Codice Civile art. 184 - Atti compiuti senza il necessario consenso (1).

Gustavo Danise

Atti compiuti senza il necessario consenso (1).

[I]. Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell'altro coniuge [180 2] e da questo non convalidati [1444] sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell'articolo 2683 [1441].

[II]. L'azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell'atto [2964] e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione [2643 ss.]. Se l'atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione l'azione non può essere proposta oltre l'anno dallo scioglimento stesso.

[III]. Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell'altro è obbligato su istanza di quest'ultimo a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione della comunione.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 63 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi.

Inquadramento

Mentre i tre articoli precedenti prescrivono regole per consentire l'esercizio dell'amministrazione congiuntiva nei casi in cui uno dei due coniugi non voglia o non possa compiere determinati atti, l'art. 184 prevede i rimedi che un coniuge può esperire nei confronti dell'altro laddove questi abbia compiuto volutamente e da solo un atto per cui era richiesto il consenso di entrambi ai sensi dell'art. 180 comma 2 c.c. Quindi gli artt. 181,182 e 183 c.c. sono strumenti di carattere preventivo finalizzati, mediante autorizzazioni giudiziali, ad assicurare l'amministrazione della comunione rimuovendo l'ostacolo del rifiuto o dell'impossibilità di uno dei coniugi di esprimere il consenso al compimento di determinati atti giuridici. Diversamente, l'art. 184 prevede uno strumento successivo e rimediale avverso gli atti che un coniuge abbia compiuto autonomamente senza il consenso dell'altro. Si pensi, ad es., ad una vantaggiosa offerta di acquisto o vendita di un immobile prospettata ai coniugi in comunione legale. Se uno dei due non è d'accordo alla stipula dell'atto, l'altro, di regola, deve attivare il procedimento autorizzatorio nell'art. 181 c.c. per compiere autonomamente l'atto; se, invece, omette di azionare tale strumento e compie ugualmente l'atto da solo, superando il dissenso dell'altro coniuge, quest'ultimo potrà esperire l'azione di annullamento dell'atto descritta dall'art. 184 comma 2 Per gli atti che riguardano beni mobili, il coniuge pretermesso può solo esperire la domanda di ricostituzione del patrimonio comune ovvero di pagamento per equivalente Le norme codicistiche sulla comunione legale si applicano anche alle unioni civili se non disposto diversamente dai costituenti con convenzione matrimoniale come sancito dall'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016; per cui la trattazione di quest'articolo si estende anche alle unioni civili.

Considerazioni generali.

La ratio della norma va ravvisata nell'esigenza di contemperare le regole dell'amministrazione congiuntiva della comunione legale (art. 180 comma 2 c.c.) con la tutela dell'affidamento del terzo contraente e del coniuge pretermesso. Se gli atti riguardano beni immobili o beni mobili di cui all'art. 2683 c.c., il coniuge pretermesso può convalidare l'atto oppure richiederne l'annullamento promuovendo il giudizio entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell'atto e, in ogni caso, da quella della trascrizione (art. 184, comma 1 e 2). Se gli atti riguardano, invece, beni mobili, il coniuge che ha agito disgiuntamente è obbligato, su istanza dell'altro, a ricostituire la comunione nello stato in cui si trovava prima del compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, a corrisponderne l'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione (art. 184, comma 3). Le ragioni di siffatta differenziazione di disciplina risiedono nelle diverse regole che governano l'amministrazione e la circolazione delle due tipologie di beni. Gli atti riguardanti beni mobili registrati e beni immobili devono necessariamente essere stipulati da entrambi i coniugi ai sensi dell'art. 180 comma 2 c.c., per cui, nel caso in cui si presenti soltanto un coniuge all'incontro fissato per la stipula del rogito, il terzo contraente potrebbe rifiutarsi di stipulare pretendendo la presenza dell'altro coniuge o che la controparte dimostri che il consorte abbia prestato il consenso al compimento dell'atto. Ove il terzo ometta tali cautele e stipuli ugualmente soltanto con un solo coniuge, può rimanere pregiudicato dall'annullamento dell'atto su domanda giudiziale del coniuge pretermesso ai sensi dell'art. 184 comma 2. Le medesime motivazioni non valgono per le alienazioni di beni mobili, che sono soggette all'amministrazione disgiuntiva e non richiedono la forma scritta. Pertanto, il terzo acquirente può confidare sulla legittimità dell'acquisto che sta compiendo da un solo coniuge; e tale acquisto sarà inattaccabile dal coniuge dissenziente, che potrà solo pretendere dal coniuge disponente, come detto, la ricostituzione del patrimonio o il pagamento del controvalore. La disciplina dell'art. 184 c.c. è quella che meglio consente di apprezzare la differenza ontologico-giuridica tra la comunione legale, che è una comunione senza quote, espressione della proprietà solidale dei coniugi sui beni che ne fanno parte (Corte cost. n. 311/1988), e la comunione ordinaria(artt. 1100 ss. c.c.).

Difatti, secondo i principi di quest'ultima, l'atto di alienazione compiuto da un solo comproprietario per l'intero bene è inefficace per difetto di legittimazione sostanziale del dante causa, mentre l'atto di alienazione di un bene immobile compiuto da un solo coniuge è soltanto annullabile su domanda del coniuge pretermesso da esperirsi nel breve termine annuale di prescrizione ai sensi dell'art. 184 comma 2, allo spirare del quale l'efficacia dell'atto si consolida. Diversamente, l'alienazione di un bene mobile in comunione da parte di un solo coniuge è già geneticamente efficace, valida ed incontestabile, derivandone a carico del coniuge disponente solo un'obbligazione di ricostituzione del patrimonio o di pagamento dell'equivalente a favore del coniuge pretermesso dissenziente (Segni, 600). In considerazione delle peculiarità della disposizione, la dottrina ne offre una interpretazione restrittiva, limitandone l'applicazione alla sola ipotesi di alienazione di bene immobile in comunione legale formalmente intestato al solo coniuge disponente (Corsi, 141 ss.); si è sottolineato, infatti, che l'art. 184 disciplina i soli atti posti in essere dal singolo coniuge «in nome proprio» sui beni appartenenti alla comunione legale; mentre, qualora il coniuge agisca separatamente «in nome della comunione», l'atto sarebbe assolutamente inefficace come quelli compiuti da un falsus procurator (Cian-Villani, 359 ss.). Sulla stessa linea, altra autorevole dottrina rileva che l'annullabilità dell'atto prevista dall'art. 184 c.c. costituisce un «rimedio speciale», che si aggiunge all'inefficacia dell'atto dispositivo nell'ipotesi di bene cointestato ad entrambi i coniugi o esclusivamente al coniuge non disponente, con la conseguenza che il coniuge pretermesso potrebbe preferire far valere l'inefficacia derivante dalla carenza di legittimazione del coniuge disponente. (Bianca, 86 ss.; Barbiera, 463; Natucci, 117 ss.).

La pietra miliare nell'interpretazione della disciplina dell'art. 184 è costituita dalla storica Corte cost. n. 311/1988, a cui era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale della disposizione in commento sotto il profilo della presunta disparità di trattamento tra la sanzione dell'annullabilità, prevista dall'art. 184, comma 1, e quella dell'inefficacia sancita, in generale, per gli atti di disposizione compiuti, nella comunione ordinaria (art. 1100 c.c.), da uno dei contitolari senza il consenso degli altri, e sintetizzata nel noto brocardo nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse habet. In tale occasione la Suprema Corte delle Leggi ha illustrato i principi basilari dell'istituto della comunione legale, tracciandone le differenze con la comunione ordinaria, così offrendo i principi per la successiva costante interpretazione della norma. La Corte ha prospettato la comunione legale come modello di proprietà solidale, con la conseguenza che, nei rapporti coi terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione e, pertanto, l'acquisto del terzo deve essere considerato, anche in difetto del consenso congiunto dei coniugi, come acquisto a domino. Quando è richiesta la volontà congiunta dei coniugi.

il consenso del coniuge dell'alienante non rappresenta «un negozio (unilaterale) autorizzativo nel senso di atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso di atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere». Il consenso del coniuge, richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180, comma 2, c.c., pertanto — «è un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio». Alla luce di tale configurazione si spiega, pertanto, la scelta legislativa dell'annullabilità dell'atto, considerato che tale rimedio giuridico costituisce la conseguenza tipica degli atti affetti da vizio nel procedimento di formazione del consenso negoziale. Questa ricostruzione ermeneutica, come detto, costituisce il caposaldo nella svolta dell'applicazione dell'art. 184; i principi enunciati dalla Corte Costituzionale sono stati integralmente richiamati in numerose sentenze successive della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 284/1997; Cass. n. 4033/2003; Cass. n. 4890/2006; Cass. n. 14093/2010; Cass. n. 12923/2012; Cass. n. 9888/2016 e da ultimo, in Cass. n. 8803/2017). Sulla ratio della disposizione in commento, si riporta la sentenza Cass. n. 1385/2012, ove si evidenzia che l'art. 184 disciplina il conflitto tra il terzo ed il coniuge pretermesso in modo più favorevole al primo, con il regime degli effetti tendente alla conservazione del negozio, per tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di comunione legale. È coerente con tale ricostruzione della finalità della norma l'orientamento giurisprudenziale che chiarisce che gli atti di straordinaria amministrazione in comunione legale compiuti da un solo coniuge sono perfettamente validi e spiegano la loro efficacia anche nei confronti del coniuge che non ha partecipato all'atto, se quest'ultimo omette di esperire tempestivamente l'azione di annullamento (ex multis Cass. n. 1252/1995; Cass. n. 88/2007 e Cass. n. 9909/1998 ove il suddetto principio di diritto è stato applicato con riferimento ad un rapporto di comodato, evidenziando che il coniuge comproprietario di un bene che l'altro coniuge ha concesso in comodato senza il suo consenso, non tempestivamente impugnato ai sensi dell'art. 184 c.c., è obbligato al rispetto del contratto, e, se prima della scadenza di esso decede il comodante, i suoi eredi subentrano nell'obbligo di consentire al comodatario di continuarne il godimento fino al termine stabilito, ed ancora Cass. n. 4676/2018  ove si è affermato che la realizzazione da parte di uno dei coniugi senza il consenso dell'altro su un fondo in comunione legale di uno o più edifici costituisce atto eccedente l'ordinaria amministrazione di cui è possibile fare valere l'annullabilità in giudizio). Passando ai profili applicativi della disposizione in casi particolari, la Cassazione ha ritenuto che l'atto di disposizione del bene in comunione, posto in essere da uno solo dei coniugi, esplica i suoi effetti anche in relazione alla «quota» di comunione spettante al coniuge che sia eventualmente fallito, successivamente al compimento del menzionato atto, senza avere proposto l'azione d'annullamento prevista dal comma secondo dell'art. 184 c.c.; ammettendo, conseguentemente l'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare, quale unico rimedio esperibile dalla curatela per ottenere la declaratoria d'inefficacia dell'atto in relazione alla quota di bene spettante al fallito (Cass. n. 15177/2000. Sui rapporti tra azione di annullamento ex art. 184 c.c. e fallimento di uno dei coniugi con conseguente opponibilità dell'atto alla Curatela fallimentare cfr. anche Cass. n. 25984/2008). La diatriba sorta in dottrina sull'applicazione restrittiva o estensiva delle ipotesi di annullamento dell'atto sancito dall'art. 184 c.c. ha trovato eco anche in giurisprudenza di legittimità. Inizialmente la Suprema Corte aveva privilegiato l'interpretazione estensiva; ed infatti nella sentenza Cass. n. 1252/1995 ha cassato la sentenza di merito impugnata, ove era statuito che l'annullabilità prevista dall'art. 184 si applicherebbe solo quando l'atto di disposizione sia compiuto dal coniuge che risulti unico intestatario del bene, mentre l'atto di disposizione compiuto da un solo coniuge riguardante un bene in comunione coniugale ed intestato ad entrambi i coniugi è del tutto inefficace, affermando, diversamente da tale ricostruzione, che tutti gli atti di disposizione di beni immobili o beni mobili registrati (senza distinzione quindi) appartenenti alla comunione coniugale, compiuti da uno solo dei coniugi, senza il necessario consenso dell'altro, sono validi ed efficaci e sottoposti alla sola sanzione dell'annullamento ai sensi dell'art. 184. Successivamente la Corte di legittimità ha mutato orientamento, sposando la tesi restrittiva; in pronuncia Cass. n. 3647/2004 ha sottolineato che l'annullamento dell'atto è ammissibile soltanto quando il bene immobile da alienare risulti intestato al solo coniuge che compie l'atto dispositivo; diversamente, non si applica nel caso in cui tutti i contraenti siano a conoscenza della comunione dei beni tra i coniugi e questi ultimi figurino entrambi nel contratto come venditori, atteso che in tal caso il mancato consenso di uno dei due impedisce il sorgere di una valida obbligazione anche soltanto a carico dell'altro. Ma in favore dell'interpretazione restrittiva della norma si richiama la già citata sentenza Cass. n. 1385/2012 ove, dopo la premessa che la comunione legale tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, prescinde rigorosamente dal dato della intestazione formale dei beni e che le risultanze dei registri immobiliari sono indifferenti per quanto attiene all'accertamento circa l'appartenenza dei beni alla comunione legale, si conclude che è del tutto arbitrario affermare che la norma in esame non riguardi qualsiasi atto, ma soltanto gli atti concernenti i beni intestati nei registri immobiliari al coniuge disponente.

Il consenso preventivo e la convalida del coniuge pretermesso

La formulazione letterale dell'art. 184 comma 1 c.c. «Gli atti compiuti da un (solo) coniuge senza il necessario consenso dell'altro coniuge e da questo non convalidati» consente di ritenere praticabile la prestazione del consenso con atto separato anche antecedente all'atto stipulato da un solo coniuge. Tra l'altro tale soluzione si coniuga perfettamente con la ricostruzione giuridica offerta dalla citata sentenza Corte Cost. n. 311/1988 secondo cui il consenso del coniuge che non partecipa all'atto rimuove il limite all'esercizio di un potere giuridico. In virtù del combinato disposto degli artt. 1324,1350,1392 e 180 comma 2 c.c., il consenso deve essere espresso nella stessa forma richiesta per la stipula dell'atto cui si riferisce. Quindi, considerato che la disciplina dell'art. 184 comma 1 e 2 c.c. si riferisce al compimento di atti di straordinaria amministrazioneex art. 180 comma 2 c.c. che devono essere stipulati in forma scritta, il consenso del coniuge che non partecipa all'atto deve essere ugualmente espresso in forma scritta, con atto separato che deve essere redatto e sottoscritto contestualmente o preventivamente alla stipula dell'atto cui accede (non successivamente, altrimenti si tratterebbe di convalida). L'atto è recettizio ed assume efficacia nei confronti dell'altro coniuge nel momento in cui gli viene comunicato, ma anche il terzo contraente può chiederne l'esibizione al momento della stipula per fugare ogni dubbio sulla piena legittimità dell'atto (Bruscuglia, 30). La convalida dell'atto di alienazione da parte del coniuge pretermesso costituisce, a sua volta, un atto successivo che attribuisce definitiva stabilità agli effetti del negozio invalido (diversamente dalla «ratifica», che consiste nel negozio unilaterale che produce un effetto giuridico che, altrimenti, non si sarebbe verificato: Giusti, 688 ss.). La dottrina maggioritaria rileva che, nonostante le profonde divergenze con l'omologo istituto della convalida in generale del contratto annullabile (in quest'ultima, infatti, il titolare del potere di convalida è colui che ha partecipato all'atto, dando volontariamente o meno causa al vizio del negozio, mentre nella convalida dell'art. 184 c.c. il relativo potere spetta ad un soggetto che non è parte contrattuale dell'atto che ha il potere di annullare) la relativa disciplina giuridica, contenuta nell'art. 1444 c.c. possa trovare applicazione analogica, con conseguente ammissibilità della convalida tacita, perfacta concludentia, configurabile mediante l'esecuzione volontaria dell'atto annullabile (Segni, 636; Corsi, 153; Santosuosso, 269; Barbiera, 553; Giusti, 221; De Paola, 679; Bruscuglia, 295; Di Martino-Rovera, 202; Valignani, 514). Altri autori sostengono che la convalida richieda necessariamente la forma scritta (Schlesinger, 426; Finocchiaro A. e M., 1078; Mastropaolo-Pitter, 213); ma tale tesi, tra l'altro minoritaria, è da confutare: considerato che l'azione di annullamento è esercitabile esclusivamente dal coniuge pretermesso, quest'ultimo, una volta venuto a conoscenza della stipula dell'atto di alienazione da parte del consorte, potrebbe anche prestarvi acquiescenza lasciando decorrere l'anno dalla conoscenza senza azionare il rimedio caducatorio previsto dall'art. 184 comma 2; pertanto, se si ammette l'acquiescenza, che è un contegno omissivo, a maggior ragione deve ammettersi la convalida tacita, mediante esecuzione volontaria, da parte del coniuge pretermesso, dell'atto stipulato dall'altro coniuge. Il ricorso a rigidismi formali appare inutile in un contesto negoziale nel quale le sorti del contratto invalido sono rimesse esclusivamente nelle mani del coniuge pretermesso.

L'azione di annullamento: legittimazione, termine di proposizione ed effetti del giudicato

Dal combinato disposto degli artt. 1441 c.c. e 184 comma 2, si ricava che la legittimazione alla proposizione dell'azione di annullamento dell'atto di straordinaria amministrazione compiuto da un sol coniuge spetta esclusivamente all'altro coniuge, o al suo curatore o tutore, nel caso in cui sia minore o interdetto (secondo De Paola, 594, nel caso in cui il curatore o tutore del coniuge minore o interdetto sia il coniuge disponente, come si verifica nella maggior parte dei casi, occorrerà procedere alla nomina di un curatore speciale ai fini della proposizione dell'azione di annullamento). Secondo un orientamento isolato (Bibolini, 83 ss.), legittimato a proporre azione surrogatoria (art. 2900 c.c.) all'azione di annullamento sarebbe anche il creditore personale del coniuge escluso, allo scopo di ottenere la reintegrazione — eventualmente, anche per equivalente — della comunione legale. Sulla stessa linea si ritiene (Bruscuglia, 297) che, in caso di fallimento del coniuge legittimato a proporre l'azione di annullamento, possa agire in suo luogo il curatore fallimentare. In caso di decesso del coniuge pretermesso, sono legittimati ad esperire l'azione ex art. 184 comma 2 c.c. i suoi eredi (Bianca, 618). L'azione di annullamento deve essere esperita entro il termine di un anno dalla conoscenza dell'atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l'atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione, l'azione non può essere proposta oltre l'anno dallo scioglimento stesso. Secondo la dottrina maggioritaria, al termine annuale di prescrizione non si applica la sospensione tra i coniugi ex art. 2941 n. 1 c.c. (Gabrielli, 133; De Paola, 189. In senso contrario Corsi, 152, secondo cui l'inapplicabilità dell'art. 2941, n. 1, c.c. rende, in concreto, priva di rilevanza la problematica relativa alla qualificazione del termine come di prescrizione o di decadenza). Il giudizio di annullamento dell'atto deve essere intentato dal coniuge pretermesso nei confronti sia del terzo acquirente che del coniuge disponente, che è da considerarsi litisconsorte necessario (Santarcangelo, 319). Il coniuge-attore ha l'onere di provare che il bene alienato faceva parte della comunione legale e che l'alienazione è avvenuta senza il suo consenso. Non occorre dimostrare, invece, che dall'atto è derivato un pregiudizio al patrimonio comune (De Paola, 595). Il coniuge convenuto non può eccepire, in via riconvenzionale, l'utilità dell'atto quale presupposto per l'ottenimento dell'autorizzazione ex art. 181 c.c., per sanare il dissenso in ordine alla opportunità dell'atto (cfr. commento all'art. 181 c.c. ove la questione è affrontata in modo esaustivo). In caso di accoglimento della domanda, la regola della retroattività degli effetti della pronuncia di annullamento risulta temperata dalla tutela della buona fede e dell'affidamento del terzo acquirente e degli aventi causa di quest'ultimo, in caso di plurime alienazioni dello stesso bene, in applicazione analogica dell'art. 1445 c.c., salvi sempre gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento (Caravaglios, 732).

Sulla vexata quaestio se il termine annuale previsto dall'art. 184 c.c. per l'esercizio dell'azione di annullamento sia di prescrizione o di decadenza, la S.C. di Cassazione ha proteso per la prima ipotesi, chiarendo che detto termine si distingue dalla generale azione di annullamento dei contratti ex art. 1442 c.c. solo per la diversa durata (Cass. n. 1279/1996; Cass. n. 20392/2009; Cass. n. 10653/2015). Si tratta pertanto di una ipotesi speciale di annullamento dell'atto che sostituisce la disciplina ordinaria (Cass. n. 7055/1998) riguardante la prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento del contratto e la corrispondente imprescrittibilità della relativa eccezione, conseguendone — chiarisce la Suprema Corte – che il principio «quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum» non è applicabile, neppure in via analogica, ai casi previsti dall'art. 184 in materia di comunione legale tra coniugi (Cass. n. 16099/2003; conformi Cass. n. 88/2007 e Cass. n. 10653/2015). In applicazione di tale principio di diritto, si è anche precisato che il coniuge che intenda far valere la mancanza del proprio consenso in ordine all'atto di disposizione compiuto esclusivamente dall'altro, al fine di sottrarre la propria quota all'espropriazione forzata promossa dai creditori del terzo acquirente, non può limitarsi a proporre l'opposizione di terzo all'esecuzione — di per sé non idonea a giustificare la situazione di comproprietà — ma è tenuto ad agire, congiuntamente o autonomamente, con l'apposita azione di annullamento (Cass. n. 20392/2009). È stata posta la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 184 per contrasto con l'art. 24 Cost. in relazione alla brevità del termine di prescrizione entro cui il coniuge pretermesso può proporre l'azione di annullamento, ma tale questione è stata dichiarata infondata tenuto conto che il termine medesimo, nonostante la sua brevità, giustificata dal contemperamento delle esigenze del coniuge leso con quelle del terzo, ha consistenza e decorrenza idonee ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa (Corte cost. n. 311/1988 cit.). La Corte di Cassazione, in linea con la dottrina maggioritaria, ha statuito la inapplicabilità al termine di prescrizione annuale ex art. 184 comma 2 della causa di sospensione prevista dall'art. 2941 n. 1 c.c., in quanto incompatibile con le disposizioni che regolano la comunione legale tra coniugi (Cass. n. 6369/1987; Cass. n. 1279/1996). Risolvendo un contrasto giurisprudenziale inerente agli effetti nei confronti dei terzi acquirenti del sopravvenuto accertamento – nel giudizio di annullamento ex art. 184 c.c. intentato dal coniuge pretermesso — dell'appartenenza alla comunione legale dei beni alienati dal coniuge unico intestatario, le S.U. hanno chiarito che l'azione prevista dall'art. 184 c.c., in quanto avente ad oggetto l'invalidazione dell'atto di acquisto del terzo per un vizio del titolo del suo dante causa, è soggetta, per tutto quanto non diversamente stabilito dalla norma speciale che la prevede, alla disciplina generale dettata dall'art. 1445 c.c. per l'azione di annullamento dei contratti: pertanto, salvi gli effetti della trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento dell'inclusione del bene nella comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede (Cass. S.U., n. 22755/2009, confermata da Cass. n. 1523/2012).

L'annullamento del contratto preliminare di compravendita immobiliare

In giurisprudenza si è affrontato il problema se l'azione di annullamento ex art. 184 c.c. sia esercitabile solo con riferimento ai contratti ad effetti reali, o anche con riguardo ai contratti ad effetti obbligatori. Il riferimento è, ovviamente, al contratto preliminare di alienazione di un bene in comunione stipulato da un solo coniuge senza il consenso dell'altro. La Cassazione risponde in maniera affermativa sul presupposto che il contratto preliminare di vendita di bene immobile costituisce, ai sensi dell'art. 180, comma 2, c.c., atto di straordinaria amministrazione, giacché si pone quale momento originario di una sequenza obbligatoria e successiva il cui esito necessitato è il trasferimento della proprietà del bene; pertanto nel caso in cui il contratto preliminare di alienazione di un bene in comunione sia stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro, detto atto è soggetto alla disciplina dell'art. 184, primo comma, cod. civ., la cui applicazione non va restrittivamente intesa come limitata agli atti dispositivi con effetto reale e non anche a quelli con effetto meramente obbligatorio, non trovando tale interpretazione fondamento alla stregua né della lettera né dell'interpretazione sistematica della norma (Cass. n. 2202/2013). Ai fini della proposizione della domanda di esecuzione in forma specifica, a norma dell'art. 2932 c.c., di un preliminare di vendita di un bene immobile rientrante nella comunione legale dei coniugi, non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i promittenti venditori, ma è sufficiente il consenso del coniuge non stipulante, traducendosi la mancanza di detto consenso in un vizio di annullabilità da far valere entro il termine di prescrizione di cui all'art. 184 c.c. (Cass. n. 12923/2012) nel rispetto del principio generale di buona fede e dell'affidamento, per cui spetta al giudice del merito verificare la proposizione della domanda di annullamento da parte del coniuge che non ha sottoscritto l'atto quantomeno sotto forma di eccezione in base all'art. 1442, ultimo comma, c.c. (Cass. n. 16177/2001). Sempre in materia di contratto preliminare di alienazione di un immobile in comunione legale, stipulato da un solo coniuge senza il consenso dell'altro, la Cassazione ha affrontato la questione del litisconsorzio del coniuge pretermesso nel giudizio per l'esecuzione specifica del contratto promossa ai sensi dell'art. 2932 c.c. dal promittente acquirente. Si pensi alla stipula di un contratto preliminare di compravendita di un immobile in comunione legale tra il promissario acquirente ed un solo coniuge, il quale sarà inadempiente all'obbligo di stipulare il definitivo; avendo il promittente acquirente interesse ad acquistare l'immobile, dovrà convenire in giudizio, esperendo l'actio ex art. 2932 c.c., esclusivamente la sua controparte contrattuale ovvero anche il coniuge pretermesso nella stipula del contratto preliminare? Sulla questione è sorto un contrasto giurisprudenziale. In sentenza n. 20867/2004 la Suprema Corte, sulla considerazione che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota ma solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, e che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione, e che l'azione ex art. 2932 c.c. non ha natura reale ma personale, perviene alla conclusione per cui in quest'ultima non sia ravvisabile un'ipotesi di litisconsorzio necessario, non vertendosi in situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti e non rivestendo, quindi, il coniuge rimasto estraneo al preliminare la qualità di parte la cui presenza in giudizio sia condizione essenziale affinché la sentenza non venga inutiliter data. A supporto di siffatta conclusione milita il principio per cui, in tema d'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., la sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso deve necessariamente riprodurre, nella forma del provvedimento giurisdizionale, il medesimo assetto d'interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi modifiche (Cass. n. 7273/2006; Cass. n. 2824/2003; Cass. n. 11874/2002). In senso contrario, la giurisprudenza prevalente ha sostenuto la necessità del litisconsorzio del coniuge pretermesso nel giudizio promosso dal promittente acquirente per l'esecuzione specifica del contratto preliminare stipulato esclusivamente dall'altro coniuge. Si è evidenziato che ciascun coniuge è titolare del bene per l'intero, per cui non può escludersi la necessaria partecipazione di uno dei due al giudizio nel quale si discuta della traslazione del bene stesso, evento rispetto al quale non può negarsi l'interesse ad interloquire del coniuge pretermesso dalla stipula del contratto preliminare, essendo comproprietario del bene che ne è oggetto; si è confutata l'affermazione secondo cui, al momento dell'introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c., il coniuge promittente venditore abbia già efficacemente alienato il bene, così che il coniuge rimasto estraneo al negozio abbia perso, contestualmente alla stipulazione del preliminare, la propria contitolarità sul bene e non possa fare ricorso se non all'azione d'annullamento, in quanto tale affermazione, oltre ad essere in palese contrasto con la lettera dello stesso art. 184, comma 1, che prevede una possibilità di convalida successiva inconciliabile con una già intervenuta perdita della titolarità del bene, implica una non condivisibile attribuzione a tale tipo di contratto di un effetto traslativo, estraneo alla sua funzione ed alla sua natura; si è precisato che, una volta stipulato il preliminare, nel momento in cui il coniuge promittente venditore si rende inadempiente e costringe il promissario acquirente all'azione d'esecuzione specifica, l'altro coniuge, che non abbia partecipato al negozio né vi abbia prestato altrimenti il proprio consenso, è ancora contitolare del bene e su di esso legittimato ad esercitare i suoi poteri d'amministrazione congiunta; atteso l'effetto solo obbligatorio del preliminare, l'attività negoziale posta in essere dal coniuge promittente con l'impegnarsi ad alienare non ha prodotto ancora l'effetto di sottrarre il bene al patrimonio comune ed alla contitolarità su di esso d'entrambi i comproprietari, onde il coniuge rimasto estraneo al preliminare è ancora titolare d'una situazione giuridica inscindibile che lo rende litisconsorte necessario nel giudizio d'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre (Cass. n. 3483/1988; Cass. n. 5191/2002; Cass. n. 12313/2004). Il contrasto è stato risolto dalla Cass. S.U., n. 17952/2007, a favore di questa seconda opzione ermeneutica. Le S.U. si muovono sul piano degli effetti della promossa azione ex art. 2932 c.c. ai fini della soluzione del problema, affermando che non può disconoscersi al coniuge rimasto estraneo al negozio l'interesse a partecipare al relativo giudizio, in quanto, pur se non è rimasto personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, unico obbligato, tuttavia l'impegno assunto da quest'ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia, giacché, ex art. 189 c.c., espongono all'altrui azione esecutiva non solo i beni del promittente ma anche quelli della comunione. Ne consegue l'ineludibile presenza in giudizio del coniuge rimasto estraneo al preliminare, giacché si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua natura (di condanna, d'accertamento o costitutiva), sia di per sé inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile, sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra questi e l'oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari (in tal senso, Cass. n. 4890/2006; Cass. n. 12313/2004; Cass. n. 14102/2003; Cass. n. 9083/2001). Inoltre, le S.U. traggono argomenti per affermare la necessaria partecipazione del coniuge rimasto estraneo al preliminare anche dall'art. 180 c.c., evidenziando che un contratto ad efficacia solo obbligatoria, come il contratto preliminare di vendita di un immobile, è potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del patrimonio dello stipulante; infatti tale contratto si pone quale momento originario d'una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita, sì che esso va considerato atto eccedente l'ordinaria amministrazione e sottoposto quindi all'amministrazione ed alla rappresentanza in giudizio congiunta dei coniugi. Sulla base di tali considerazioni, le S.U. affermano il principio di diritto secondo cui nell'azione ex art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l'adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato senza il consenso dell'altro coniuge, quest'ultimo deve considerarsi litisconsorte necessario; con la conseguenza che, ove il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi sia nullo e debba essere, pertanto, nuovamente celebrato a contraddittorio integro.

Un'altra applicazione pratica del predetto principio è stata fornita dalla Cassazione nell'ipotesi di conferimento ex art. 2253 c.c. di un bene immobile in società personale, posto in essere da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro. Anche detto conferimento è da considerarsi quale atto eccedente l'ordinaria amministrazione e come tale soggetto alla disciplina dell'art. 184, comma 1, c.c.; ne consegue che esso non è inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l'esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione (Cass. n. 25754/2018).

Ed ancora in un'interessante pronuncia di merito (Corte d'Appello Perugia Sent., 24 settembre 2021) è stato precisato che anche gli acquisti per usucapione, effettuati da uno solo dei coniugi, durante il matrimonio, in vigenza del regime patrimoniale della comunione legale, entrano a far parte della comunione medesima, con ciò comportando problematiche legate anche all'applicazione processuale del litisconsorzio necessario nonché all'applicabilità dell'articolo 184 c.c., nel senso che tra gli atti, riguardanti beni immobili ed eccedenti l'ordinaria amministrazione, annullabili ex art. 184 c.c. perché compiuti da un coniuge senza il consenso dell'altro, richiesto dall'art. 180 comma 2 c.c., rientra certamente l'atto comportante definitiva rinuncia alla possibilità di fare entrare, nella comunione coniugale, la proprietà di un immobile per il quale era stata invocata l'usucapione, "a nulla rilevando che si trattasse di una situazione soltanto in fieri prodromica all'acquisto di un diritto reale su detto immobile".

L'obbligo di ricostituzione della comunione o di pagamento dell'equivalente.

Il comma 3 dell'art. 184 c.c. regola gli effetti del compimento di atti concernenti beni mobili in comunione legale ad opera di un solo coniuge. Non è prevista per tale ipotesa l'annullamento dell'atto, né l'esperimento di altra azione caducatoria, ma solo l'obbligo in capo al coniuge disponente di ricostituire la comunione o, ove ciò non sia possibile (ad es. vendita di un quadro d'autore), di restituzione alla comunione dell'equivalente monetario. Notevoli sforzi sono stati profusi dalla dottrina per restringere l'ambito di applicazione della norma in commento. In particolare, vi è chi afferma che l'atto di alienazione di bene mobili è impugnabile dal coniuge pretermesso fino al momento della consegna del bene al terzo acquirente (Schlesinger, 427); chi asserisce che l'acquisto del bene mobile si perfeziona solo se sussistono i presupposti indicati dall'art. 1153 c.c., ossia titolo idoneo al trasferimento del bene mobile e buona fede del terzo acquirente (Corsi, 145; Bianca, 626; Mastropaolo - Pitter, 216 ss.; Cendon, 280 ss.; Galasso, 374 ss.; Anelli, 274 ss.); chi, infine, ammette la proponibilità dell'azione revocatoria ex art. 2901 c.c. sussistendone i presupposti (Barbera, 467 ss.). La più convincente dottrina, diversamente, opta per l'interpretazione estensiva della disposizione, che trova applicazione per qualsiasi alienazione mobiliare, sia onerosa che gratuita, a prescindere dalla stato di buona o mala fede del terzo acquirente (Bruscuglia, 309 ss.; Valignani, 527 ss). L'opposta tesi viene confutata perché contraria alla lettera della legge; nel comma 3 dell'art. 184 c.c. non è ricavabile alcun argomento, infatti, che possa suffragarne un'applicazione ristretta. Se il legislatore avesse voluto subordinare la validità dell'alienazione mobiliare ad altri presupposti (ad es. la buona fede del terzo) lo avrebbe fatto nella misura in cui lo ritenuto necessario in altri settori (ad es. art. 1153 c.c.); diversamente, il legislatore si è preoccupato di regolare esclusivamente i rapporti interni tra i coniugi, ponendo a carico del coniuge disponente l'obbligo di ricostituire il patrimonio comune o di pagarne il controvalore, concentrando in tale rimedio la tutela del coniuge dissenziente; e propendendo di conseguenza per la piena efficacia e validità del negozio, ai fini della tutela del legittimo affidamento del terzo acquirente. Tra l'altro, l'azione revocatoria non è ammissibile per carenza del presupposto della preesistenza del credito, richiesta dall'art. 2901 c.c., giacché il credito del coniuge dissenziente alla ricostituzione della comunione nasce solo con il compimento dell'atto da rendere inefficace. La ricostituzione della comunione costituisce una reintegrazione in forma specifica (art. 2058 c.c.); il coniuge alienante può ottemperarvi sciogliendo il contratto di alienazione stipulato con il terzo, cosicché il bene rientrerebbe in comunione, oppure acquistando un bene con le stesse caratteristiche e qualità di quello alienato (Bruscuglia, 312). Ove il coniuge alienante rifiuti di ricostituire la comunione o di versarvi l'equivalente monetario, l'altro coniuge dovrà convenirlo in giudizio ai sensi dell'art. 184 comma 3 c.c.; in senso opposto si orienta parte della dottrina asserendo che sia preclusa al coniuge dissenziente la facoltà di chiedere in giudizio la condanna del coniuge alienante al pagamento in suo favore di metà del corrispettivo ricevuto, in quanto, secondo le regole generali in materia di comunione legale, tale corrispettivo automaticamente ricade in comunione ed il coniuge dissenziente potrà rivendicarne la metà in sede di divisione del patrimonio a seguito della scioglimento della comunione legale (Santosuosso, 266). In realtà, aderendo a quest'ultima impostazione, la previsione della seconda parte della norma in commento, secondo cui il coniuge disponente è obbligato, in caso di impossibilità a ricostituire la comunione, al «pagamento dell'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione della comunione», non potrebbe mai trovare applicazione per difetto di interesse ad agire, giacché il prezzo di alienazione di un bene comune ricadrebbe sempre in comunione. Al fine di conferire una utilità ed una dimensione applicativa alla disposizione, deve ritenersi che il coniuge dissenziente possa convenire in giudizio il coniuge disponente al fine di vederlo condannare al pagamento dell'equivalente monetario del bene mobile alienato senza il suo consenso non a lui personalmente, ma alla comunione (magari riversando il prezzo su un conto corrente bancario cointestato). Non solo; l'ammissibilità dell'azione giudiziaria si spiegherebbe anche per un altro aspetto: non necessariamente il corrispettivo conseguito dall'alienazione corrisponde al valore effettivo del bene se quest'ultimo è stato ceduto ad un prezzo inferiore al valore di mercato. Ne consegue che il coniuge dissenziente può avere interesse a convenire in giudizio il coniuge alienante, ai sensi dell'art. 184 comma 3, al fine di vederlo condannare al versamento alla comunione della differenza tra valore del bene e corrispettivo, cui il coniuge condannato dovrà provvedere con denaro attinto dal proprio patrimonio personale. Il coniuge convenuto potrà resistere alla domanda avversaria eccependo, ad es., l'acquiescenza del coniuge attore al compimento dell'atto. Ove dovesse riuscire a fornire tale prova, potrà risultare vittorioso rispetto alla domanda attorea di ricostituzione dello status quo ante della comunione legale, ma non potrà in ogni caso sottrarsi all'obbligo di pagamento alla comunione del prezzo conseguito dal terzo acquirente, poiché l'acquiescenza dell'altro coniuge all'atto di alienazione inizialmente osteggiato non vale a tramutare la natura del bene (e di conseguenza il corrispettivo percepito per la sua alienazione) da comune in personale, occorrendo allo scopo un atto ad hoc in cui sia manifestata tale volontà. Per effetto dell'acquiescenza, tuttavia, il coniuge alienante dovrà versare alla comunione il corrispettivo conseguito dal terzo acquirente, ma non anche la differenza rispetto al valore di mercato del bene, nel caso in cui sia stato alienato ad un prezzo inferiore. Il pagamento dell'equivalente monetario costituisce un'obbligazione di valore, per cui la sorte capitale dovrà essere assoggettata a rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, oltre ad essere incrementata di interessi legali maturati dal giorno dell'alienazione fino all'effettivo pagamento. Per «epoca della ricostituzione», deve intendersi il momento di esecuzione della prestazione, volontaria o a seguito di condanna giudiziaria (Bianca, 628). Il coniuge dissenziente che agisce ai sensi dell'art. 184 comma 3 non deve convenire in giudizio anche il terzo acquirente; l'obbligazione è, infatti, posta dalla norma esclusivamente a carico del coniuge alienante; inoltre, come evidenziato, l'acquisto del terzo è intangibile ed inattaccabile, per cui non v'è motivo di estendere il contraddittorio nei suoi confronti.

In una fattispecie avente ad oggetto un preliminare di vendita di quote di s.r.l., la Cassazione ha avuto modo di precisare che gli atti di disposizione di beni mobili non richiedono il consenso del coniuge non stipulante, essendo posto a carico del disponente unicamente un obbligo di ricostituire, a richiesta dell'altro, la comunione nello stato anteriore al compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l'equivalente del bene secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione, mentre non è stabilita alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia, per cui l'atto compiuto in assenza del consenso del coniuge resta pienamente valido ed efficace (Cass. n. 9888/2016). La stessa statuizione fu già enunciata dalla Suprema Corte in sentenza, Cass. n. 4890/2006 in tema di alienazione di azienda commerciale in comunione legale ad opera di un solo coniuge e nella sentenza Cass. n. 4033/2003, ove si precisa che l'alienazione, effettuata senza il consenso di uno dei coniugi, dell'azienda ricadente nella comunione legale è valida ed efficace, dal momento che il rimedio dell'invalidità (annullabilità) è previsto soltanto con riferimento agli atti riguardanti beni immobili o beni mobili registrati. Nell'interessante pronuncia, Cass. 13213/2003. la S.C. specifica che, in materia di acquisto di crediti, l'art. 184 comma 3 c.c. non deroga la disciplina generale della comproprietà (art. 1103 c.c.), che è destinata a regolare la fattispecie nel caso di acquisto comune (contitolarità) e cointestazione dei titoli, vigendo per tale ipotesi la regola generale in tema di comunione, secondo la quale ciascuno può disporre del bene comune non più che per la sua parte (art. 1108 c.c.), ancorché indivisa, e l'altra secondo la quale nessuno può disporre di diritti altrui se non in forza di un titolo abilitativo (mandato, procura) proveniente dal titolare.

Ulteriori rimedi per il coniuge pretermesso

Accanto ai rimedi dell'annullamento e della ricostituzione previsti dall'art. 184 c.c., in dottrina si ritiene che il coniuge pretermesso possa impugnare l'atto compiuto senza il suo necessario consenso perché presenta profili di nullità per illiceità del motivo comune (art. 1345 c.c.), o provocarne l'annullamento per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato ex art. 1394 c.c. (Cendon, 328). Il coniuge pretermesso può, in ogni caso, poi, proporre la domanda di risarcimento del danno patrimoniale nei confronti del coniuge che ha compiuto un atto eccedente la straordinaria amministrazione senza il suo consenso o addirittura a sua insaputa. L'ammissibilità di tale soluzione mira a soddisfare esigenze pratiche: la sperimentazione positiva dell'azione di annullamento ex art. 184 comma 1 c.c. esporrebbe, infatti, il coniuge disponente al rischio di essere convenuto in giudizio dal terzo contraente per accertarne la responsabilità contrattuale e vederlo così condannare al risarcimento del danno; l'accoglimento di questa domanda del terzo provocherebbe un pregiudizio economico per il patrimonio in comunione e quindi anche per il coniuge pretermesso, il quale, per questo motivo, potrebbe preferire di lasciar decorrere infruttuosamente il termine annuale per proporre l'annullamento dell'atto di straordinaria amministrazione stipulato dall'altro coniuge a sua insaputa o senza il suo consenso, ed agire esclusivamente nei confronti del coniuge per il risarcimento del danno. Il danno risarcibile può comprendere anche il lucro cessante: si pensi all'ipotesi in cui il coniuge attore riesca a dimostrare che nello stesso periodo della stipula dell'atto di alienazione, egli aveva intavolato trattative concrete con un altro potenziale acquirente disposto a versare un prezzo più alto di quello concordato e conseguito dal coniuge disponente. Una volta decorso il termine annuale di prescrizione per l'azione di annullamento dell'atto, il coniuge pretermesso potrebbe agire nei confronti del coniuge disponente per il risarcimento del danno rappresentato dalla differenza tra il prezzo ricevuto e quello che la comunione avrebbe potuto ricavare dalla cessione del bene immobile all'altro acquirente interessato. La domanda di risarcimento del danno può essere proposta anche nell'ambito del giudizio di annullamento dell'atto ex art. 184 comma 2, nel caso in cui il coniuge pretermesso possa far emergere ulteriori pregiudizi patrimoniali che la condotta illecita del coniuge convenuto ha arrecato alla comunione legale, come ad es. la mancata percezione di canoni di locazione del bene immobile alienato senza il suo consenso nel lasso di tempo intercorso tra il compimento dell'atto e l'accoglimento della domanda di annullamento (Oberto, 1243 ss.); chiaramente il coniuge attore dovrà provare in concreto la mancata percezione dell'utilità invocata (ad es. provando con testimoni l'esistenza di trattative concrete e quasi in dirittura di arrivo per la stipula di un contratto di locazione ad uso abitativo o commerciale dell'immobile) e non reclamare il risarcimento del danno solo in linea astratta ed ipotetica. Si sottolinea che il coniuge disponente, agendo in palese dispregio della regola dell'amministrazione congiunta prevista dall'art. 180 comma 2 c.c., viola il dovere di leale collaborazione tra coniugi sancito dall'art. 143 c.c.; pertanto la sua responsabilità deve essere configurata come contrattuale, con conseguente applicazione della disciplina giuridica dettata negli artt. 1218 ss. c.c. (Bruscuglia, 313; Anelli, 262; contra Bianca, 620 ss.; Segni, 645; Natucci, 132, che ritengono si profili a carico del coniuge disponente una responsabilità extracontrattuale). Ci si è chiesti in dottrina se il coniuge pretermesso possa, altresì, presentare domanda di risarcimento del danno nei confronti del terzo acquirente in mala fede, ricavabile dalla considerazione che il terzo, pur sapendo che il bene immobile rientrava in comunione legale, abbia stipulato ugualmente l'atto di alienazione immobiliare con un solo coniuge, concorrendo con quest'ultimo alla consumazione della illecita violazione dell'art. 180 comma 2 c.c. La dottrina largamente maggioritaria risponde in modo affermativo a tale quesito (Bianca, 622; Segni, 647; Mastropaolo-Pitter, 224 ss.; Galasso, 382; Anelli, 263). La responsabilità dovrebbe limitarsi ai danni che il contratto di cui è stato parte ha, di per sé, arrecato alla comunione, e, dunque, solo all'eventuale sproporzione fra il valore del bene comune oggetto di disposizione e la controprestazione (Segni, 647; Bianca, 622; Anelli, 263; Valignani, 521). Un'opinione isolata sostiene la conclusione opposta e negativa, secondo cui il terzo non ha alcun obbligo di «collaborare» per prevenire la violazione del principio di amministrazione congiunta della comunione legale, potendo contare sull'efficacia del proprio acquisto (Bruscuglia, 315). Ultimo profilo di responsabilità da analizzare attiene a quella del coniuge disponente nei confronti del terzo acquirente, nel caso in cui ometta di riferirgli che il bene oggetto del preliminare di compravendita o direttamente del rogito definitivo ricada in comunione legale, rappresentandogli di esserne il proprietario esclusivo. In tal caso il coniuge disponente dovrà risarcire al terzo acquirente il danno patrimoniale patito dalla pronuncia di annullamento dell'atto conseguita dal coniuge pretermesso ai sensi dell'art. 184. A suo carico si configura una responsabilità precontrattuale per aver taciuto alla controparte l'esistenza di una causa di invalidità del contratto (Oberto).

In una fattispecie di stipulazione di un contratto preliminare di compravendita, la S.C. di Cassazione ha confermato la pronuncia di merito gravata che aveva riconosciuto la responsabilità del promittente venditore nei confronti del promittente acquirente sul presupposto che questi aveva fatto legittimo affidamento nella conclusione del contratto senza conoscere che il bene era in comunione legale con il coniuge del promittente alienante, qualificando la responsabilità del coniuge promittente venditore come responsabilità precontrattuale, motivando che l'art. 1338 c.c., essendo finalizzato a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato dalla ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere, è applicabile a tutte le ipotesi di invalidità del contratto, e pertanto non solo a quelle di nullità, ma anche a quelle di nullità parziale e di annullabilità (come l'art. 184), poiché in tali casi sussiste la medesima esigenza di tutela delle aspettative delle parti al perseguimento di quelle utilità cui esse mirano mediante la stipulazione del contratto medesimo (Cass. n. 16149/2010). In una pronuncia più risalente la giurisprudenza di legittimità ha escluso la possibilità di configurare profili di responsabilità precontrattuale in capo al coniuge del promittente alienante che in un primo momento aveva preso parte alle trattative, omettendo di fare emergere l'esistenza dei regime di comunione legale ed aveva riscosso una parte del prezzo del bene oggetto del preliminare di compravendita, salvo poi non partecipare alla stipula dell'atto e domandare in un secondo momento l'annullamento ex art. 184 c.c. del preliminare stesso. Con riferimento a questa fattispecie la S.C. ha precisato che la condizione necessaria perché sorga la responsabilità di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c., è che un soggetto assuma la qualità di parte nelle trattative, mentre è irrilevante, a tal fine, la sola circostanza che lo stesso sia titolare della situazione sostanziale sottostante; e pertanto il coniuge comproprietario dì un immobile acquistato in regime di comunione legale, pur essendo parte necessaria per l'alienazione dello stesso, non è responsabile ex art. 1337 c.c. ove non sia intervenuto in tale qualità nelle trattative (Cass. n. 6386/1983).

Bibliografia

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