Codice Civile art. 179 - Beni personali (1).Beni personali (1). [I]. Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori [210 2, 2647]; d) i beni che servono all'esercizio della professione [2094, 2222] del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione [210 2, 2647]; e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa [210 2, 2647]; f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto [2647 1]. [II]. L'acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge. (1) Articolo così sostituito dall'art. 58 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi. InquadramentoL'art. 179 elenca i beni personali, che sono esclusi dalla comunione legale. Si tratta per lo più di beni che un coniuge possedeva prima del matrimonio o di beni acquisiti coi proventi di beni personali o di beni strettamente personali. Le fattispecie descritte nel comma 1 lett. f) e nel comma 2 sono decisamente le più problematiche e richiedono maggiore approfondimento, in quanto sono state oggetto di nutrito dibattito dottrinale e di pronunce giurisprudenziali di segno diverso. Le norme codicistiche sulla comunione legale si applicano anche alle unioni civili se non disposto diversamente dai costituenti con convenzione matrimoniale come sancito dall'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016; per cui la trattazione si estende anche alle unioni civili. Il regime patrimoniale nelle convivenze di fatto è invece regolato dai conviventi con un contratto di convivenza ex art. 1 comma 50 ss. della medesima legge. Ratio della normaL'art. 179 prevede alcune deroghe alla regola della comunione immediata degli acquisti: comprende in particolare due gruppi di ipotesi ben distinte (Gionfrida Daino, 483; Paladini, 40), e precisamente, un primo gruppo di beni — art. 179 lett. c) e d) —, che sono esclusi dalla comunione legale per scongiurare una inammissibile limitazione della libertà di autodeterminazione di ciascun coniuge nella sua sfera personale o professionale; ed un secondo gruppo di beni — lett. a), b), e), e f) — che il legislatore esclude dalla comunione legale perché non ne rispecchiano la ratio e le finalità (Ubaldi, 408): se, infatti, la solidarietà coniugale comporta la formazione di una comunione legale su tutti gli acquisti di beni effettuati grazie ai comuni sacrifici, è coerente con questa logica il fatto che l'art. 179 escluda dalla comunione i beni il cui acquisto non avviene impiegando i risparmi realizzati durante il matrimonio, ma beni e risorse personali del coniuge antecedenti al matrimonio o successivi ma che lui riceve da terzi senza l'apporto, neppure indiretto, dell'altro coniuge (Auletta, 383; contraOberto, 941). Analisi delle categorie di beni personali: i beni di cui un coniuge era proprietario prima del matrimonioI beni di cui un coniuge era proprietario prima del matrimonio restano personali e non cadono in comunione legale perché non scaturiscono dall'apporto neppure indiretto dell'altro coniuge (Cian-Villani, 338; Radice, 126). La dottrina maggioritaria ritiene che l'espressione «beni personali» non si limiti alla titolarità, prima del matrimonio, di diritti reali, ma comprenda l'intero patrimonio di un coniuge, ivi compresi i diritti di credito, i diritti personali di godimento e il denaro di cui ciascun coniuge era titolare prima del matrimonio (Corsi, 97; Schlesinger, 149; Russo, 136). È molto dibattuta l'inclusione tra i beni personali di un coniuge o in comunione legale degli acquisti a formazione progressiva, tra i quali si annoverano, in particolare, il contratto preliminare stipulato da un coniuge prima del matrimonio, ma con perfezionamento dell'acquisto dopo il matrimonio; l'opzione di cui è titolare un coniuge prima del matrimonio ma che viene esercitata dopo il matrimonio; il contratto di compravendita a rate, stipulato prima del matrimonio ma le cui rate vengono pagate in costanza di matrimonio; il contratto condizionato sospensivamente, stipulato prima del matrimonio, ma con avveramento della condizione dopo il matrimonio. L'orientamento dottrinale prevalente sostiene che, per considerare come personali i suddetti acquisti, occorre considerare il momento in cui si perfeziona giuridicamente l'acquisto, con la conseguenza che il bene rimane personale seppure l'esborso economico viene sostenuto dopo il matrimonio; quindi, secondo questa prospettiva, l'immobile acquistato dopo il matrimonio in ottemperanza di un preliminare stipulato da un coniuge prima del matrimonio, rientrerebbe tra i beni personali di quest'ultimo; la stessa conclusione vale per il contratto stipulato a seguito dell'esercizio di un diritto di opzione prematrimoniale; per il contratto di vendita a rate e per il contratto condizionato sospensivamente, in considerazione del fatto che con l'avveramento della condizione gli effetti giuridici del contratto retroagiscono al momento della stipula (Finocchiaro A. e M., 895; Auletta, 385; Gabrielli, 340; Paladini, 43; Ubaldi, 435; De Paola, 476; Di Martino, 115). A differente soluzione perviene altra parte, minoritaria, della dottrina, che ritiene fondamentale il momento in cui è stato sostenuto — almeno in prevalenza — il relativo esborso economico. Pertanto, secondo questa corrente di pensiero, ricadono in comunione legale l'immobile acquistato con rogito notarile definitivo dopo il matrimonio, ma in adempimento di un preliminare concluso da un solo coniuge prima del matrimonio; il bene acquistato dopo il matrimonio a seguito dell'esercizio del diritto di opzione di cui era titolare un solo coniuge prima del matrimonio; l'immobile acquistato a rate, laddove le rate siano state pagate dopo il matrimonio in attuazione di un contratto stipulato da un solo coniuge prima del matrimonio, ed anche il contratto sospensivamente condizionato, ove la condizione si avvera dopo il matrimonio, giacché in questo momento si determinerebbe l'esborso economico (Russo, 163; Schlesinger, 149; Barbiera, 433). Per quanto concerne la lett. A) in giurisprudenza di legittimità si è precisato che la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra a far parte del suo patrimonio per effetto delle disposizioni generali in materia di accessione, senza cadere in comunione legale. La tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale (non potendo quegli vantare, in mancanza di un apposito titolo o di una specifica disposizione di legge, alcun diritto di comproprietà, nemmeno superficiaria, sulla costruzione), bensì su quello meramente obbligatorio, potendo vantare il credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione (Cass., ord. n. 22193/2021); e nel caso di costruzione di un immobile in comunione legale su suolo di esclusiva proprietà di uno di due, al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all'onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell'onere della prova di aver fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le somme spese a tal fine (Cass., ord.n. 22193/2021). In una fattispecie relativa al rapporto tra contratto preliminare stipulato in costanza di comunione legale ma con trasferimento della titolarità del bene avvenuto dopo lo scioglimento della comunione medesima, la S.C. nell'importante sentenza Cass. n. 12466/2012 ha escluso che l'immobile cadesse in comunione legale coattivamente trasferito ex art. 2932 c.c. a causa dell'inadempimento del promittente venditore, al promissario acquirente, con sentenza passata in giudicato dopo che tra quest'ultimo ed il coniuge era stata pronunciata la separazione. È evidente come la Suprema Corte di Cassazione abbia dato rilievo al momento in cui si perfeziona l'acquisto rispetto al momento in cui è stato stipulato il contratto preparatorio. La soluzione proposta dalla S.C. di Cassazione è influenzata dall'affermazione, nell'ambito della rassegna giurisprudenziale del medesimo organo giurisdizionale, dell'orientamento che esclude dalla comunione legale i diritti di credito acquisiti da un solo coniuge (Cass. n. 11504/2016; Cass. n. 1548/2008; cfr. commento all'art. 177 c.c.). In applicazione del suddetto principio, deve ritenersi che anche nelle ipotesi di vendite ad effetti obbligatori (ad es. vendita di cosa futura) stipulate da un solo coniuge prima del matrimonio, occorre accertare il momento in cui si determina l'effetto reale di trasferimento della titolarità della res per includere il bene tra quelli personali del coniuge stipulante ovvero tra quelli in comunione legale. Sempre in tema di acquisti di immobili che rientrano tra i beni personali di un coniuge, recentemente si è precisato in giurisprudenza di legittimità che “nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2 c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f) c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi” (Cass., ord. n. 20336/2021; Cass. ord. n. 7027/2019). Nel caso di beni immobili personali del coniuge prima del matrimonio è stato precisato in giurisprudenza di merito che il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l'alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante, anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d'altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall'art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un'operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell'assetto patrimoniale del depositante. Interessante per i suoi profili applicativi è la precisazione operata in giurisprudenza di legittimità secondo cui nel procedimento di espropriazione del bene in comunione legale per crediti personali di uno solo dei coniugi, il beneficio di escussione dei beni personali del coniuge debitore e la sussidiarietà del cespite in comunione legale ex art. 189 c.c. devono essere fatti valere esclusivamente con lo strumento dell'opposizione all'esecuzione e non con una semplice eccezione formulata in sede di divisione endoesecutiva (Cass. n. 22210/2021). I beni oggetto di successione o donazioneSecondo la dottrina maggioritaria, l'esclusione di tali beni dalla comunione legale è coerente con i principi ispiratori di quest'ultima, in quanto i beni pervenuti ad un coniuge per successione o donazione non costituiscono arricchimenti ed incrementi patrimoniali riconducibili agli sforzi compiuti congiuntamente dai coniugi in costanza del rapporto matrimoniale, ma sono l'effetto di un fenomeno successorio o di atti di liberalità di terzi (Barbiera, 415; Schlesinger, 150; Zuddas, 449; Detti, 1158). Tale opinione appare condivisibile e si lascia preferire all'impostazione della dottrina minoritaria secondo cui la norma si fonderebbe sul criterio dell'intuitus personae; per cui, stante il carattere intrinsecamente personale delle disposizioni a titolo liberale o testamentario, essa mirerebbe a valorizzare la volontà del donante o del de cuius (in questo senso Bartolini-Gregori, 156). Vi è anche chi sottolinea come la disposizione in commento costituisca un retaggio della tradizione codicistica francese, giacchè le antiche coutumes francesi stabilivano che gli immobili donati o ricevuti per successione dagli ascendenti avrebbero dovuto ritenersi propres e come tali esclusi dalla communauté (Oberto). La formulazione della norma non pone problemi per quanto concerne la successione: la previsione include sia le disposizioni a titolo universale, che a quelle a titolo particolare, a prescindere dal titolo, legale o testamentario, del lascito (Gabrielli-Cubeddu, 35; Beccara, 161, i quali annoverano tra i beni personali pervenuti in successione anche i diritti che il coniuge legittimario, in tutto o in parte pretermesso, eventualmente ottenga per effetto dell'utile esercizio dell'azione di riduzione. Diversamente, la disposizione in commento ha sollevato contrasti in dottrina sulla esatta delimitazione applicativa dei beni pervenuti in donazione: ci si è chiesti in particolare se l'inciso «donazione», comprenda anche i beni acquisiti da un coniuge per effetto di una donazione indiretta e di una compravendita mista a donazione. In merito alla prima ipotesi, dei beni intestati ad un coniuge in virtù di una donazione indiretta, l'orientamento prevalente in dottrina ritiene che rientrino tra i beni personali (anche le donazioni remuneratorie e le donazioni obnuziali rientrano nel campo di applicazione della lettera b) in esame secondo De Paola, 480; Gabrielli-Cubeddu, 36 ed Auletta, 192). Si tratta, in particolare, dell'intestazione di un bene immobile ad uno dei coniugi ma acquistato con denaro fornito da un terzo — ad es. acquisto di un bene immobile destinato a casa coniugale effettuato da uno dei coniugi con denaro fornito dai suoi genitori —. Tale soluzione è preferita perché rispecchia la ratio della norma (condividono tale soluzione, Schlesinger; Cian-Villani, 396; Santosuosso, 103; Corsi, 101; Gabrielli-Cubeddu, 36; Russo, 177; Granelli, 450; D'Adda, 471; Paladini, 46; De Paola, 479; Auletta, 407; Radice, 130; A. Beccara, 221 ss.; Oberto, 961). La dottrina minoritaria (Cangiano, 66) opta per la soluzione opposta, ritenendo che debba prevalere il principio del favor communionis, per cui nei casi dubbi l'acquisto di un bene da parte di un coniuge deve ricadere sempre in comunione. Per quanto concerne l'ipotesi di negotium mixtum cum donatione – fatta eccezione per l'ipotesi della vendita nummo uno — la dottrina prevalente ritiene che il bene acquistato ricada in comunione (Schlesinger); una diversa corrente del medesimo pensiero chiarisce che il bene deve considerarsi acquisito alla comunione pro quota, nella misura corrispondente alla effettiva onerosità dell'acquisto (Cian-Villani, 397). Oramai la dottrina maggioritaria, muovendo dal testo dell'art. 179 lett b) seconda parte, ove viene richiamato il termine «liberalità» ne estende la portata applicativa a tutte le ipotesi di liberalità (Basini, 246; De Paola, 477; Morelli, 104; Gabrielli-Cubeddu, 36; Finelli, 274 ss.). La fattispecie concreta più rilevante, per i risvolti pratici e la ripetitività casistica, che la Cassazione ha dovuto affrontare, in tema di donazione indiretta, attiene all'acquisto di un immobile da adibire a casa coniugale effettuato da un coniuge personalmente dopo il matrimonio ma con denaro fornitogli dai genitori. Tutte le pronunce in materia emesse dalla S.C. di Cassazione hanno escluso tali acquisti, che configurano una donazione indiretta, dalla comunione legale, includendoli tra i beni personali ex art. 179 lett. b). La più atavica pronuncia in tal senso è la Cass. n. 11327/1997 ove la S.C. ha precisato che l'inciso «liberalità», richiamato espressamente nella seconda parte della disposizione in commento, non consente di limitarne la portata alle sole liberalità previste dall'art. 769 c.c. per cui il testo della disposizione non è assolutamente incompatibile con la donazione indiretta, che pertanto ricade nel suo ambito di applicazione e non in comunione legale (in senso conforme Cass. n. 4680/1998). Nell'articolata motivazione della sentenza, la S.C. ha evidenziato che nell'ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l'acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest'ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il collegamento tra l'elargizione del danaro paterno e l'acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell'immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Fatta questa premessa, la S.C. conclude che nella suddetta ipotesi, il bene acquisito è ricompreso tra quelli esclusi dalla comunione legale, ai sensi dell'art. 179, lett. b), senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio — mezzo con l'arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità. Il principio di diritto è stato confermato integralmente nella successiva sentenza Cass. n. 15778/2000, ove la fattispecie concreta posta all'attenzione del Supremo Consesso giurisdizionale riguardava l'acquisto di un immobile da parte di uno dei coniugi successivamente al matrimonio, ma con diretto versamento di un acconto alla cooperativa venditrice, ad opera del genitore di lui all'atto dell'assegnazione dell'immobile stesso, mentre per il prezzo residuo il coniuge intestatario aveva stipulato un mutuo con pagamento delle relative rate da parte del genitore che aveva già versato l'acconto. La S.C. ha ritenuto che l'intestazione formale del mutuo al coniuge disponente non fosse ostativa alla configurabilità di una donazione indiretta e per l'effetto ha escluso l'acquisto dell'immobile dalla comunione legale dei coniugi, ricomprendendolo nell'ambito dei beni personali del coniuge acquirente ex art. 179 lett. b) (in senso conforme in giurisprudenza di merito, Trib. Monza 13 luglio 2006, in Giur. mer., 2007, 2, 372). Il principio di diritto enunciato si è consolidato nelle sentenze successive della Cassazione, ove è stato ribadito in modo incisivo che la donazione indiretta rientra nell'esclusione di cui all'art. 179, comma 1, lett. b), senza che sia necessaria l'espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall'art. 179, comma 1, lett. f), né la partecipazione del coniuge non acquirente all'atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell'altro coniuge acquirente ai sensi dell'art. 179, comma 2, (Cass. n. 14197/2013 e Cass. n. 19513/2012). Passando al denaro, gli Ermellini hanno precisato in Ord. n. 9197/2023 che il deposito di denaro o di titoli, non rientranti nella comunione in quanto beni personali ai sensi dell'art. 179, comma 1, lett. b), c.c., in un conto cointestato tra i coniugi in comunione legale, non può essere configurato come donazione indiretta all'altro coniuge, se non c'era l'intenzione dell'ex coniuge di effettuare un atto di liberalità. Un altro problema, riconducibile alla tematica dell'art. 179 lett. b), affrontato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, attiene alle donazioni simulate. Potrebbe, infatti, accadere che un coniuge in regime di comunione legale, che intenda acquistare un bene immobile, si accordi con il venditore per simulare la compravendita con una donazione, al fine di sottrarre il bene alla comunione coniugale, stipulando con lui contestualmente l'atto dissimulato in cui versa il prezzo pattuito. Analogo risultato può derivare dall'acquisto per interposizione fittizia di persona, allorchè il coniuge acquisti un bene intestandolo ad un terzo, fiduciario, al fine di sottrarlo alla comunione legale ex art. 177 lett. a) c.c. In proposito, si è ritenuto che l'altro coniuge possa esperire, allo scopo di far ricadere il bene in comunione, l'azione di simulazione in qualità di terzo pregiudicato ai sensi dell'art. 1415, comma 2, c.c. avvalendosi della libertà della prova di cui all'art. 1417 c.c. (cfr. Zuddas, 464 ss.). Si pone, altresì, il problema della tutela dei creditori; infatti, mentre i creditori personali del coniuge acquirente (art. 189 c.c.) hanno interesse a far prevalere l'apparenza sulla realtà, al contrario i creditori della comunione legale (art. 186 c.c.) hanno l'opposto interesse (al pari del coniuge non acquirente) a dimostrare la simulazione, allo scopo di aggredire esecutivamente, con priorità (art. 189 c.c.), il bene acquistato. Sebbene nel caso di specie il coniuge contraente è in ogni caso titolare del diritto, sia che lo si consideri titolare esclusivo del bene, sia che lo si consideri contitolare in comunione legale, una impostazione dottrinale convincente sostiene l'applicabilità in via analogica dell'art. 1416, c.c., così equiparando, ai fini della soluzione del conflitto, ai creditori del simulato alienante i creditori della comunione legale, e ai creditori del simulato acquirente i creditori personali del coniuge apparente donatario, e consentendo in tal modo ai creditori della comunione legale di far valere la simulazione e di prevalere sui creditori personali chirografari del coniuge donatario-apparente, in caso di conflitto (Paladini, 49). La soluzione proposta dalla dottrina richiamata è stata accolta in pieno nelle pronunce giurisprudenziali emesse con riferimento alla fattispecie descritta. Si è statuito, infatti, che il coniuge in regime di comunione legale, estraneo all'accordo simulatorio, è terzo, legittimato a far valere la simulazione con libertà di prova, ai sensi degli artt. 1415, comma 2, e 1417 c.c., rispetto all'acquisto di un bene non personale, effettuato dall'altro coniuge durante il matrimonio con apparente intestazione a persona diversa, atteso che tale simulazione impoverisce il patrimonio della comunione legale, sottraendogli il diritto previsto dall'art. 177, lett. a), c.c. (Cass. n. 1737/2013; la prima sentenza in cui è stato affermato il suddetto principio di diritto è la Cass. n. 7470/1997. Il medesimo principio verrà successivamente ribadito in Cass. n. 13634/2015). Commentando ora, la seconda parte dell'art. 179 lett. b) c.c., che prevede, in deroga alla prima parte, la possibilità di destinare alla comunione legale i beni acquistati da uno dei due coniugi tramite liberalità o disposizione testamentaria, a condizione che tale destinazione sia specificamente indicata nell'atto (successione o donazione) tramite il quale l'acquisto si è concretizzato, la migliore dottrina sottolinea, in modo condivisibile, che la volontà di attribuzione dell'acquisto alla comunione legale deve essere espressa nell'atto in modo chiaro ed inequivoco, al fine di evitare che il bene sia attribuito personalmente ad entrambi i coniugi, ricadendo in comunione ordinaria ex art. 1110 ss. c.c. Se ad es. il disponente dona i beni ai coniugi genericamente, il bene rientrerà nel loro patrimonio personale in virtù dell'effetto legale della prima parte dell'art. 179 lett. b), di guisa che sul bene si istituirà una comunione ordinaria ex art. 1110 c.c. Per far ricadere l'acquisto in comunione legale ex art. 177 c.c., ai sensi della seconda parte dell'art. 179 lett. b) il disponente deve espressamente dichiarare nell'atto tale destinazione (in tal senso Schlesinger, 397; Corsi, 100.; Cian-Villani, 354; Santosuosso, 104; Gabrielli-Cubeddu, 37; Auletta, 187; Cera, 404 ss.). I beni di uso strettamente personaleLa lett. c) dell'art. 179 esclude dalla comunione legale tra i coniugi i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge. L'avverbio «strettamente» ha indotto parte della dottrina ad offrirne un'interpretazione rigorosa e restrittiva, tendente a comprendere in tale categoria i beni che per loro natura non possono essere utilizzati da un solo coniuge, come ad es. i capi di abbigliamento, i gioielli, ecc. (Schlesinger, 152; Corsi, 104; Gabrielli-Cubeddu, 64; De Paola, 484). La dottrina prevalente, tuttavia, ha sposato un'interpretazione estensiva della disposizione in commento, ritenendo che essa inglobi anche i beni che in astratto sono suscettibili di essere utilizzati da entrambi i coniugi, ma che, in concreto, sono stati utilizzati da uno solo di essi, sin dal momento del loro acquisto, con il riconoscimento espresso o tacito dell'altro (Finocchiaro A. e M., 997; Russo, 196; Galasso, 282; Bellelli, 468; Dogliotti, 388; Beccara, 235). Secondo questa prospettiva, anche un'autovettura, un immobile o un box garage possono rientrare tra i beni di uso strettamente personale se sono utilizzati esclusivamente da un coniuge. Nello stabilire se un bene è di uso strettamente personale, è irrilevante la provenienza del denaro necessario al loro acquisto: tali beni, infatti, possono essere acquistati anche grazie ad un prestito personale dell'altro coniuge, o con denaro ricadente in comunione legale. In quest'ultimo caso, il denaro impiegato dovrà essere rimborsato dal coniuge che ne ha usufruito all'atto dello scioglimento della comunione (Paladini, 53). Affinché un bene ricada nell'ambito di applicazione dell'art. 179 lett. c) è irrilevante il momento in cui un coniuge abbia iniziato ad utilizzarlo per scopi lavorativi, ben potendo accadere che un bene, inizialmente acquistato per soddisfare le esigenze di entrambi i coniugi (es. autovettura o immobile), solo in un secondo momento sia stato destinato all'attività professionale di uno solo di essi, a seguito di un mutamento di circostanze o di un accordo successivo tra i coniugi (Auletta, 197). Secondo accorta dottrina, a differenza dei beni previsti nelle lett. a) e b), i beni di uso strettamente personale non possono essere oggetto di comunione neppure per volontà dei coniugi espressa in una convenzione matrimoniale. La ratio di tale divieto si rinviene nell'opportunità di salvaguardare una «sfera minima» di autonomia ed individualità patrimoniale di ciascun coniuge, che si traduce nell'inammissibilità di una comunione di tipo universale (Gabrielli, 25; Russo, 170; Quadri, 399; De Paola, 722; Confortini, 304). La giurisprudenza di legittimità e di merito si è allineata all'opzione ermeneutica che offre una lettura estensiva della disposizione. In questa prospettiva, una collezione di minerali raccolta durante il matrimonio da un solo coniuge è stata considerata come suo bene personale (App. Milano 24 maggio 1991, in Giust. civ. 1992, I, 3175); anche un immobile è stato configurato di uso strettamente personale se accompagnato dalla dichiarazione dell'altro coniuge ex art. 179 comma 2(Cass. n. 322/2012). I beni destinati all'esercizio di una professioneLa lett. d) mira a consentire a ciascun coniuge la disponibilità esclusiva degli strumenti adibiti all'esercizio dell'attività professionale, in modo che sia conservata la piena autonomia e libertà nello svolgimento dell'attività lavorativa, nel pieno rispetto dei diritti costituzionali che garantiscono la affermazione della persona nell'esplicazione di una professione (Schlesinger; Russo, 207 ss., che richiama in discorso gli artt. 2,35 e 41 Cost.). In senso fortemente critico di quest'impostazione, un autore ha sottolineato che la realizzazione della personalità del coniuge attraverso l'esercizio della professione può configurarsi parimenti anche nell'ipotesi in cui i beni strumentali siano di proprietà di entrambi i coniugi (in comunione legale o ordinaria), ovvero appartengano soltanto all'altro coniuge o a un terzo, per cui non si comprende perché il diritto del coniuge alla libera espressione della personalità o la tutela del lavoro debbano richiedere necessariamente la «proprietà» dei beni destinati all'esercizio della professione (Paladini, 933 ss.). In dottrina è imperante l'interpretazione estensiva dell'espressione «professione», in cui rientra qualsiasi attività lavorativa personale del coniuge, sia di tipo autonomo che subordinato (così Russo, 204; Detti, 1160; Gionfrida Daino, 481; De Paola, 485; Santosuosso, 109; Oberto, 1009, Radice, 152). Il rapporto di strumentalità fra il bene acquistato e l'attività lavorativa di un coniuge deve essere valutato in senso oggettivo: è irrilevante l'eventuale volontà del coniuge di considerare l'acquisto come strumentale al proprio lavoro se questa volontà non si traduce in effettiva destinazione, così come, di fronte all'effettiva utilizzazione del bene nell'ambito dell'attività lavorativa di un coniuge, è irrilevante se il bene sia davvero indispensabile ovvero se l'attività professionale possa essere agevolmente svolta anche prescindendone (Gionfrida Daino, 488; De Paola, 486; Oberto, 1014). Particolarmente problematica è l'ipotesi in cui i beni possano essere utilizzati da entrambi i coniugi che svolgono la medesima professione (ad es. testi o riviste giuridiche per due avvocati coniugati): in tal caso infatti non sussistono ragioni di tutela individuale, giacché la medesima professione è svolta da entrambi i coniugi, che hanno parimenti interesse ad utilizzare i beni e strumenti acquistati da uno solo di loro due. Sul punto, la dottrina è divisa tra chi ritiene che i suddetti beni ricadano in comunione legale (Auletta, 200; Gabrielli, 68; Gionfrida Daino, 484) e chi sostiene diversamente, che i beni strumentali alla professione sarebbero esclusi dalla massa della comunione legale, anche in ragione del divieto contenuto all'art. 210, comma 2, c.c. e sui quali al limite potrebbe costituirsi una comunione ordinaria (De Paola, 485). La dottrina si è interrogata, altresì, sulla sorte giuridica dei beni destinati all'esercizio della professione in caso di mutamento di destinazione del bene: il quesito riguarda sia il bene comune che poi viene adibito a strumento professionale (ad es un'autovettura acquistata inizialmente per le esigenze della famiglia, ma in un secondo momento utilizzata esclusivamente da un coniuge per svolgervi l'attività di rappresentante di commercio), sia il bene acquistato inizialmente da un coniuge per l'esercizio della professione, ma che successivamente venga sottratto a tale utilizzazione. Secondo un primo orientamento il mutamento di destinazione non inciderebbe sul regime giuridico del bene, che si acquisisce al momento dell'acquisto e della destinazione inizialmente impressa (Schlesinger, 154; Corsi, 106; Paladini, 55; De Paola, 483; Detti, 1162). Un'altra corrente di pensiero sostiene che il venir meno della destinazione originariamente professionale del bene acquistato, ne comporti l'acquisizione alla comunione legale (Barbiera, 424; Auletta, 424; SEGNI, 620; Bellelli, 472; Gionfrida Daino, 490; Santosuosso, 108). In merito ai rapporti tra i beni di uso professionale ed i beni della comunione legale, secondo l'opinione prevalente, se il bene destinato all'esercizio della professione viene acquistato utilizzando i frutti o i proventi di un coniuge, la sottrazione di tali risparmi alla comunione è definitiva in quanto il bene acquistato rientra nella categoria dei beni definitivamente personali (Beccara, 242; Bellelli, 474; Auletta, 419). In senso difforme, parte minoritaria della dottrina sostiene che l'art. 179, lett. d) costituisce un'eccezione alla regola contenuta nell'art. 177, lett. a), ma non una deroga all'art. 177, lett. b ) e c), conseguendone che, nel caso in cui un coniuge utilizzi il reddito della propria attività lavorativa, o i frutti dei propri beni, per acquistare beni destinati al servizio della professione, l'acquisto resta (definitivamente) personale; tuttavia il reddito non può dirsi «consumato» e dunque del valore di tali beni si dovrà tenere conto, al momento dello scioglimento della comunione, per determinare il credito di un coniuge nei confronti dell'altro ai sensi dell'art. 177, lett. b) e c) (Rimini, 279). Non vi sono molte pronunce della giurisprudenza di legittimità sulla lett. d) dell'art. 179 È certamente rilevante la sentenza della Cass. S.U., n. 22755/2009 in cui si è precisato che la dichiarazione resa nell'atto dall'altro coniuge non acquirente in ordine alla natura personale del bene, si atteggia diversamente a seconda che tale natura dipenda dall'acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente o dalla destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione di quest'ultimo, assumendo nel primo caso natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, ed esprimendo nel secondo la mera condivisione dell'intento del coniuge acquirente. Da ciò le S.U. hanno tratto la conclusione che la dichiarazione sulla personalità del bene acquistato non rileva se a tale dichiarazione non si accompagna l'effettiva destinazione del bene all'esercizio della professione dell'altro coniuge. Un altro profilo interessante giudicato dalla giurisprudenza attiene alla differenza e sovrapponibilità tra i beni destinati all'esercizio dell'impresa (art. 178 c.c.) e della professione (art. 179 lett. d). La differenza sta nel fatto che i primi ricadono in comunione de residuo al momento della scioglimento della comunione medesima, mentre i secondi restano definitivamente acquisiti nel patrimonio personale del coniuge acquirente (Cass. n. 7060/1986). Sotto il profilo fiscale da segnalare la pronuncia della Cass. n. 2619/2022, secondi cui in tema di IRPEF, qualora un bene sia stato acquistato da un coniuge in regime di comunione legale, ma rientri nell'attività d'impresa esercitata separatamente, la plusvalenza conseguita dal maggior prezzo di cessione è fiscalmente imputata per l'intero al coniuge esercente l'impresa, costituendo esso il provento della propria attività e trovando la fattispecie regolazione nell'art. 4, lett. a), secondo periodo, del d.P.R. n. 917 del 1986. I beni ottenuti a titolo di risarcimento danni e di pensione di invalidità.Sulla prima parte della formulazione dell'art. 179 lett. e) c.c. è sorto un contrasto di opinioni in dottrina tra alcuni autori, che ritengono che debbano esservi compresi i beni ottenuti a qualsiasi titolo di risarcimento danni, sia patrimoniale che non patrimoniale, sia se causato da un illecito contrattuale che extracontrattuale (Corsi, 111; Auletta, 426; De Paola, 460; Gabrielli, 342; Santosuosso, 110), ed altri che sostengono che la disposizione in commento comprenda esclusivamente i risarcimenti dei danni alla persona del coniuge causati dal fatto illecito del terzo (Russo, 213 Schlesinger, 155; Paladini, 57 e Beccara, 245 ss.). Questa seconda chiave di lettura è incoraggiata dalla proposizione correlativa «nonché» che collega la prima parte alla seconda, che richiama la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa, così intendendo che solo tutto quanto riceva un coniuge dalla lesione della sua integrità psicofisica rientri tra i suoi beni personali ai sensi dell'art. 177 lett. e) c.c. (Schlesinger, 155; Russo, 210; Beccara, 245 ss.). A supporto di tale opzione ermeneutica, i citati autori ricordano anche che le prime formulazioni del testo di legge contenute nei lavori preparatori facevano menzione al danno morale e al danno fisico patito dal coniuge (tale argomentazione è riportata in Schlesinger, 400), per cui appare nettamente preferibile restringere l'ambito di applicazione della previsione normativa ai risarcimenti ottenuti dal coniuge per danni alla sua persona, sia di natura patrimoniale che non patrimoniale (Schlesinger, 401; Auletta, 210). Lo scrivente ritiene preferibile, diversamente, la lettura estensiva della disposizione, secondo cui i beni ottenuti a titolo di risarcimento non riguarda solo i danni da lesione dell'integrità psicofisica del coniuge, ma anche quelli di natura patrimoniale cagionati da illecito contrattuale del terzo; ciò per le seguenti motivazioni: in primo luogo, si sottolinea che, proprio in virtù del fatto che nel testo finale dell'art. 179 lett e) si richiamano genericamente i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, con espunzione dei riferimenti al danno morale e al danno fisico patito dal coniuge, contenuti nei lavori preparatori, appare evidente che la scelta definitiva del legislatore è mirata ad ampliare il più possibile la sfera patrimoniale del coniuge danneggiato, senza limitazioni quanto alla fonte del risarcimento. In secondo luogo, la previsione contenuta nella seconda parte dell'art. 179 lett. e) non esclude o limita i titoli e le fonti del risarcimento danni. In terzo luogo, l'opzione per la vocazione applicativa onnicomprensiva del risarcimento del danno evita il verificarsi di situazioni inique e pregiudizievoli, rispecchia la ratio ispiratrice della previsione normativa sui beni personali dei coniugi ed in ultimo impedisce la formazione di contenzioso tra i coniugi sulla natura personale o comune dei risarcimenti conseguiti. Per comprendere appieno quest'ultima affermazione, si pensi al danno patrimoniale cagionato da un illecito contrattuale (ad es. inadempimento di un contratto preliminare di vendita o di acquisto di un bene) o extracontrattuale (ad es. distruzione o deterioramento di un bene): se il bene oggetto del preliminare, oppure quello deteriorato o distrutto, già appartiene alla comunione legale, non vi è dubbio che il risarcimento che sarà versato dal danneggiante ricadrà ugualmente in comunione; ma se il bene distrutto dal fatto illecito del terzo rientra nel patrimonio personale del coniuge, il relativo risarcimento ricadrebbe in comunione se non vi fosse la opportuna previsione dell'art. 179 lett. e) c.c. che lo configura quale bene personale del coniuge danneggiato, appunto per tutelarne la sfera giuridica patrimoniale. Per quanto concerne la seconda parte della norma, ove si richiama la pensione per la perdita totale o parziale della capacità lavorativa, la dottrina maggioritaria ne offre un'interpretazione estensiva volta a comprendere ogni prestazione previdenziale o assistenziale erogata a tale titolo (De Paola, 565; Beccara, 186). Con riferimento alla pensione di invalidità, richiamata dalla seconda parte dell'art. 179 lett. e) c.c. la Corte di Cassazione si distacca nettamente dall'opinione della dottrina maggioritaria; infatti, in un'interessante pronuncia ha evidenziato che l'indennità di accompagnamento non è indirizzata al sostentamento dei soggetti minorati nelle loro capacità di lavoro, ma è configurabile come misura di integrazione e sostegno del nucleo familiare, incoraggiato a farsi carico di tali soggetti, evitando così il ricovero in istituti di cura e assistenza, con conseguente diminuzione della relativa spesa sociale; e pertanto ha concluso statuendo che la somma corrisposta a tale titolo rientra nella comunione legale tra coniugi, non essendo equiparabile alla pensione attinente alla perdita totale o parziale della capacità lavorativa, prevista dalla lett. e) dell'art 179 (Cass. n. 8758/2005, conforme a Cass. n. 1082/1998). I beni per surrogazione.L'art. 179 lett. f) c.c. include tra i beni personali del coniuge quelli acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali o col loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto. La ratio della previsione è evidente. I beni acquistati da un coniuge col prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio non costituiscono un incremento patrimoniale, ma realizzano unicamente una modifica qualitativa e non quantitativa della composizione del patrimonio del coniuge acquirente; non sussistono i presupposti affinché operi il meccanismo legale di cui all'art. 177, lett. a) c.c., poiché nella fattispecie in commento si assiste semplicemente ad una sostituzione della res nel patrimonio del disponente. Altro autore (Paladini, 59) sostiene che il legislatore ha con la norma in commento inteso evitare che la circolazione dei beni personali fosse ostacolata o limitata dal timore dei coniugi che il reinvestimento dei proventi della loro alienazione divenga automaticamente oggetto di comunione legale. Si tratta di un'impostazione non condivisibile, laddove si pensi che con una convenzione matrimoniale ex art. 210 c.c. i coniugi possono includere in comunione legale anche i beni acquistati in surrogazione da altro coniuge. Quindi la ratio della disposizione non riposa sull'esigenza di assicurare la libera circolazione dei beni, ma semplicemente sul dato oggettivo che il patrimonio del coniuge disponente non muta, per cui, se gli acquisti per surrogazione fossero ricompresi nella comunione legale, verrebbe tradito lo spirito e la finalità proprio di quest'ultimo istituto, poiché si estenderebbe ad acquisti che non costituiscono il frutto di sacrifici e sforzi profusi da entrambi i coniugi. Quanto all'oggetto degli acquisti per surrogazione, vi rientrano anche gli acquisti di beni in sede di divisione di una comunione, o di liquidazione di una società della quale fosse socio un coniuge (Scarano, 563; Lo Sardo, 779). La dottrina più accorta (Auletta, 434; Corsi, 114) critica la formulazione della norma ove fa riferimento ai beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei «beni personali sopraelencati», in quanto riduttiva, dovendosi comprendere tra i beni personali di un coniuge anche gli acquisti successivi al matrimonio con denaro già appartenente al coniuge disponente prima delle nozze (Cian-Villani, 396; Russo, 224; Gabrielli, 345; Finocchiaro A. e M., 988; Oberto, 1032; Lo Sardo, 811; Beccara, 249) oppure con denaro scaturito dal prezzo del trasferimento di un bene a sua volta personale per surrogazione (Gabrielli; Lepri, 119; Beccara) oppure con impiego di diritti di credito personali di un coniuge (Scarano, 533; Radice, 148). Il richiamo ai «beni personali sopraelencati» è impreciso, perché comprenderebbe secondo la lettera della norma anche i beni acquistati con il prezzo del trasferimento o con lo scambio di beni di uso strettamente personale o destinati all'esercizio della professione; ma tali acquisti ricadono in comunione legale, se il bene acquistato non è, a sua volta, di uso strettamente personale ovvero destinato all'esercizio della professione (Gabrielli; Scarano, 547; contra Russo, 223; De Paola, 492; Silvestri, 563; Lo Sardo, 776). Non sono suscettibili di surrogazione i beni che, pur essendo personali, sono destinati a cadere in comunione de residuo (Oberto, 1033; contra Barbiera, 457); come ad es. gli acquisti effettuati con i proventi dell'attività di un coniuge (Russo, 144; Beccara, ibidem). La norma richiede che la circostanza che il bene sia acquistato con il prezzo della cessione ovvero lo scambio di un bene già personale debba essere oggetto di una specifica dichiarazione del coniuge non acquirente. Si tratta, secondo l'orientamento prevalente, di una dichiarazione di scienza, avente natura ricognitiva (Majello, 6; Pitrone, 817; Radice, 153; Pino, 114). Altri autori sostengono, in senso contrario, che si tratti di una dichiarazione di volontà (Auletta, 435; Paladini, 60; SEGNI, 622; Lo Sardo, 808; Beccara, 258). A parere dello scrivente è nettamente preferibile la prima impostazione; appare evidente dalla formulazione della norma che la dichiarazione del coniuge non disponente ha la funzione di esprimere nel mondo giuridico esterno la sua consapevolezza che l'acquisto viene eseguito con il prezzo o lo scambio di beni personali dell'altro coniuge e non con incrementi patrimoniali scaturiti da attività lavorativa o imprenditoriale (in tal caso il bene acquistato ricadrebbe in comunione legale). Secondo un autore la ratio della previsione è di imporre che la connessione fra un acquisto e i mezzi personali necessarie non sia ricostruita ex post (Scarano, 530). La dichiarazione deve perciò essere anteriore o contemporanea, ma non successiva, all'acquisto (Gabrielli-Cubeddu, 53; De Paola, 494; Pino; Lo Sardo, 812). Lo scrivente evidenzia che un'ulteriore funzione della norma è di prevenire il contenzioso tra i coniugi sulla proprietà del bene acquistato all'atto dello scioglimento della comunione legale, da un lato, e di conferire certezza ai rapporti giuridici, anche nell'interesse dei creditori particolari del coniuge disponente e di quelli della comunione legale, dall'altro. Alcuni autori sottolineano la necessità che la dichiarazione contenga la specifica indicazione dei beni personali surrogati o alienati (Cian-Villani, 398; Corsi, 116; De Paola, 493; Lo Sardo, 811; Russo, 231; Silvestri, 572); ma la dottrina maggioritaria ritiene sufficiente una dichiarazione in cui si affermi il carattere personale dell'acquisto senza specifico riferimento ai beni surrogati (Schlesinger, 157; Gabrielli-Cubeddu, 54; Finocchiaro A. e M., 1013; Galasso, 286; Oberto, 1049; Radice, 152; Rimini, 267). La dottrina maggioritaria sostiene altresì che la forma della dichiarazione è libera (Schlesinger; Gabrielli-Cubeddu; Finocchiaro A. e M.; Radice, 153; Corsi, 115), ma si dissente da tale impostazione: se la dichiarazione accede ad un acquisto del diritto di proprietà o altro diritto reale su un bene immobile, la dichiarazione deve possedere la stessa forma scritta ad substantiam dell'atto cui accede; inoltre, con riferimento agli acquisti di beni per i quali non è richiesta la forma scritta ad substantiam, appare comunque opportuno che il coniuge disponente si munisca di un atto avente data certa ai sensi dell'art. 197 c.c. al fine di non tradire la ratio della norma di conferire certezza nei rapporti giuridici coi creditori particolari della comunione legale o del coniuge disponente (in tal senso in dottrina cfr. Santosuosso, 113; Barbiera, 429; Cian-Villani, 398; Corsi, ibidem; Schlesinger, ibidem; Gabrielli-Cubeddu55). Secondo la dottrina prevalente, la dichiarazione dell'acquirente è una condizione necessaria perché l'acquisto sia personale (Oberto, 1040); secondo altri autori, essa rileverebbe solo ai fini della prova della personalità del bene (Finocchiaro A. e M., 1014; Regine, 551). Tale seconda impostazione appare consigliabile, giacchè la dichiarazione del coniuge non disponente non può inferire sull'effetto legale di inclusione dell'acquisto tra i beni personali di un coniuge se non vi è contestazione che l'acquisto realizzi il reinvestimento di denari o di beni personali (ad es. quando i coniugi non hanno acquistato beni immobili o mobili registrati dopo il matrimonio ed uno dei due abbia ereditato un bene immobile. Ove quest'ultimo viene venduto per acquistarne un altro, è evidente che tale ultimo acquisto sia in surrogazione di un bene personale e ricada quindi nell'ambito di applicazione dell'art. 179 lett. f), c.c., a prescindere dalla dichiarazione dell'altro coniuge). Diversamente, la dichiarazione del coniuge non disponente potrebbe essere risolutiva, ai fini probatori, in caso di contestazione sulla surrogabilità o meno dell'acquisto compiuto dall'altro (ad es. viene venduto un bene immobile intestato ad un solo coniuge ed acquistato dopo il matrimonio, col cui ricavato lo stesso coniuge ne acquista un altro. Potrebbe sorgere una contestazione sulla qualificazione del primo immobile come personale o come oggetto della comunione. La dichiarazione dell'altro coniuge ex art. 179 lett. f) c.c. dirimerebbe la questione). Sull'oggetto dei beni personali sanciti nell'art. 179, lett f), c.c. si è precisato in giurisprudenza che vi rientrano anche gli acquisti di beni dopo il matrimonio ma con impiego di denaro già appartenente ad un coniuge prima delle nozze (Cass. n. 9307/1996) oppure di denaro depositato su un conto corrente sul quale era stato in precedenza accantonato il ricavato della vendita di un bene personale (Cass. n. 1197/2006). In merito a quest'ultima ipotesi si segnala un recente orientamento espresso in giurisprudenza di merito secondo cui “Al corrispettivo della vendita, seppur versato su un conto corrente in comunione con il coniuge, qualora si dimostri che le somme non sono state versate a titolo di donazione ma abbiano diversa natura giuridica, non si applica la regola della contitolarità del denaro versato sul conto corrente cointestato. Questo avviene, ad esempio, nel caso in cui la parte provi che le somme depositate sul conto cointestato provengano da un conto intestato solo ad uno dei due titolari o che siano il prezzo della vendita di beni personali o che siano il salario del proprio lavoro. Tutto ciò può essere dimostrato anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti dalle quali è possibile dedurre l'esistenza di una diversa situazione giuridica relativamente alla titolarità delle somme depositate sul conto. Il requisito della proprietà esclusiva delle somme può essere desunto proprio dalla prova documentale dell'esclusiva provenienza del denaro da uno solo dei cointestatari del conto” (Tribunale Roma, 17 maggio 2021). Gli Ermellini hanno altresì precisato che il riferimento ai "beni sopraelencati", cioè quelli specificati alle lett. a) -e), contenuto nella lett f) non consente di annoverare fra gli stessi il denaro contante, che si trovi nella disponibilità del coniuge acquirente, senza che dello stesso possa tracciarsene la provenienza, la quale deve essere, per legge, dipendente dalla vendita o permuta (significativo, infatti, che la norma parli di "scambio", non potendosi ipotizzare un tal fenomeno per il possesso del denaro tout court) di uno dei beni di cui alle lettere da a) a e), diversamente, infatti, lo scopo della norma (impedire elusioni del regime della comunione, assicurando, ad un tempo, l'esclusività dei beni che siano effettivamente personali, nel rispetto della griglia di ipotesi di cui alle lett. a)-c) del comma 2 dell'articolo in esame) resterebbe irrimediabilmente frustrato (Cass., ord.n. 26981/2018 e Cass. ord. n. 29342/2018). La Suprema Corte ha, in altra pronuncia, tracciato gli elementi differenziali tra i beni acquistati da un coniuge per surrogazione ex art. 179 lett f) c.c. e quelli acquistati con i proventi della sua attività imprenditoriale, destinati a cadere in comunione de residuo ex art. 178 c.c. In particolare, il Supremo Consesso ha evidenziato che l'art. 178 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all'impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale "de residuo", e per i quali non opera il meccanismo previsto dall'art. 179, comma 2, c.c., rimanendo esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indicazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all'atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un'oggettiva destinazione all'attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall'essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell'individuo (Cass. n. 19204/2015). In merito al problema della natura ricognitiva o volontaristica della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente, la S.C. di Cassazione, a S.U., ha sposato la tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria, evidenziando che detta dichiarazione ha portata confessoria sulla provenienza del denaro a tal fine utilizzato, sicché l'azione di accertamento negativo della natura personale di quel bene postula la revoca della menzionata confessione stragiudiziale nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., cioè per vizio del consenso derivante da errore di fatto o violenza (Cass. S.U. n. 22755/2009; confermata successivamente da Cass civ. n. 23565/2016; in precedenza il suddetto principio fu già espresso in sentenza Cass. n. 6120/2008). In un'altra pronuncia, oltre a ribadire tale assunto, la S.C. ha aggiunto che l'efficacia confessoria della dichiarazione resa dal coniuge non disponente rileva solo nei rapporti con l'altro coniuge; non può essergli opposta dai coeredi che lo convengono in un altro giudizio per l'accertamento della configurabilità del menzionato acquisto come donazione indiretta di quello stesso bene in favore del coniuge da ultimo indicato, in quanto sarebbero terzi rispetto all'atto ove è contenuta la dichiarazione confessoria (Cass. n. 19513/2012). Circa la necessarietà o meno della dichiarazione del coniuge non disponente, la giurisprudenza di legittimità ha avallato la tesi secondo cui tale dichiarazione, pur non essendo meramente facoltativa, né possedendo natura dispositiva, ma ricognitiva della sussistenza dei presupposti per l'acquisto personale, è necessaria solo quando la natura dell'acquisto sia obbiettivamente incerta, per non essere accertato che la provvista necessaria costituisca reinvestimento del prezzo di beni personali (Cass. civ. n. 24061/2008). In tale ipotesi, in una pronuncia successiva la S.C. ha addirittura sostenuto la non necessità della dichiarazione del coniuge non disponente (Cass. n. 10855/2010) I beni immobili o mobili acquisiti dopo il matrimonio la cui esclusione dalla comunione legale risulti da atto scrittoIl comma 2 dell'art. 179 prevede che per configurare gli acquisti di un bene immobile o di un mobile registrato come beni personali, nelle ipotesi previste dalle lett. c), d) e f) del comma 1, occorre la dichiarazione del coniuge non disponente di esclusione dei suddetti acquisti dalla comunione legale. La disposizione in esame si raccorda con l'art. 2647, comma 1, c.c. che, nelle stesse ipotesi, prevede la trascrizione nei registri immobiliari dell'acquisto a favore del solo coniuge acquirente. Secondo l'opinione prevalente in dottrina, la sussistenza dei requisiti previsti dalle lett. c), d) e f) perché un bene abbia natura personale può essere affermata, in relazione agli immobili e ai beni mobili registrati, solo se l'esclusione del bene dalla comunione legale risulti dall'atto di acquisto e che di tale atto sia stato parte anche l'altro coniuge (Detti, 1166; Beccara, 261 ss.). Una parte della dottrina sostiene invece che la partecipazione dell'altro coniuge all'acquisto non sarebbe necessaria per affermare la natura personale del bene acquistato, ma rileverebbe solo sul piano probatorio nel senso che, in caso di acquisto senza la partecipazione dell'altro coniuge, spetterebbe all'acquirente l'onere di provarne la natura personale dell'acquisto (Auletta,. 454; Pitrone, 831; D'Alessandro, 2892). Altri autori sostengono che la partecipazione del coniuge all'atto non sarebbe necessario in ogni caso in cui si voglia escludere dalla comunione un acquisto effettuato ai sensi dell'art. 179, lett. c), d) e f), c.c., ma affermerebbe la semplice possibilità che il coniuge partecipi all'atto per manifestare la propria volontà contraria all'acquisto (Rubino, 595; Navarra, 1061). In senso contrario altra parte della dottrina (Cian, 44, Oberto, 1060 ss) sostiene che la norma dovrebbe essere interpretata nel senso che la dichiarazione di esclusione del bene dalla comunione sarebbe necessaria nelle sole ipotesi in cui all'atto partecipino entrambi i coniugi, allo scopo di consentire loro di far ricadere il bene acquistato in comunione ordinaria e non in comunione legale. Per quanto riguarda la natura della partecipazione del coniuge all'atto, l'orientamento prevalente in dottrina afferma che si tratta di una dichiarazione di scienza con funzione di accertamento (Gazzoni, 72; Radice, 156; Pitrone, 817; Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia, 354; Santosuosso, 117; Siniscalchi, 229; De Paola, 500), o di una semplice partecipazione fisica all'atto di acquisto, accompagnata dalla mancata opposizione alla dichiarazione di esclusione inserita nell'atto medesimo (Beccara, 270). Secondo altra corrente dottrinale, la dichiarazione resa dal coniuge non disponente che partecipa all'atto possiede natura negoziale (Russo, 242; Detti, 1170; Schlesinger, 158). Il contrasto di opinioni sulla funzione della norma e sulla natura della dichiarazione sorto in dottrina si è manifestato anche in giurisprudenza sia di merito che di legittimità. Ad es. in un'atavica pronuncia del Tribunale di Milano si è sostenuto che in difetto di partecipazione del coniuge non acquirente e del riconoscimento da parte di quest'ultimo della natura personale del bene, l'acquisto deve ritenersi oggetto di comunione legale, senza alcuna possibilità per il coniuge acquirente di dimostrare che l'acquisto fosse da considerare personale (Trib. Milano, 21 dicembre 1981). In senso diverso, la Corte di Cassazione ha statuito che la permuta di bene immobile, alla cui stipulazione non aveva partecipato l'altro coniuge, rientrava tra i beni personali del coniuge disponente che aveva dato prova della natura personale dell'acquisto, comprovando che il bene permutato fosse stato da lui ricevuto per successione ereditaria (Cass. n. 7437/1994). In motivazione la S.C. ha sottolineato che l'attestazione della provenienza personale del corrispettivo impiegato per l'acquisto è necessaria soltanto quando può essere «obiettivamente incerto» se l'acquisto costituisca o meno il reinvestimento di denaro o beni personali, ma tale onere non sussiste qualora sia «obiettivamente certo» il carattere personale del corrispettivo, come appunto nel caso di permuta di bene personale. A soluzione opposta è pervenuta la medesima Autorità giurisdizionale nella successiva sentenza Cass. n. 19250/2004 ove si è statuito che il bene immobile o bene mobile registrato acquistato da uno solo dei coniugi in mancanza della partecipazione e della dichiarazione dell'altro, ricade in comunione, stante l'oggettiva ambiguità della provenienza del denaro impiegato per l'acquisto immobiliare. La «necessità» che all'atto di acquisto di beni immobili partecipi il coniuge non acquirente, per l'effetto di non includere il bene in comunione legale, discende dagli «evidenti profili di particolare certezza che (nell'ottica del codice del 1942) debbono accompagnarsi alla circolazione dei beni in questione; esigenze di certezza sintetizzate dal particolare meccanismo di pubblicità per essi contemplato, e rappresentato dalla trascrizione». Per quanto concerne la natura giuridica della dichiarazione resa dal coniuge non disponente che partecipa all'atto di acquisto compiuto dall'altro, la Cassazione ha sposato diverse tesi che hanno reso necessario un intervento chiarificatore delle SS.UU. Inizialmente la S.C. sostenne che la dichiarazione del coniuge non disponente possedesse natura «negoziale» (Cass. n. 2688/1989). Nel caso di specie, la S.C. riconobbe la liceità del c.d. «rifiuto al coacquisto», ritenendo, da un lato, che tale figura negoziale fosse conforme al principio secondo cui nemo locupletari invitus potest e, dall'altro, che l'art. 2647 c.c., consentendo ai coniugi di escludere beni dalla comunione legale, per mezzo di apposita convenzione matrimoniale, consentirebbe ad un coniuge di «... rinunciare alla quota che gli spetterebbe su un determinato bene di cui stia per procurarsi l'acquisto l'altro coniuge separatamente». Nella motivazione della sentenza in commento si chiarisce il consenso del coniuge non acquirente costituisce un «negozio giuridico unilaterale», esplicazione della sua autonomia negoziale, che determina l'effetto di limitare l'efficacia soggettiva dell'atto di acquisto nei confronti del solo coniuge acquirente, con la conseguenza che è del tutto irrilevante indagare se il bene sia compreso fra quelli che il codice indica come beni personali dal momento che il coniuge, che poteva aver interesse a contestarne il carattere personale, ne abbia rifiutato la contitolarità. La Corte di Cassazione elenca le conseguenze giuridiche scaturenti dall'affermazione della natura negoziale della dichiarazione affermando che: a) il rifiuto al coacquisto non può essere revocato; b) il coniuge che lo ha espresso non può opporre ai creditori dell'altro coniuge o agli aventi causa dal medesimo che il bene non aveva carattere personale; c) con la trascrizione dell'atto è resa pubblica anche la dichiarazione di rifiuto al coacquisto; d) il coniuge potrà chiedere, ove ne sussistano i presupposti, l'annullamento per errore, dolo o violenza; e) il coniuge stesso può far accertare l'eventuale causa simulandi; f) i creditori della comunione e quelli particolari del coniuge che ha rifiutato l'acquisto possono esperire l'azione revocatoria, dimostrando che si trattava di bene potenzialmente destinato a cadere nella comunione e la sua esclusione configura a loro carico un eventus damni. La tesi della natura negoziale della dichiarazione è stata ben presto accantonata dalla Suprema Corte di Cassazione, che le ha preferito la diversa tesi secondo cui la dichiarazione del coniuge non disponente possedesse natura «ricognitiva» (Cass. n. 1917/2000, confermata nella successiva pronuncia Cass. n. 6120/2008). Ivi si afferma che in mancanza della dichiarazione ricognitiva dell'altro coniuge, il coniuge acquirente può sempre dare la prova della provenienza personale del bene utilizzato per la permuta, allo stesso modo deve ritenersi che la natura e l'efficacia della dichiarazione effettivamente resa dal coniuge non acquirente debbano essere valutate sul piano probatorio. Da qui, l'affermazione secondo cui la dichiarazione del coniuge non acquirente (o il mero comportamento di non contestazione) costituisce un atto giuridico volontario e consapevole a cui il legislatore ricollega effetti giuridici di «testimonianza privilegiata» equiparabile alla confessione, che determina, pertanto, una presunzione iuris et de iure di esclusione della contitolarità dell'acquisto, rimovibile soltanto mediante la revoca per errore di fatto o violenza (art. 2732 c.c.). In una isolata pronuncia, poi, la Corte di Cassazione (Cass. n. 2954/03) pur confermando la natura ricognitiva della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente, offre una soluzione diversa nei suoi effetti pratici. In tal caso, infatti, la Suprema Corte non sancisce la natura confessoria della dichiarazione e, al contrario, afferma la necessità che il giudice del merito verifichi l'effettiva sussistenza di uno requisiti oggettivi, previsti dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. per accertare che il bene acquistato sia davvero personale ed escluso dalla comunione. Secondo tale impostazione la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente costituisce un requisito soggettivo che «si aggiunge» a uno degli elementi oggettivi (lett. c), d) ed f)) e assolve a una mera funzione di pubblicità, affinché i terzi possano prendere contezza di una risultanza contraria all'ordinario affidamento che essi ripongono in ordine all'inclusione dell'acquisto all'interno della comunione legale. Ma, nel caso in cui alla dichiarazione pubblicitaria non corrisponda l'oggettiva presenza del requisito oggettivo per la natura personale dell'acquisto, sembra doversi ritenere la possibilità, sia al coniuge dichiarante che ai terzi, di offrire «con ogni mezzo», la prova della mendacità della dichiarazione e, conseguentemente, che il bene debba ritenersi oggetto della comunione legale. L'inefficacia della dichiarazione risulterebbe, altresì, opponibile agli eventuali aventi causa del coniuge acquirente e, in particolare, ai terzi subacquirenti, che sarebbero così esposti alla possibile azione di annullamento ex art. 184 c.c., nell'ambito della quale possono difendersi e difendere la titolarità dell'acquisto provando la loro buona fede (Cass. n. 18619/03. Le diverse accezioni accolte hanno necessitato di un intervento chiarificatore delle S.U. che si è avuto con la sentenza Cass. S.U., n. 22755/2009, ove gli Ermellini hanno innanzitutto preso posizione sulla vexata quaestio della funzione dell'intervento adesivo del coniuge non acquirente ritenendo che la sua partecipazione all'atto è condizione «necessaria» ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi (principio confermato successivamente in Cass. n. 11668/2018). Con specifico riguardo alla natura giuridica della dichiarazione prevista dall'art. 179, comma 2, le Sezioni Unite qualificano tale atto come «ricognitivo» e con valenza di confessione stragiudiziale allorché risulti descrittiva di una situazione di fatto, come ad es. la provenienza personale del bene o del denaro impiegato per l'acquisto (lett. f). Al contrario, la dichiarazione con la quale l'altro coniuge esprima condivisione dell'intento del coniuge acquirente di destinare l'acquisto alla propria attività personale o professionale [lett. c) e d)] consiste in una mera manifestazione di intenti e soltanto l'«effettività» di tale destinazione determinerà l'esclusione dell'acquisto dalla comunione. Pertanto, l'eventuale inesistenza del requisito legale di personalità dell'acquisto può essere oggetto di una successiva azione di accertamento, la quale presupporrà la revoca di quella confessione stragiudiziale, nei limiti in cui è ammessa dall'art. 2732 c.c. Allorquando, invece, il coniuge si sia limitato a condividere il proposito di destinazione del bene ad uso personale o professionale [lett. c) e d)] — indipendentemente da ogni indagine sulla veridicità degli intenti manifestati in sede di atto di acquisto — il coniuge potrà ottenere l'accertamento della natura comune dell'acquisto qualora il bene non abbia effettivamente ricevuto la destinazione conforme all'originaria dichiarazione. Per quanto concerne la tutela del terzo, che abbia riposto affidamento sulla natura personale dell'acquisto del bene immobile, per effetto della trascrizione ex art. 2647 c.c., le S.U., in conformità al principio della tutela dell'incolpevole affidamento, rilevano che il terzo — nonostante l'accoglimento della domanda di annullamento ex art. 184 c.c. – fa salvo il suo acquisto se il coniuge pretermesso non riesca a superare in giudizio la presunzione della sua buona fede. I principi di diritto enunciati dalle S.U. saranno ribaditi nelle successive sentenze della medesima autorità giurisdizionale: Cass. n. 10855/2010; Cass. n. 1523/2012; Cass. n. 19513/2012 e nell'ordinanza Cass. n. 23565/2016 ove la Cassazione ribadisce che la dichiarazione resa dal coniuge non disponente circa l'impiego di denaro personale per l'acquisto da parte dell'altro coniuge, con conseguente esclusione del bene dalla comunione legale, ha natura ricognitiva e confessoria con la conseguenza che il coniuge non disponente, il quale promuova azione di accertamento negativo della natura personale del bene, deve preliminarmente revocare la confessione stragiudiziale nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., cioè per vizio del consenso derivante da errore di fatto o violenza. Tale approdo ermeneutico è stato in parte sconfessato dagli Ermellini nella recente Ord. n. 35086/2022 secondo cui In caso di acquisto di un immobile intestato a uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto di acquisto dell'altro coniuge non acquirente e la dichiarazione di esclusione del bene dalla comunione, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., non può assumere valenza confessoria se manca l'esatta indicazione della provenienza del denaro personale. Ciò perché nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento, da parte dei coniugi, della natura personale del bene medesimo, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione, tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. BibliografiaAuletta, in Aa.Vv., Il diritto di famiglia, a cura di Auletta-Bruscuglia-Dogliotti-Figone, Torino, 2006; Barbiera, La comunione legale, in Tr. 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