Codice Civile art. 143 - Diritti e doveri reciproci dei coniugi (1).Diritti e doveri reciproci dei coniugi (1). [I]. Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri [29 Cost.]. [II]. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale [146 1], alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione [107 1; 570 c.p.]. [III]. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia [107 1, 146 2, 186 1c, 315]. (1) Articolo così sostituito dall'art. 24 l. 19 maggio 1975, n. 151. InquadramentoIl capo IV del titolo VI del libro I, agli articoli 143-148, individua i contenuti dello statuto matrimoniale, enucleando i diritti e i doveri che nascono dal matrimonio. Queste norme, pertanto, regolano il matrimonio nella sua dimensione di «rapporto» a differenza di quelle che precedono, dedicate al vincolo matrimoniale come «atto». L'intera disciplina è stata riscritta dalla Riforma del Diritto di famiglia del 1975 (legge n. 151/1975) e, in tempi recenti, pure ritoccata dal d.lgs. n. 154/2013, di attuazione della delega legislativa di cui alla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 149 del 2022, di introduzione del nuovo rito unitario in tema di famiglia e minori (artt. 473-bis e ss c.p.c.). Obblighi nascenti dal matrimonioIl matrimonio comporta a carico dei coniugi gli obblighi reciproci della fedeltà, dell'assistenza morale e materiale, della coabitazione, della collaborazione e della contribuzione ai bisogni della famiglia. Il rapporto coniugale implica, poi, gli obblighi di rispetto della persona (della sua dignità, libertà, riservatezza) che da doveri generici si specificano in obblighi funzionali all'impegno di vita del matrimonio (Bianca, 730). La componente essenziale dello statuto coniugale è l'uguaglianza: “stessi diritti” (art. 143, comma primo, c.c.). Uomo e Donna si pongono su un piano di piena parità che, peraltro, riceve riconoscimento e protezione anche all'esterno del vincolo. In altri termini uno dei principi fondanti il matrimonio è la parità di genere che «è un valore cardine dell'UE, un diritto fondamentale e un principio chiave del pilastro europeo dei diritti sociali» (strategia europea per la parità di genere 2020 – 2025, Commissione europea, 5 marzo 2020). Per tale principio, la violenza intrafamiliare è incompatibile con la struttura del matrimonio e, in particolare, la violenza di genere ne costituisce la negazione più eclatante. L'art. 160 c.c. esclude che gli sposi possano derogare ai diritti e ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio: ma si tratta di un divieto (v. infra, art. 160) da riferire prevalentemente (se non esclusivamente) ai rapporti patrimoniali tra i coniugi e, infatti, la norma è collocata sotto il relativo capo; nei rapporti personali, al contrario, è la famiglia a costruire i contenuti del rapporto, sulla base del diritto costituzionale all'autodeterminazione. Pertanto, per libera volontà e in senso funzionale alla realizzazione della persona, i coniugi possono ben regolare lo statuto coniugale in modo difforme dai contenuti previsti dall'art. 143 c.c.: ad es., i coniugi possono consensualmente derogare all'obbligo della fedeltà (cd. matrimonio aperto). La deroga allo statuto dei diritti e obblighi incontra, però, dei limiti connaturati alla funzione stessa dell'istituto matrimoniale: la parità dei coniugi nel matrimonio, la dignità della persona, la libertà personale. Soprattutto, la dimensione dei diritti dal «nocciolo duro» non può essere declinata ora in un senso ora in un altro in base alla cultura o all'ambiente sociale dei coniugi: in tal senso, ad esempio, in tema di crisi della famiglia, la Suprema Corte ha affermato che la dichiarazione di addebito della separazione per comportamenti dispotici del marito non può essere esclusa né in considerazione della permanenza, in alcune aree sociali, del suo ruolo gerarchicamente sovraordinato all'interno del nucleo familiare, né della passata tolleranza della moglie relativamente agli atti lesivi della propria dignità e dell'uguaglianza nelle relazioni familiari, non potendo tali circostanze rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale (Cass. n. 8094/2015). Obbligo di fedeltà. La fedeltà coniugale corrisponde all'osservanza reciproca da parte dei coniugi dei doveri derivanti dal matrimonio, soprattutto (ma non esclusivamente) per ciò che riguarda l'astensione da rapporti sessuali, o comunque amorosi, extraconiugali. L'obbligo di fedeltà è il primo preso in considerazione dall'art. 143 c.c. e riguarda l'intimità dei partners nel suo aspetto più riservato: i coniugi, per rispettare tale obbligo, devono astenersi dall'intrattenere relazioni o atti sessuali extraconiugali o comunque dall'allacciare con terzi, relazioni talmente intime e personali da apparire, all'esterno, violative della esclusività del rapporto matrimoniale. Ciò vuol dire che si ha violazione dell'art. 143 c.c. non solo quando la relazione di un coniuge con estranei si sostanzi in un adulterio ma anche quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge (Cass. n. 8929/2013). La violenza dell'obbligo di fedeltà giustifica la pronuncia di addebito là dove sussista tra detta violazione e la fine del matrimonio un nesso causale; peraltro, ai fini dell'esclusione del nesso causale tra la relativa condotta e l'impossibilità della prosecuzione della convivenza, non assume rilievo la tolleranza dell'altro coniuge, non essendo configurabile un'esimente oggettiva, che faccia venire meno l'illiceità del comportamento, né una rinuncia tacita all'adempimento dei doveri coniugali, aventi carattere indisponibile, anche se la sopportazione dell'infedeltà altrui può essere presa in considerazione, unitamente ad altri elementi, quale indice rivelatore del fatto che l'"affectio coniugaliis" era già venuta meno da tempo (Cass. civ. n. 25966/2022): Reciproca assistenza e collaborazione. L'obbligo di assistenza morale e materiale impone ai coniugi di aiutarsi sia moralmente che economicamente: in esso si esprime la solidarietà matrimoniale (Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, 731). Si tratta di un obbligo che convive con quello di collaborazione, che si sostanzia nell'esigenza di partecipare, insieme, alla gestione della vita coniugale. L'obbligo di assistersi reciprocamente impone anche di dover comprendere il partner, eventualmente nelle sue scelte di vita, là dove connaturate a componenti essenziali della persona. Al riguardo, la giurisprudenza si è di recente interessata del mutamento di religione in corso di matrimonio. Secondo la Suprema Corte (Cass. n. 14728 /2016), il mutamento di fede religiosa, e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall'art. 19 Cost., non può di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che l'adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore previsti dagli artt. 143 e 147 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per l'interesse della prole. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'addebitabilità della separazione al marito in ragione della adesione di quest'ultimo alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova, non potendo attribuirsi rilievo all'impegno assunto in sede di celebrazione del matrimonio religioso di conformare l'indirizzo della vita familiare ed educare i figli secondo i dettami della religione cattolica, estraneo alla disciplina civilistica del vincolo). Coabitazione . La coabitazione consiste nella normale convivenza tra marito e moglie, mediante anche una equilibrata distribuzione delle mansioni e delle attività tese a custodire la dimora familiare: e in ciò si approda all'ulteriore obbligo, quello di collaborazione. In tempi recenti, una interessante pronuncia di Cassazione (Cass. n. 24471/2014) ha «bandito» dall'Ordinamento la presunzione per cui «non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo». Come ha correttamente evidenziato la Suprema Corte, l'affermazione è contraria al fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall'art. 143 c.c., commi 1 e 3: «ed in mancanza di prove contrarie è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario». Nell'attuale contesto sociale, la «coabitazione» non può più essere intesa come rigorosa condivisione stabile della stessa casa, eventualmente con residenze anagrafiche coincidenti: gli ultimi dati statistici ufficiali (fonte: ISTAT), appurano la ormai importante consistenza del «pendolarismo della famiglia», ossia quella situazione in cui «le persone che vivono per motivi vari e con una certa regolarità in luoghi diversi dall'abitazione abituale» così spesso «mantenendo residenze in luoghi diversi». Il concetto di «coabitazione», pertanto, non è incompatibile con il fatto che i coniugi abbiano residenze anagrafiche o dimore divergenti purché comune sia la volontà di «stare insieme» e vi siano continue significative occasioni di incontro. A questa realtà sociale, si è adeguata la giurisprudenza affermando, ad esempio, in tema di imposta di registro e di relativi benefici per l'acquisto della prima casa, che il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l'immobile acquistato sia adibito a tale destinazione non rileva la diversa residenza di uno dei due coniugi che abbiano acquistato in regime di comunione, essendo essi tenuti non ad una comune sede anagrafica ma alla coabitazione (Cass. n. 25889/2015). Dal punto di vista economico-patrimoniale, entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia. L'obbligo di coabitazione comporta che l'allontanamento dalla casa coniugale costituisca una violazione dello statuto matrimoniale. Ad avviso della Suprema Corte, l'allontanamento di uno dei coniugi dalla casa familiare costituisce, in difetto di giusta causa, violazione dell'obbligo di convivenza e la parte che, conseguentemente, richieda la pronuncia di addebito della separazione ha l'onere di provare il rapporto di causalità tra la violazione e l'intollerabilità della convivenza, gravando, invece, sulla controparte la prova della giusta causa (Cass. n. 25966/2016). La coabitazione, come obbligo tra i coniugi, comporta che l'allontanamento ingiustificato dalla casa familiare rappresenti una violazione dello statuto coniugale finanche suscettibile di fondare una pronuncia di addebito: per la giurisprudenza l'allontanamento dalla casa familiare, costituendo violazione del dovere di coabitazione, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione, a meno che il destinatario della relativa domanda non dimostri l'esistenza di una giusta causa, che non sussiste per il solo fatto che abbia confessato al consorte di nutrire un sentimento affettivo nei confronti di un'altra persona, essendo necessaria la prova che l'allontanamento sia stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge (anche in reazione alla confessione ricevuta) o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile (Cass. n. 11792/2021). Tutela dei diritti coniugaliLa disciplina matrimoniale prevede specifici rimedi per far fronte alle violazioni che il coniuge ponga in essere contro lo statuto coniugale: valga il caso di ricordare, ad esempio, l'addebito previsto dall'art. 151 c.c. Questi rimedi, però, non hanno carattere esclusivo come testimoniato dall'ingresso della responsabilità civile risarcitoria in ambito endofamiliare (Buffone, L'illecito endofamiliare in Il Familiarista, 2015), ormai costante affermazione del diritto vivente (v. Cass. n. 16657/2014). A partire da Cass. n. 9801/2005, l'ordinamento è orientato alla protezione costituzionale dei Diritti Fondamentali anche nell'ambito dei rapporti di famiglia, con una impostazione che ha trovato avallo legislativo. Il decreto legge 14 marzo 2005 n. 35 (convertito in legge n. 80/2005) ha, infatti, introdotto in seno al codice di rito, l'art. 709-ter c.p.c. che espressamente contempla la responsabilità risarcitoria tra familiari: norma non più vigente oggi ma ripresa, nei contenuti, dal nuovo rito unitario (art. 473-bis.39 c.p.c.). Allo stato, non è messa in dubbio l'ammissibilità di una responsabilità risarcitoria per lesione endogena del rapporto familiare e la Dottrina, pressoché unanime, è concorde nell'ammettere, dagli anni 2000 in poi, l'inizio di una nuova fase nei rapporti tra la responsabilità civile e il diritto di famiglia, in cui il coniuge come il figlio, lesi dall'inadempimento del compagno di vita come del genitore, possono reagire avvalendosi della lex Aquilia (Porreca, La lesione endofamiliare del rapporto parentale come fonte di danno in Giur. It., 2005, 1633). Viene meno, con questa nuova impostazione, l'idea che la «cittadella di famiglia» viva dei soli istituti rimediali previsti ad hoc dalla Legge e si registra, conseguentemente, una sorta di giuridificazione (Cendon, Dov'è che si sta meglio che in famiglia?, in Persona e danno, 2004, 2721). Danno endofamiliare. Legge n. 206/2021La giurisprudenza è ormai unanime nell'ammettere la risarcibilità delle lesioni endofamiliari. Esse, in primo luogo, possono configurarsi nei rapporti familiari orizzontali (rapporto di coniugio) là dove, ad esempio, uno dei coniugi causi una lesione della salute del partner. La giurisprudenza più consistente, però, si pronuncia soprattutto nei rapporti verticali (genitoriali). Essa afferma, ad esempio, che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, a causa del disinteresse mostrato nei confronti dei figli per lunghi anni, integra gli estremi dell'illecito civile, cagionando la lesione di diritti costituzionalmente protetti, e dà luogo ad un'autonoma azione dei medesimi figli volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. In particolare, è un comportamento rilevatore di responsabilità genitoriale l'avere deprivato i figli della figura genitoriale paterna, che costituisce un fondamentale punto di riferimento soprattutto nella fase della crescita, e idoneo ad integrare un fatto generatore di responsabilità aquiliana. La voce di pregiudizio in esame sfugge a precise quantificazioni in moneta e, pertanto, si impone la liquidazione in via equitativa ex art. 1226 c.c. In merito alla quantificazione in concreto, in caso di danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale, può essere applicata, come riferimento liquidatorio, la voce ad hoc prevista dalle tabelle giurisprudenziali adottate dal- l'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano («perdita del genitore»). È un comportamento rilevatore di responsabilità genitoriale l'avere deprivato i figli della figura genitoriale paterna, che costituisce un fondamentale punto di riferimento soprattutto nella fase della crescita, e idoneo ad integrare un fatto generatore di responsabilità aquiliana» (v. Cass. I, n. 16657/2014). Sul danno da mancato riconoscimento del figlio sussiste tuttavia contrasto di opinioni e di giurisprudenza in merito alla decorrenza della prescrizione (v. Trib. Roma 1 aprile 2014; contra Trib. Roma 19 maggio 2017) anche se l'orientamento del tutto prevalente afferma che il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione. L'art. 1, comma 24 della legge 26 novembre 2021 n. 206 , ha introdotto, nell'ordinamento giuridico italiano, il «Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie» (TPMF) che comporta l'istituzionalizzazione di un unico Ufficio giudiziario che assorbe il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni. Al contempo, l'art. 1 comma 23, lett. a) della medesima normativa ha introdotto nuove disposizioni in un apposito titolo IV-bis del libro II del codice di procedura civile, rubricato «Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie»; per i procedimenti civili elencati nel comma 23, lettera a), si applica il rito unificato in materia di persone, minorenni e famiglie previsto dal medesimo comma 23. Le previsioni in esame sono oggetto di delega legislativa attuata con il d.lgs. n. 149 del 2022 che, però, al momento, non ha attuato il punto relativo alla competenza sul danno endofailiare. Ad ogni modo, la Cassazione, applicando le norme pregresse,, ha ammesso la proponibilità dell'azione di risarcimento del danno endofamiliare nel giudizio ex art. 709-ter c.p.c. (Cass. n. 27147/2021). Il punto è che, oggi, il nuovo rito unirario (art. 473-bis e ss c.p.c.) non è più un rito speciale, bensì un rito ordinario di cognizione: parrebbe, dunque, possibile ipotizzare un cumulo di domande di fronte allo stesso giudice anche nel caso di azioni in materia di famiglia (es. separazione) e risarcimento del danno. Sul punto, al momento, gli interpreti sono divisi. BibliografiaBianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014; Cian, Trabucchi - a cura di -, Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Ferrando, L'invalidità del matrimonio in Tr. ZAT, I, Milano, 2002; Finocchiaro, Matrimonio in Comm. S. B., artt. 84 - 158, Bologna - Roma, 1993; Lipari, Del matrimonio celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile in Comm. Dif., II, Padova, 1992; Perlingieri, Manuale di Diritto Civile, Napoli, 2005; Sesta - a cura di -, Codice della famiglia, Milano, 2015. |