filiationis. Tale insieme di circostanza escluderebbe dunque una mancanza di corrispondenza tra la realtà di fatto e quanto dichiarato all'ufficiale di stato civile e la sua riproduzione nell'atto di nascita. L'espressione piena e completa del consenso assicura dunque lo stato di filiazione anche a per chi risulta nato a seguito di applicazione di tecnica di PMA omologa dopo il decesso del genitore, con piena considerazione nel caso concreto del dato della piena discendenza biologica.

Lo stato giuridico del nato da PMA

La struttura complessiva della disciplina in esame, la presenza di limiti e riferimenti puntuali quanto ai requisiti di accesso, di fatto rende chiara la volontà del legislatore di incardinare la vita futura del nato da PMA nell'ambito di una struttura familiare di tipo tradizionale, attribuendo rilievo alla presenza di una figura materna e ad una figura paterna. Originariamente la disciplina si poteva ritenere fortemente caratterizzata dalla preminenza della figura paterna, nell'accezione di padre naturale, caratterizzata dunque dalla ricorrenza di un vero e proprio legame biologico con il nascituro.

Alcuni autori hanno però con anticipata chiarezza evidenziato come l'atteggiamento del legislatore non fosse del tutto coerente, considerato che nel caso dell'allora non ammessa PMA eterologa di fatto veniva vietata qualsiasi possibilità di disconoscimento ove si fosse consapevolmente espresso il consenso all'accesso alle tecniche di PMA (Salanitro, 1 s.). La scelta originariamente articolata in caso di fecondazione eterologa, volta a rendere impossibile il disconoscimento, rende manifesta la volontà del legislatore di realizzare in ogni modo una tutela a carattere prioritario nei confronti del minore. Da questa scelta emerge già un'evidente discrasia e conseguentemente la necessità di una riflessione più ampia anche sul concetto di genitorialità sociale, rispetto alla disciplina della filiazione normalmente caratterizzata dalla prevalenza del vincolo di sangue.

La filiazione da fecondazione omologa e l'evoluzione conseguente a Corte cost. n. 162/2014

L'art. 8 attribuisce ai figli nati da tecniche di PMA lo status di figli nati nel matrimonio o riconosciuti dalla coppia che ha con consenso esplicito e ripetuto nelle diverse fasi hanno partecipato alla procreazione assistita. Come già accennato, per alcuni autori la previsione in questione vale a determinare una disciplina che si sostituisce alle regole generali sulla filiazione in relazione al disposto di cui all'art. 6 della l. n. 40/2004 (principio del consenso), mentre per altri la disciplina si presenterebbe a carattere meramente enunciativo, rimanendo comunque compresa nell'ambito delle disposizioni del codice civile (Salanitro). In modo più chiaro si è interpretata questa previsione come norma a carattere integrativo della disciplina del c. c., allo scopo di rafforzare la tutela del soggetto che verrà procreato (Salanitro). Elemento che comunque caratterizza la disciplina in questione è senz'altro l'espressione del consenso al medico nelle diverse fasi della PMA, quale elemento legittimante e presupposto in relazione allo status del futuro nato da PMA.

Secondo l'originaria previsione dell'art. 9, in relazione alla fecondazione eterologa (all'epoca esplicitamente vietata), il consenso rileva in relazione ad atti concludenti posti in essere al fine di accedere alla PMA, con impossibilità di effettuare azioni di disconoscimento della paternità o impugnazioni del riconoscimento per mancanza di veridicità dello stesso. La norma trova la sua ratio nella volontà di riconoscere comunque una relazione parentale e paterna al minore nato da tecnica di PMA eterologa, prescindendo dunque dagli ordinari requisiti legittimanti (età, convivenza, etc.). Già in epoca antecedente alle più recenti pronunce in tema di adozione da parte della c.d. «seconda madre» alcuni autori sottolineavano come la disciplina in questione dovesse ritenersi implicitamente estesa, realizzando il riconoscimento del rapporto di filiazione anche per la coppia omosessuale che fosse ricorsa all'estero a tecniche di PMA, rilevando l'inammissibile interferenza nella vita familiare se fossero stati previsti dei diversi limiti e la realizzazione di una disciplina, che se intesa restrittivamente, sarebbe stata da considerare evidentemente discriminatoria (Salanitro, 1 s.).

Tale disciplina risulta incisa come evidenziato nei paragrafi precedenti dalla decisione della Corte cost. n. 162/2014, che ha ammesso nel nostro ordinamento la PMA di tipo eterologo condizionata alla sussistenza di una patologia. La legittimità del rapporto di filiazione del nato da PMA dunque allo stato non può essere in alcun modo essere messa in discussione.

La previsione dell'art. 9 considera inoltre il rapporto tra il nato e il donatore di gameti, escludendo qualsiasi tipo di relazione giuridica tra lo stesso e il nascituro.

Sul punto è da riscontrare una riflessione ampia da parte della dottrina in relazione al c.d. diritto di accesso alle proprie origini (Velletti, 1 s.). A seguito della sentenza della Corte cost. questa disposizione potrebbe essere letta nel senso di evitare qualsiasi forma di condizionamento e limite alla attività di donazione di gameti. Circostanza questa che trova un suo oggettivo riscontro nella volontà del legislatore di mantenere sostanzialmente anonimo il soggetto donatore di gameti. Si è comunque molto discusso circa la possibilità di accedere a tali dati quanto meno per ragioni legate alla tutela della salute del nascituro.

In conclusione può essere evidenziato il ruolo centrale del consenso nella disciplina relativa allo status del nato da PMA, che rappresenta il fondamento principale per l'assunzione della responsabilità genitoriale. Tale disciplina deve comunque essere integrata e coordinata con la disciplina generale in materia di filiazione, e in tal senso deve essere letta la previsione di cui al comma 2 dell'art. 9, che richiama appunto le regole della filiazione nella loro portata ordinaria quanto alla donna che partorisce, evidenziando una regola che deroga alla stessa disciplina generale.

In realtà questa previsione è stata considerata come supporto ed integrazione al divieto di maternità surrogata posto dall'art. 12, comma 6, della legge; infatti l'impossibilità per la donna che partorisce di dichiarare la volontà di non essere nominata argina l'eventuale ricorso a tale tecnica di procreazione medicalmente assistita integrata dalla volontaria gestazione per altri. In assenza di una disposizione come questa la surrogazione di maternità avrebbe potuto essere posta in essere di fatto in caso di volontà espressa a non essere nominata, con conseguente riconoscimento effettuato dal marito della coppia donatrice dei gameti (con applicazione di tecnica di PMA) e successiva adozione da parte della moglie ai sensi dell'art. 44 l. 4 maggio 1983 n. 184 (Salanitro, 1 s.).

Profili relativi allo status del nascituro, legittimazione e possibilità di fecondazione post mortem si sono posti in diverse occasioni come già evidenziato, specialmente nella considerazione della ricorrenza o meno in capo al nascituro di eventuali diritti successori (sul punto v. capo 2). La necessità che a livello interpretativo si è imposta è quella di un certo contemperamento tra tutela del nascituro e chiara identificazione dei soggetti chiamati alla successione. Il punto di distinzione è normalmente rappresentato dal fatto che la fecondazione e l'avvio della fase applicativa sia intervenuto prima del decesso del padre che ha prestato consenso al trattamento; in questo caso si ritiene che al nascituro debbano essere riconosciuti i diritti successori in applicazione del principio del consenso espresso.

Certamente uno dei punti più delicati nell'interpretazione della dottrina è quello dello status giuridico da attribuire al nato da fecondazione post mortem, sia nel caso in cui la fecondazione sia avvenuta senza rispettare la previsione che richieda l'esistenza in vita di entrambi i coniugi, utilizzando ad esempio a seguito di decesso i gameti del coniuge, sia nel caso in cui pur essendosi formato lecitamente l'embrione lo stesso venga trasferito in utero dopo il decesso del marito o convivente. Come già detto la maggior parte degli autori tendono ad integrare la disciplina generale della filiazione con la disciplina da filiazione della PMA, caratterizzata dalla certa derivazione biologica del nascituro dal donatore di gameti da integrare con la consapevole espressione del consenso al trattamento. Sostanzialmente emerge in generale una volontà di rendere comunque possibile la nascita dell'embrione già formato, con piena attribuzione allo stesso dello status filiationis anche in caso di decesso del coniuge, che tuttavia aveva acconsentito al procedimento di PMA (Sesta, 756 s.). Altri autori evidenziano invece come la disciplina civilistica non si presenti adeguata al fine di tutelare le più diverse situazioni derivanti da nascita e procreazione da PMA, e dunque ritengono unico riferimento a tal fine la disciplina di cui alla l. n. 40/2004 (Ciraolo, 1 s.). Il problema della diversa genitorialità e delle fonti di disciplina si è ovviamente posto anche in relazione al caso della c.d. eterologa per errore presso l'ospedale Pertini di Roma. Molti autori hanno ancora una volta sottolineato come la disciplina di tipo civilistico non possa essere assolutamente richiamata per la soluzione di un caso del genere, mancando un'apertura ed elasticità di previsione in generale rispetto a nuove situazioni conseguenti ai progressi della tecnica scientifica; ma anche si è ritenuto inadeguato il richiamo alla disciplina di legge in materia di PMA in considerazione del fatto che per potersi parlare di PMA eterologa occorre comunque un consenso esplicito e formalizzato sin dall'inizio del procedimento assistito, con impossibilità di poterlo considerare ricorrente nel caso in cui la eterologa si avvenuta per errore, ipotizzando dunque la rilevanza di un consenso a posteriori da parte della partoriente e del marito della stessa in assenza di qualsiasi legame genetico con il minore (Ciraolo, 1 s.). Si è quindi evidenziato che se la base della disciplina in tema di PMA è sempre il consenso, e conseguentemente il progetto genitoriale di coloro che accedono a tale tecnica, debba prevalere una considerazione di tale elemento in correlazione con l'interesse del minore a crescere nella propria famiglia, secondo appunto un concreto e consapevole progetto familiare. Una soluzione del genere si presenterebbe dunque coerente e sistematicamente compreso anche nell'ambito della disciplina ex art. 8 CEDU, per come interpretato in tema di gestazione per altri.

La disciplina di cui agli art. 8 e 9 deve essere letta ovviamente in relazione alla decisione della Corte Cost. n. 162/2014, che sancendo l'illegittimità del divieto di fecondazione eterologa ha affermato come non possa essere in alcun modo limitata, con disposizioni del genere, la libertà di autodeterminazione del singolo e dunque la possibilità di formare, senza limitare o comprimere altri diritti costituzionalmente garantiti, una propria famiglia. Emerge dunque la volontà di considerare il diritto alla genitorialità come diritto di portata costituzionale, che non può irragionevolmente essere negato alle coppie sterili. Con la conseguente irrilevanza della provenienza genetica come criterio cardine ed evidente emersione del diritto del minore alla stabilità del rapporto di filiazione. In tal senso, e proprio con riferimento alla prevalenza della stabilità del minore in considerazione dello status di filiazione dello stesso, occorre richiamare la pronuncia del Trib. min. Roma del 30 giugno 2014 che ha riconosciuto l'adozione di una bimba, figlia biologica di una delle conviventi, nell'ambito di una stabile coppia omosessuale. Questa evoluzione interpretativa, seguita da altre e interessanti pronunce, ha attualmente un ulteriore riscontro nella previsione della riforma in materia di filiazione di cui al d.lgs. n. 154/2013, che ha modificato l'art. 244 c.c. stabilendo il termine massimo di cinque anni per l'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternità e impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Quanto al tema del diritto alla conoscenza delle proprie origini, deve essere ricordata la sentenza della Corte EDU Godelli/Italia del 25 settembre 2012, C — 33783/09, dove la possibilità di accedere ad informazioni relative ai propri genitori viene considerata quale diritto fondamentale che contribuisce allo sviluppo della persona e rientra ne rispetto della vita privata e familiare. La rilevanza dello status acquisito con la nascita, a prescindere dall'origine genetica (considerata come non sovraordinata), emerge come già evidenziato anche dalle ordinanze del Tribunale di Roma relative al caso di scambio di embrioni presso l'Ospedale Pertini.

Altre decisioni in materia, volte ad individuare l'interesse preminente del minore in materia di status e filiazione, hanno escluso la contrarietà all'ordine pubblico internazionale dei certificati emessi da stati esteri in casi di surrogazione di maternità, con conseguente possibilità di trascrizione del relativo atto di nascita. In concreto sia App. Bari 13 febbraio 2009 e Trib. Napoli, decr. 1 luglio 2011 hanno autorizzato tale trascrizione, ricorrendo tra l'altro comunque, pur in presenza di ipotesi di maternità surrogata, un legame genetico con il padre (in questo stesso senso anche Trib. Forlì 25 ottobre 2011). Emerge dunque in modo netto la volontà di tutelare il diritto del minore alla propria identità familiare, valore da ritenere in concreto prevalente rispetto al divieto statale di surrogazione di maternità. Lo stesso concetto emerge anche dalla sentenza della Corte di cassazione (Cass. n. 12962/2016) nell'ambito della quale si richiama l'interpretazione evolutiva e costante della Corte europea dei diritti umani volta a tutelare la preminenza del «best interest» del minore anche rispetto all'interesse pubblico degli Stati.

Divieto di disconoscimento e divieto di parto anonimo

Il richiamo all'art. 235 c.c. effettuato dalla norma in commento è caduto con  l'abrogazione della norma che del richiamo costituiva l'oggetto. L'abrogazione fu disposta dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, nel contesto di una ampia riforma del diritto di famiglia. L'effetto dell'intervento fu quello di svincolare l'esercizio dell'azione di disconoscimento dalla ricorrenza di presupposti in fatto elencati in una casistica tassativa, rivelatasi insufficiente nell'esperienza sul campo. Resta, tuttavia, il nucleo centrale della disposizione contenuta nell'art. 9 l. n. 40/2004, costituito dal divieto del disconoscimento della paternità ad opera di chi aveva prestato il consenso    alla procreazione medicalmente assistita: consenso manifestato espressamente o anche per fatti concludenti. La norma tutela all'evidenza il nascituro contro comportamenti di chi  abbia ripensamenti e, dopo aver voluto la procreazione assistita, poi ne rifiuti il frutto e la conseguente assunzione di responsabilità (in tal senso già Cass. n. 2315/1999). Il riferimento soppresso va attualmente riferito all'art. 243-bis c.c.

Nella fecondazione assistita eterologa, così come per l'omologa, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo, sicché ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 40 del 2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione (Cass. I, n. 30294/2017). La Corte di cassazione aveva affermato che la regola prevista dall'art. 235 c.c., applicabile "ratione temporis", disciplinava anche le filiazioni originate da fecondazione artificiale, tenuto conto che il quadro normativo, a seguito dell'introduzione della l. n. 40 del 2004 - come formulata ed interpretabile alla luce del principio del "favor veritatis" - si era arricchito di una nuova ipotesi di disconoscimento; pertanto, stante l'identità della "ratio" e la sussistenza di evidenti ragioni sistematiche, era applicabile anche a questa ipotesi il termine di decadenza previsto dall'art. 244 c.c., decorrente dal momento di acquisizione della certezza del ricorso a tale metodo di procreazione (Cass. I, 7965/2017).

Ad analoga funzione di tutela del figlio risponde il divieto per la donna di dichiarare la volontà di non essere nominata quale madre, al momento del parto. Il fatto che si sia giunti alla nascita sulla base di modalità richiedenti intervento tecnico specialistico e sul presupposto di consensi manifestati da coloro che avevano interesse alla nascita, prima tra tutte la futura madre, spiega perché poi questa non possa più negare la propria maternità.  

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