Legge - 1/12/1970 - n. 898 art. 12 bis

Giuseppe Pagliani
Francesco Maria Bartolini

Art. 12-bis.

1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza.

2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio (1).

(1) Articolo aggiunto dall'articolo 16, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74.

Inquadramento

La norma in commento concorre a integrare la disciplina legale dei rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi successivamente al divorzio con specifico riguardo ai diritti del coniuge divorziato sull'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge al termine del rapporto lavorativo. In tal senso essa si affianca alle disposizioni dettate dalla l. 1 dicembre 1970, n. 898, in materia di pensione di reversibilità e di assegno a carico dell'eredità di cui agli artt. 9, 9-bis, 12-ter.

L'art. 12-bis fu inserito nella normativa sul divorzio dalla l. n. 74/1987 nel contesto di una profonda trasformazione della disciplina dei procedimenti di separazione e di divorzio e dei rapporti tra i coniugi conseguenti a queste vicende incisive sul vincolo matrimoniale. Con l'innovazione si attribuì al coniuge divorziato, non passato a nuove nozze e titolare dell'assegno divorzile, il diritto a percepire una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dal coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro. Il riconoscimento di un siffatto diritto trovava motivo in parziali riconoscimenti ad opera della giurisprudenza e nei principi stessi che progressivamente erano venuti ad enuclearsi nell'interpretazione dottrinaria e nell'applicazione giudiziaria. Appariva dovuto ed equo ammettere un titolo alla condivisione del trattamento di fine rapporto per chi aveva avuto comunanza di vita con il soggetto le cui retribuzioni venivano parzialmente accantonate in vista del termine dell'attività lavorativa.

 Risultava inoltre per tal modo applicata la regola secondo cui doveva attribuirsi rilevanza alle situazioni economiche sviluppatesi durante la convivenza matrimoniale  al cui risultato poteva aver nutrito una legittima aspettativa il coniuge che di essa avrebbe partecipato se il rapporto fosse continuato. Parte della dottrina osservò che per tal modo si sarebbe giunti ad equiparare un matrimonio non più esistente a un matrimonio proseguito soltanto ipoteticamente (Contiero, Il trattamento economico del coniuge nella separazione e nel divorzio, Milano, 2013, 230). La norma in oggetto è stata conservata anche dalla riforma del processo civile di cui al d.lgs. n. 149/2022.

Presupposti normativi del diritto alla quota dell’indennità

La disciplina dettata dall'art. 12 bis prevede la concomitante sussistenza di tre presupposti: la sentenza dichiarativa dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; la riconosciuta titolarità del diritto all'assegno divorzile; e l'assenza di un nuovo matrimonio per il titolare dell'assegno.

La norma è interpretata nel senso che occorra una sentenza di divorzio e non siano sufficienti i provvedimenti temporanei e urgenti presidenziali o emessi nel corso del procedimento; la sentenza deve essere passata in giudicato e può anche essere quella che segue alla domanda di divorzio congiunta. La medesima norma si riferisce chiaramente all'assegno di divorzio e dunque essa non è considerata applicabile nel caso in cui l'assegno sia stato sostituito dalla dazione in unica soluzione. Il diritto a percepire l'assegno deve essere sancito dalla sentenza divorzile: non può derivare da accordi raggiunti tra i coniugi e non formalizzati con provvedimento del giudice (Cass. n. 17404/2004). Le nuove nozze determinano la perdita dell'assegno ex art. 5, comma 10, l. n. 898/1970 e questa è la ragione per la quale esse costituiscono una ragione preclusiva del diritto a compartecipare del trattamento di fine rapporto. Ovviamente deve trattarsi di un matrimonio avente rilevanza giuridica per l'ordinamento e non lo sarebbe una convivenza more uxorio o un matrimonio non trascritto nei registri dello stato civile. Assume, tuttavia, rilevanza la situazione diversa dal matrimonio costituita dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, disciplinata dalla l n. 76/2016. A tali unioni si applica, infatti, il dettato dell'art. 12 bis della legge sul divorzio, in forza dell'art. 1, comma 19, della legge citata. La norma dispone che, in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono essere corrisposte anche alla parte dell'unione civile. L'equiparazione sostanziale dei rapporti in argomento al matrimonio ha condotto ad estendere loro una disciplina fondata su palesi ragioni di riconoscimento della pregressa convivenza e di solidarietà ravvisabili anche nelle unioni solidali estranee al matrimonio formale. L'applicazione dell'art. 12 bis della legge sul divorzio anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, disposta dall'art. 1, comma 19, della l. n. 76/2016, comporta che le disposizioni dettate in tema di concorso con gli altri aventi diritto valgano anche nel caso in cui il soggetto superstite non era legato da matrimonio con il defunto ma era con lui compartecipe di una unione civile tra persone dello stesso sesso. L'estensione richiede che siano ripensati i presupposti occorrenti per usufruire del beneficio rappresentato dalla quota del trattamento di fine rapporto. In proposito va ricordato che la stessa l. n. 76/2016 estende alle unioni civili tra persone dello stesso sesso una parte della normativa prevista per il divorzio vero e proprio. Il comma 25 del menzionato art. 1 dispone, infatti, che si applicano, in quanto compatibili (e tra l'altro), gli artt. 4 , 5 commi primo e dal quinto all'undicesimo, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter,  12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898

Il diritto a percepire una quota dell'indennità di fine rapporto è riferito alla cessazione di un rapporto di lavoro che già esisteva durante la convivenza coniugale: soltanto in tal caso potendo tale diritto essere riferito ad aspettative maturate per il coniuge nel corso della vita coniugale. L'incremento patrimoniale conseguito potrà essere valutato, se mai, sotto il profilo di una revisione dell'assegno divorzile.

La giurisprudenza ha tratto argomento dal confronto tra le norme di cui all'art. 12 bis (in tema di TFR) e all'art. 9 stessa l. n.  898/1970 (in tema di pensione di reversibilità) per affermare, in base a ragioni logico-sistematiche (non potendosi dare, nell'ambito del medesimo testo legislativo e senza alcuna ragione, una diversa interpretazione a norme di uguale tenore), che il sorgere del diritto alla quota dell'indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti ma presuppone che l'assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione (Cass. n. 21002/2008). Il diritto dell'ex coniuge, titolare di assegno di divorzio, diventa attuale ed è quindi azionabile nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell'ex coniuge, questi percepisce il relativo trattamento ed è, inoltre, soggetto alla condizione negativa del mancato passaggio a nuove nozze del coniuge titolare dell'assegno (Cass. 5719/2004).

Il diritto del coniuge divorziato, che sia anche titolare dell'assegno di cui all'art. 5, comma 6 della l. n. 898 del 1970, ad ottenere una quota del trattamento di fine rapporto dell'ex coniuge sorge nel momento in cui quest'ultimo matura il diritto a percepire detto trattamento e, dunque, al tempo della cessazione del rapporto di lavoro, anche se il relativo credito è esigibile solo quando - e nei limiti in cui - l'importo è effettivamente erogato; una volta cessato il rapporto di lavoro, non ha, dunque, alcuna incidenza sulla debenza della menzionata quota la presentazione, nel corso del giudizio instaurato per la relativa liquidazione, della richiesta di revoca dell'assegno divorzile, il cui eventuale accoglimento, anche se disposto dalla data della domanda, è successivo all'insorgenza del diritto previsto dall'art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 (Cass. I ord. n 24403/2022).  Non v'è spazio per una sentenza di condanna condizionata prima che l'altro ex coniuge abbia maturato, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto alla relativa percezione, atteso che la titolarità in concreto dell'assegno post matrimoniale e il mancato passaggio a nuove nozze rappresentano non semplici condizioni di erogabilità del beneficio in relazione a un diritto già sorto ma veri e propri elementi costitutivi (l'uno in positivo e l'altro in negativo) del diritto alla percentuale, i quali devono sussistere e vanno accertati allorchè, con la cessazione del rapporto di lavoro dell'ex coniuge, quel diritto si attualizza (Cass. n.18367/2006; Cass. n. 5719/2004). Costituisce condizione per il riconoscimento della quota la titolarità dell'assegno divorzile, già goduto; oppure che il richiedente abbia presentato la domanda al momento in cui l'altro ex coniuge  ha ha maturato il diritto alla corresponsione del trattamento. E' irrilevante che la domanda di attribuzione della quota sia stata presentata dopo che l'assegno divorzile è stato revocato, dato che la revoca opera ex nunc (Cass. I, ord. n. 4499/2021). Per Cass. I, ord. n. 7733/2022, la circostanza che l'ex coniuge beneficiario di tale assegno abbia percepito la quota dell'indennità di fine rapporto spettante all'altro ex coniuge è ininfluente ai fini della revoca o della modifica del menzionato assegno poiché, mentre al riconoscimento dell'assegno segue sempre il diritto alla percezione della quota di TFR, al riconoscimento della quota di TFR non segue la revoca dell'assegno, disapplicandosi altrimenti il disposto dell'art. 12 bis della l. n. 898 del 1970, che di tale beneficio fissa presupposti e legittimazione, tenuto anche conto che la percezione della quota di TFR da parte del titolare dell'assegno divorzile si affianca all'incasso di un importo ben maggiore da parte dell'obbligato al suo pagamento.

L’indennità di fine rapporto di lavoro

L'art. 12 bis è testualmente riferito all'indennità di fine rapporto, che trova disciplina generale nell'art. 2120 c.c. e che consiste in una prestazione pecuniaria avente natura di retribuzione differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro, quantificata in proporzione alla durata del rapporto e alla retribuzione percepita. Si concorda nel ritenere che il dettato normativo debba essere esteso a indennità aventi la medesima finalità, quali l'indennità di buona uscita per i pubblici dipendenti.

 In proposito la giurisprudenza ritiene che la locuzione “indennità di fine rapporto” utilizzata dalla norma citata comprende tutti i trattamenti di fine rapporto – derivanti sia dal lavoro subordinato che dal lavoro parasubordinato – comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro. In base a questo principio, Cass. 19309/2003 ha ritenuto riconducibile al dettato dell'art. 12 bis l'indennità premio di servizio erogata dall'Inadel (poi INPS) ai dipendenti degli enti locali, in quanto anch'essa costituisce, appunto, una parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione è differita alla data di cessazione del rapporto. Sul medesimo assunto, analoga affermazione è stata effettuata con riguardo alle indennità dovute per la risoluzione del rapporto di agenzia (Cass. n. 28874/2005, per la quale, al fine di stabilire se una determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno fra le indennità di fine rapporto contemplate dell'art. 12 bis, non è determinante il carattere strettamente o prevalentemente retributivo dell'attribuzione ma, piuttosto, il correlarsi della stessa all'incremento patrimoniale prodotto, nel corso del rapporto, dal lavoro dell'ex coniuge, che si è giovato del contributo indiretto dell'altro coniuge). Nel caso di indennità spettante all'agentegenerale di un'agenzia di assicurazioni, tale diritto spetta unicamente ove l'attività dell'agente si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale e non sia svolta attraverso una struttura organizzata (Cass. VI, n. 17883/2016; Cass. VI, n. 14129/2014). Non è sufficiente la mera circostanza che la contrattazione collettiva riconosca all'agente il diritto ad un'indennità da corrispondersi in occasione della cessazione del rapporto di lavoro (Cass. VI, n. 17883/2016).

Si esclude l'equiparazione alle indennità di fine rapporto delle somme riscosse in forza di polizze assicurative e di misure di previdenza integrativa, generalmente costituite attraverso trattenute periodiche sulla retribuzione; e delle indennità di mancato preavviso o di licenziamento, aventi sostanziale natura risarcitoria di un danno patito. È stata esclusa, altresì, la detta equiparazione nel caso degli incentivi pecuniari all'anticipato collocamento in quiescenza (Cass. n. 3294/1997), all'indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai (Cass. n. 5720/2003) e l'assegno vitalizio erogato dalla Camera dei deputati (Cass. n. 10177/2012).

Il diritto alla quota riguarda tutti i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Trib. Modena, II, 16 marzo 2011). Il diritto sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell'ex coniuge. Nel calcolo rientrano anche le somme (cd. incentivi all'esodo) corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (Cass. VI, n. 14171/2016).

Legge divorzio e art. 2122 c.c.

L'art. 12 bis della L. 898/1970 non è stato coordinato con il disposto dell'art. 2122 c.c., che nell'indicare i soggetti legittimati a ricevere l'indennità di fine rapporto nel caso di morte del prestatore di lavoro non menziona anche il coniuge divorziato. Sul punto si è pronunciata la giurisprudenza, che ha colmato il vuoto legislativo: “L'art. 12 bis … trova applicazione anche nell'ipotesi di decesso dell'obbligato in costanza di rapporto, in quanto esso riguarda tutti i casi in cui il T.F.R. sia comunque spettante al lavoratore, anche se non ancora percepito, senza che rilevi in contrario la circostanza che l'art. 2122 c.c. non indichi, tra gli aventi diritto all'indennità, l'ex coniuge. Ed infatti la citata disposizione codicistica, anteriore all'entrata in vigore della legge sul divorzio, si limita a disciplinare l'attribuzione del T.F.R. in caso di morte del lavoratore mentre l'art. 12 bis della l. n. 898/1970 si inserisce nel plesso normativo concernente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i divorziati, con la previsione della spettanza all'ex coniuge, nell'ambito dei principi solidaristici cui si ispira anche la disposizione relativa alla corresponsione allo stesso di una quota della pensione di reversibilità, di una quota parte del T.F.R. dovuto all'altro ex coniuge, subordinatamente alla condizione positiva della sussistenza del suo diritto all'assegno divorzile e a quella negativa del mancato passaggio a nuove nozze. Ne consegue l'irragionevolezza di una operazione ermeneutica che escluda il diritto dell'ex coniuge a una quota dell'indennità per il servizio già prestato, maturata dall'altro coniuge, per effetto di una circostanza accidentale, quale il decesso di quest'ultimo in costanza del rapporto di lavoro” (Cass. n. 285/2005; Cass. n.12426/2000). La norma prevede che al coniuge divorziato è attribuita una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, anche se l'indennità è venuta a maturare dopo la sentenza di divorzio.

Il diritto alla quota

Secondo interpretazione consolidata il diritto alla quota sorge anche se l'indennità spettante all'altro coniuge sia maturata nel corso della procedura di divorzio (Cass. VI, n. 14129/2014); nel corso del giudizio, infatti, non possono esservi soggetti titolari dell'assegno divorzile, che viene costituito e diventa esigibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza, ma che in astratto sorge contestualmente alla domanda di divorzio, alla quale gli effetti della sentenza retroagiscono (Cass. I, n. 12175/2011; Cass. I, n. 25520/2010). 

La formulazione dell'art. 12 bis ha dato luogo a un importante dibattito interpretativo, suscettibile di conseguenze pratiche di notevole rilievo. La disposizione prevede che il diritto a una percentuale dell'indennità TFR sussiste anche se questa viene a maturare dopo la sentenza di divorzio. La prospettazione di una alternativa, fondata su quell'anche, ha dato spazio alla proposizione di ipotesi diverse per i casi di indennità maturata in costanza di matrimonio, dopo la cessazione della convivenza, anteriormente o successivamente al divorzio. In un primo momento la giurisprudenza si espresse nel senso che la norma consentiva che il diritto a partecipare della indennità di fine rapporto spettasse anche ove l'indennità fosse maturata prima della sentenza di divorzio (Cass. n.  7249/1995). Si osservò, dalla dottrina, che per tal modo si giungeva ad attribuire una efficacia retroattiva alla sentenza di divorzio. Cass. n.  5553/1999 introdusse un temperamento: “Il disposto dell'art 12 bis l. n. 898/1970, nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto a una quota dell'indennità di fine rapporto dell'altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio”, va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l'indennità spettante all'altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente a essa – in tal senso dovendosi intendere l'espressione “anche prima della sentenza di divorzio”, implicando ogni diversa interpretazione indiscutibili profili di incostituzionalità della norma – e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore, in pendenza del precedente giudizio di separazione”. La giurisprudenza ha successivamente seguito il principio così posto, per il quale il diritto alla quota dell'indennità sussiste unicamente se l'indennità è maturata al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore (Cass. n. 12175/2011; Cass. n.  19046/2005). Cass. n. 14129/2014 ha poi affermato che l'art. 12 bis va interpretato nel senso che il diritto alla quota dell'indennità di fine rapporto sorge anche se l'indennità spettante all'altro coniuge è maturata nel corso della procedura di divorzio. Cass. sez. VI, n. 7239/2018 ha affermato che l'art. 12-bis, nella parte in cui stabilisce il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto “anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza” deve essere interpretato nel senso che tale diritto può sorgere anche prima della sentenza di divorzio ma dopo la proposizione della relativa domanda, coerentemente con la natura costitutiva della sentenza sullo status e con la possibilità, ai sensi dell'art. 4 stessa legge n. 898/1970, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza a partire dalla data della domanda. Nello stesso senso si è pronunciato il Tribunale di Savona, 11 settembre 2019.

L'espressione “anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza”, che si legge nell'art. 12-bis, deve essere interpretata nel senso che il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto può sorgere anche prima della sentenza di divorzio ma dopo la proposizione della relativa domanda, coerentemente con la natura costitutiva della sentenza sullo status e con la possibilità, ai sensi dell'art. 4 l. n. 898/1970, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza a partire dalla data della domanda (Cass. n. 7239/2018). Il diritto diviene, quindi, azionabile nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell'ex coniuge, questi percepisce il relativo trattamento (App. Bologna, I, 30 gennaio 2007, n. 140, Il merito 2007, 11, 36); ma può essere attribuito con lo stesso provvedimento attributivo dell'assegno di divorzio (Cass. I, n. 19309/2003), divenendo esigile con il passaggio in giudicato (Cass. I, n. 27233/2008); esso spetta ogni qualvolta la indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio (Cass. I, n. 24057/2006).

Calcolo della quota

Il coniuge titolare dell'assegno di divorzio ha diritto a una percentuale dell'indennità di fine rapporto altrui nella misura del 40%, parametrata alla durata temporale del matrimonio. La determinazione concreta della percentuale richiede un calcolo matematico, che così è stato descritto dalla Corte di cassazione: in base al coordinamento tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 12 bis ne deriva “ … che l'indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l'indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40% su tale importo” (Cass. n. 1348/2012; conforme Cass. n.15299/2007). Così inteso, secondo la lettera della legge, il calcolo non comprende gli eventuali acconti che l'avente diritto abbia consumato prima della cessazione del rapporto di lavoro. Sul punto la Suprema corte ha chiarito che per la liquidazione della quota occorre avere riguardo a quanto percepito, per detta causale, dopo l'instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi eventuali anticipazioni riscosse durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, in quanto definitivamente entrate nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto (Cass. n. 2441/2013). Nell'occasione si è anche precisato che la somma sulla quale computare la quota va intesa al netto delle imposte, posto che, altrimenti, verrebbe calcolata su un importo in realtà non riscosso perché gravato dal carico fiscale.

Se le modalità del calcolo appaiono chiare, meno semplice è apparso stabilire in base a quali criteri vada individuato il periodo di durata del matrimonio rispetto al quale effettuare il calcolo percentuale.

Poiché soltanto il divorzio scioglie il matrimonio o ne fa cessare gli effetti civili, l'opinione prevalente è nel senso che debbasi tener conto del lasso temporale intercorso tra la celebrazione del matrimonio e il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio. In questo senso si è pronunciata costante giurisprudenza, in dichiarata considerazione del fatto che il matrimonio non cessa con il venir meno della convivenza e con la separazione, di fatto o legale (Cass. n. 1348/2012; Cass. n. 4867/2006; Cass. n. 10075/2003). Cass. n. 1348/2012 e Cass. n.  4867/2006, in particolare, hanno spiegato che il legislatore si è ancorato a un dato giuridicamente certo e irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che a un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza alla convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto. La dottrina ha espresso voci contrarie, in base alla considerazione per la quale non appare accettabile computare nel periodo utile il tempo in cui i coniugi hanno vissuto separati, vale a dire, senza avere progetti di vita comune e senza comunione spirituale e materiale tra loro.  Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno poi affermato che la quota dell'indennità di fine rapporto - spettante, ai sensi dell'art. 12-bis della l. n. 898 del 1970, al coniuge titolare dell'assegno divorzile e non passato a nuove nozze - non concerne tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell'entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è, pertanto, ricompresa l'indennità di incentivo all'esodo, con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro (sent. n. 6229/2024).

Vige il principio per cui la ripartizione dell'indennità di fine lavoro deve essere effettuata oltre che sulla base del criterio legale della durata dei matrimoni anche ponderando ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica dell'istituto e individuati dalla giurisprudenza: l'entità dell'assegno riconosciuto al coniuge divorziato; le condizioni economiche di entrambi; e la durata della convivenza, ove il coniuge interessato alleghi, e provi, la stabilità e l'effettività della comunione di vita precedente al proprio matrimonio con il de cuius (Cass. I, ord. n. 21247/2021).

Non si applica al caso delle indennità di fine rapporto la norma che consente al coniuge l'azione diretta verso i terzi per ottenere il pagamento da costoro: azione che è prevista unicamente in relazione all'assegno periodico di divorzio. Sul punto la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità che era stata sollevata per stigmatizzare questa situazione, di asserita ingiustificata diversità. La Corte ha affermato trattarsi di scelte affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario (Cass. n. 237/2001).

Se l'indennità di fine rapporto è dovuta per la morte del dipendente nel corso dell'attività prestata, sulle somme maturate si apre la successione ereditaria. La regola applicabile nel caso in cui il coniuge divorziato, titolare di assegno, concorra con il coniuge superstite del defunto, è la seguente: “… va applicato il criterio della durata dei rispettivi matrimoni, di cui all'art. 9 l. n. 898/1970, riferito alla quota legale di spettanza del coniuge superstite, come previamente determinata, anche eventualmente in ragione del concorso con altri superstiti aventi diritto al medesimo emolumento” (Cass. n. 23880/2008). Ove, oltre al coniuge divorziato e al coniuge superstite esistano anche figli del lavoratore defunto o altri aventi diritto all'indennità, ai sensi dell'art. 2122 c.c., dal coordinamento tra questa disposizione e l'art. 9 della l. n.  898/1970 la giurisprudenza ha desunto l'affermazione per cui al coniuge divorziato va attribuita una quota della quota del coniuge superstite; deve, cioè suddividersi la quota di spettanza del coniuge superstite come previamente determinata in ragione del concorso di questi con gli altri superstiti aventi diritto (Cass. n. 1222/2000, che ha anche escluso l'applicabilità del criterio di ripartizione previsto dal primo comma dell'art. 2122).

Procedimento

Il procedimento finalizzato all'accertamento del diritto alla quota del TFR ed alla sua quantificazione è disciplinato dall'art. 4 della l. n. 898/1970 per i procedimenti pendenti alla data di efficacia della riforma del processo civile, stabilita nel 28 febbraio 2023 (d.lgs. n. 149/2022). Per i procedimenti instaurati successivamente a tale momento si applicano le norme del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia. La competenza territoriale, per tutte le cause relative a diritti di obbligazione, e dunque anche quelli relativi ai rapporti economici successivi al divorzio, spetta anche al giudice del luogo in cui deve essere eseguita l'obbligazione, ai sensi dell'art. 12-quater l. 1 dicembre 1970, n. 898. La decisione, nei procedimenti introdotti ex l. n. 898 del 1970, va resa con sentenza, ai sensi dell'art. 9, ultimo comma, della legge citata, come sostituito dall'art. 13 della l. n. 74 del 1987, sicché è suscettibile di impugnazione entro i termini ordinari di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., a prescindere dalle forme o dal rito adottato, poiché le eventuali peculiarità del procedimento non sono idonee, in difetto di specifiche indicazioni legislative, a sottrarre il provvedimento finale all'operatività dei suddetti termini per la proposizione del gravame (Cass. n. 22632/2023).

Le disposizioni processuali che temporaneamente sopravvivono alla riforma sono illustrate sub art. 4 e al relativo commento si rimanda. In questa sede ricordiamo alcuni principi acquisiti in sede giurisdizionale, in parte compatibili con la disciplina subentrata.

La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile nel corso del giudizio per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio la proposizione contestuale della domanda di assegno divorzile e della domanda di riconoscimento di una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dopo l'instaurazione del procedimento o da percepire dopo la pronuncia della sentenza. Le decisioni in tal senso hanno tratto argomento dalla ritenuta connessione tra le domande, che ne consente la proposizione nell'unico processo. Sarebbe contrario al principio di economia processuale esigere che la domanda di attribuzione di una quota del T.F.R. venisse proposta attraverso l'instaurazione di un separato giudizio tra le stesse parti; e in proposito si precisa che il diritto dell'ex coniuge titolare di assegno di divorzio ad ottenere una percentuale dell'indennità percepita dall'altro coniuge diviene attuale, ed è quindi azionabile, nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell'ex coniuge, questi percepisce il relativo trattamento (Cass. n. 27233/2008). Cass. n. 3924/2012ha precisato che la domanda di revisione dell'assegno di divorzio e quella riconvenzionale di riconoscimento di una quota del T.F.R. sono oggettivamente connesse ai sensi dell'art. 36 c. p. c., perché il diritto all'assegno, di cui si discute nel giudizio di revisione, è il presupposto di entrambe, non rilevando, inoltre, se il diritto alla quota dell'indennità maturi successivamente alla sentenza di divorzio; pertanto, l'art. 40 c. p. c. ne consente il cumulo nello stesso processo, sebbene si tratti di azioni per sé soggette a riti diversi.

Per Cass. n.30200/2011, il decreto della corte d'appello, emesso in un procedimento contenzioso avente a oggetto l'attribuzione di una quota di T.F.R. , ha valore di sentenza ed è idoneo a passare in giudicato, onde non è revocabile ai sensi dell'art. 742 c.p.c. – norma che riguarda i soli procedimenti di volontaria giurisdizione e che si riferisce proprio ai decreti conclusivi di tali procedimenti ma privi del carattere di decisorietà – essendo impugnabile, qualora ne sussistano i presupposti, con l'azione di revocazione di cui all'art. 395 c.p.c. Ne consegue che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto in tal caso emesso dalla corte d'appello su ricorso ex art. 742 c.p.c. Come si è sopra accennato, non è ammessa la richiesta di condanna condizionata (Cass. n. 5719/2004). Per Cass. n. 12175/2011 la domanda di corresponsione di un acconto sull'indennità di fine rapporto spettante all'ex coniuge, proposta nel giudizio di divorzio, è diversa dalla domanda di corresponsione di una quota di tale indennità riproposta in apposito giudizio e, pertanto, al riguardo non si forma alcun giudicato esterno.

La domanda può essere proposta in via riconvenzionale nell'ambito del procedimento di revisione dell'assegno, sussistendo anche in questo caso la connessione che consente il simultaneus processus (Cass. n. 3924/2012; Cass. n. 27233/2008). La  domanda riconvenzionale di revoca dell'assegno di divorzio può essere oggetto di valutazione solo per il futuro, ma fino a che non interviene un provvedimento di revisione —ai sensi dell'art. 9 l. 1 dicembre 1970, n. 898 - la sussistenza delle condizioni per l'assegno di divorzio non può essere posta in discussione, e quindi il giudicato produce tutti i suoi effetti e l'attribuzione dell'assegno comporta anche l'attribuzione di ogni diritto ad esso connesso e conseguente, come quello alla pensione di reversibilità ed alla quota dell'indennità di fine rapporto (cfr. Cass. I, n. 11913/2009).

Nel giudizio per il riconoscimento della quota non può essere posto in discussione, dal coniuge onerato, il presupposto della titolarità dell'assegno, giacché per far ciò occorre il previo esperimento di un giudizio di revisione delle condizioni di divorzio (Cass. VI, n. 16173/2015; Cass. I, n. 11913/2009), e in ogni caso la revoca dell'assegno non potrebbe che valere per il futuro, e quindi con salvezza dei diritti, già azionati, che all'assegno stesso si riconnettono, come appunto quello relativo alla quota sul t.f.r. (Trib. Modena, II, 16 marzo 2011).

Il reclamo avverso il decreto di attribuzione della quota è soggetto al termine perentorio di dieci giorni, con decorso dalla notificazione del provvedimento stesso, oppure, al termine di cui all'art. 327 c.p.c. (Cass. I, n. 12284/2010).

b) La normativa di cui al rito unificato in materia di famiglia

I procedimenti di nuova instaurazione, rispetto alla data delli 28 febbraio 2003, seguono le forme dettate dagli artt. 473-bis.47 e seguenti c.p.c. E' da ritenere infatti che la materia riguardante la ripartizione tra ex coniugi dell'indennità del TFR costituisca fattispecie particolare della modifica delle condizioni di divorzio, alle quali si riferisce la norma citata per indicare l'estensione dell'ambito della sua applicazione. Il coniuge che pretende di usufruire di una porzione della prestazione pecuniaria deve essere già titolare dell'assegno divorzile; e della situazione economica risultante la percezione della quota di TFR costituisce dunque una variante. Pertanto la competenza territoriale a conoscere della domanda spetta al tribunale del luogo di residenza del convenuto; in caso di sua irreperibilità o di residenza all'estero è competente il tribunale del luogo di residenza dell'attore ma se questi è residente all'estero è competente qualsiasi tribunale della Repubblica. La domanda è proposta con atto in forma di ricorso. Esso deve contenere gli elementi di cui al primo e al secondo comma dell'art. 473-bis.12. Dubbi sorgono per l'interprete a proposito della reale necessità di allegare al ricorso la documentazione di cui al terzo comma di questa disposizione. In tal senso dispone l'art. 473-bis.48, per il quale nei procedimenti cui si riferisce l'art. 473-bis.47 è sempre allegata la documentazione prevista dal detto terzo comma (dichiarazioni dei redditi, ecc…). Ma è lecito sospettare  dell'utilità di una simile produzione, in un contesto nel quale la condizione economica reciproca delle parti non ha alcunarilevanza e nel quale la determinazione della quota consegue ad un mero calcolo aritmetico.

Bibliografia

 Amadio, Macario, Diritto di famiglia, Torino, 2016;  Bartolini, La riforma del processo civile, Piacenza, 2023, p. 94 s.s.; F. Bartolini, M. Bartolini, Commentario sistematico del diritto di famiglia, Piacenza, 2016, 227 s.s.; Bonilini, Manuale del diritto di famiglia, 10° ediz. Torino, 2022; Bonilini, (a cura di) Trattato di diritto di famiglia, Padova, 2022; Camilletti, Alcune considerazioni sul diritto dell’ex coniuge divorziato a concorrere sull’indennità di fine rapporto e sulla pensione di reversibilità, in Resp. civ. e prev. 2016, 02, 0637B; De Filippis, Il nuovo diritto di famiglia dopo la riforma Cartabia, Milano, 2023; Gascone, Ardesi, Gioncale, Diritto di famiglia e minorile, Milano, 2021; Giordano, Simeone (a cura di), La riforma del diritto di famiglia: il nuovo processo, Milano, 2023, 39 s.s.; Montanari, Diritto del coniuge divorziato all’indennità di fine rapporto: condizioni e limiti temporali, in Nuova giur. civ. comm. 2005, I, 295; Ruscello, Diritto di famiglia, Milano, 2020; Sesta, Manuale del diritto di famiglia, 10° ediz., Padova, 2023.

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