Codice Civile art. 253 - Inammissibilità del riconoscimento (1) (2).Inammissibilità del riconoscimento (1) (2). [I]. In nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio (3) in cui la persona si trova [231 ss., 280]. (1) L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». (2) Articolo così sostituito dall'art. 105 l. 19 maggio 1975, n. 151. (3) L'art. 24, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha soppresso le parole «legittimo o legittimato». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. Precedentemente, l'art. 1, comma 11, l. 10 dicembre 2012, n. 219 aveva disposto che « Nel codice civile, le parole: “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: “figli” ». InquadramentoL'articolo in esame è stato modificato dall'art. 24 d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che si limita ad adeguare il testo sul piano lessicale, sostituendo al termine «figlio naturale» la locuzione «figlio nato fuori dal matrimonio» e abolendo il riferimento all'istituto abrogato della legittimazione. Il riconoscimento è un atto formale, in quanto dichiarazione resa a pena di nullità nelle forme previste dalla legge (Bianca C.M., 2014, 375). Esso svolge una funzione di accertamento, che richiede che l'atto sia documentato in forma pubblica, in modo da garantire la certezza giuridica circa il tempo e l'autore dell'atto, in vista della sua annotazione nel registro dello stato civile (Majello, 1982, 84). Il riconoscimento di regola è effettuato davanti all'ufficiale dello stato civile, ma può essere contenuto in un atto pubblico o in un testamento (Bianca C.M., 2005, 359). Esso può essere effettuato sia nell'atto di nascita, se contestuale alla dichiarazione di nascita, ma può anche avvenire con dichiarazione successiva alla nascita, ovvero precedente ad essa, purché successiva al concepimento. In tal caso, la dichiarazione entra nei registri dello stato civile attraverso l'iscrizione, qualora sia ricevuta dall'ufficiale dello stato civile separatamente dalla dichiarazione di nascita, ovvero mediante trascrizione della stessa nel caso in cui l'atto sia ricevuto da altro ufficiale dello stato civile, ai sensi dell'art. 46 d.P.R. 3 novembre 2000,n. 396. La volontà non deve peraltro essere manifestata con formule sacramentali, purché risulti la volontà del riconoscimento del nuovo nato (Majello, 1982, 84). Non pare dubbio che l'atto di nascita abbia natura costitutiva dello stato di filiazione, e dunque la presunzione di legittimità del figlio consegue non alla nascita in costanza di matrimonio, quanto alla dichiarazione in tal senso contenuta nell'atto di nascita (Dogliotti, Figone, Mazza Galanti, 2009, 128). La ratio della disposizione in esame è quella di impedire la giustapposizione di stati diversi, sicché lo stato di figlio nato nel matrimonio non può essere messo in discussione da un atto di riconoscimento e tanto vale anche rispetto alla disciplina dell'adozione, atteso che, ai sensi dell'art. 11, comma 7, l. 4 maggio 1983, n. 184, dopo la dichiarazione di adottabilità e l'affidamento preadottivo, il riconoscimento è privo di efficacia, salvo che l'affidamento non venga revocato o non si pervenga ad adozione (Dogliotti, 2015, 249). Si intende evidentemente evitare un contrasto insanabile tra due certezze giuridiche: quella contenuta nell'atto di nascita e quella riveniente dall'atto di riconoscimento. Un'ulteriore ragione di inammissibilità del riconoscimento è data dal contrasto dello stesso con il possesso di stato di figlio, ai sensi dell'art. 236 c.c., a mente del quale lo stato di filiazione si prova con l'atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile, o con il possesso continuo dello stato di figlio, fondato sull'uso del cognome, sul trattamento alla stregua di figlio e sulla fama (Franciosi-Picaro, 2000, 361). In ossequio al principio di certezza dello stato, l'art. 238 c.c. esclude la possibilità di un'azione di reclamo di uno stato diverso, quando vi sia la conformità con l'atto di nascita e con il possesso di stato, salve alcune eccezioni per ipotesi particolarmente gravi e tassativamente indicate, come l'ipotesi del matrimonio dichiarato nullo per incesto, ovvero la nascita del figlio oltre i trecento giorni dalla cessazione del matrimonio (Dogliotti, 2015, 253). La dottrina si è interrogata circa gli effetti del riconoscimento effettuato in violazione dell'anzidetto divieto. La tesi prevalente si pronuncia in favore dell'inefficacia dell'atto, alla luce del fatto che, in caso di successivo disconoscimento, riacquisterebbe efficacia il precedente riconoscimento (Ferrando, 1987, 158; Finocchiaro, 1884, 1711). Invero, l'inammissibilità dello stesso deriverebbe dalla forza preclusiva dell'atto di nascita, sul quale si fonda la presunzione di nascita nel matrimonio (Dogliotti, 2015, 258). Ove non risultino genitori che abbiano riconosciuto il figlio o la cui paternità e maternità siano stati giudizialmente accertate, viene pronunciata l'adottabilità, salvo che, ai sensi dell'art. 11, l. 4 maggio 1983, n. 184, non vi sia richiesta di sospensione della procedura da parte di colui che asserisce di essere genitore e che intende procedere al riconoscimento, ovvero non sia in grado di farlo per ragioni di età. Concordemente alla posizione assunta in dottrina, anche in giurisprudenza è pacifico che la presunzione di paternità stabilita dall'art. 231 c.c. non opera per il semplice fatto della procreazione da una donna coniugata, ma solo in quanto vi sia un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, e in conseguenza, mentre l'ufficio dello stato civile non può rifiutarsi di ricevere la dichiarazione di riconoscimento del padre di un figlio avuto da una donna che non consente di essere nominata, il genitore è libero e pienamente legittimato al riconoscimento del figlio adulterino, fino a quando non osti a tale riconoscimento l'esistenza di un valido titolo di stato di figlio legittimo (Cass. I, n. 2284/1965; conf. Cass. I, n. 963/1963; Cass. I, n. 964/1963; Cass. I, n. 301/1965). Se nell'atto non si indica la nascita dei genitori uniti in matrimonio, non opera la presunzione di nascita e non si acquista il diritto al relativo status. Pertanto, si ritiene in genere che la donna coniugata può riconoscere il proprio figlio, dichiarando nell'atto di nascita che il medesimo non è stato generato dal marito (Cass. I, n. 8059/1997; Cass. I, n. 3184/1987, Cass. I, n. 11073/1992, Cass. I, n. 3194/1996). Conseguentemente, il successivo venir meno del titolo di stato di cui era titolare il figlio, a seguito di disconoscimento di paternità e di impugnativa del precedente riconoscimento, consente al riconoscimento originariamente inefficace di acquistare effetti, stante il carattere retroattivo della sentenza che fa caducare l'originario status di figlio (Cass. I, n. 10838/1997). La presunzione di legittimità del figlio nato nel matrimonio, tuttavia, ai sensi dell'art 231 c.c., non precluderebbe un'indagine da effettuarsi incidentalmente su una diversa procreazione, ad esempio a fini successori (Cass. I, n. 6563/2004; tuttavia, in senso limitativo Cass. I, n. 9065/1969, argomenta che lo stato di figlio legittimo non è incompatibile con una indagine incidenter tantum, ai fini dell'esercizio dei diritti successori, su una diversa procreazione naturale (salvo che non si profili l'incesto) purché si versi in una situazione di impossibilità assoluta, cioè originaria, e non relativa, in quanto sopravvenuta, di proporre l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, escludendo che ciò possa avvenire nel caso del figlio naturale che, divenuto maggiorenne, abbia scientemente omesso di esperire, nel termine di decadenza all'uopo fissato, l'azione di disconoscimento del padre legittimo). Anonimato e riconoscimento da parte di donna coniugataCome si è argomentato, in dottrina e giurisprudenza è pacifico che la presunzione di nascita dal matrimonio di cui all'articolo 251 c.c., necessariamente iuris tantum essendo ammessa la prova contraria, opera soltanto nelle due ipotesi in cui figlio abbia un titolo di stato, mentre in caso contrario non sarebbe neppure necessaria alcuna azione di disconoscimento (Dogliotti, 2015, 255). Detta presunzione incontra tuttavia un preciso limite nella facoltà attribuita alla donna di non essere nominata nell'atto di nascita, ai sensi dell'art. 30, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, relativo al «Nuovo ordinamento dello stato civile». Peraltro, sussiste una discrasia rispetto alla previsione contenuta nell'art. 9, l. 11 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione assistita, ai sensi del quale la madre del nato, a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita, non può manifestare la volontà di non essere nominata. In tale prospettiva, deve ritenersi che la donna coniugata, prima della formazione dell'atto di nascita o al momento in cui esso viene formato, possa riconoscere il nato come proprio figlio fuori dal matrimonio, senza necessità di esperire l'azione di disconoscimento, il che emerge testualmente dalla possibilità della madre di riconoscere, ai sensi dell'art. 250 c.c. un figlio cosiddetto ‘adulterino'. Parte della dottrina ritiene che tanto possa avvenire soltanto se il figlio risulti di ignoti ovvero sia stato riconosciuto dal solo padre naturale (Finocchiaro, 1984, 1708). Tuttavia, tale assunto appare contraddetto dal fatto che il citato art. 30, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 – ord. st. civ., non pone alcun limite alla dichiarazione di nascita effettuata dalla madre rispettando la sua volontà di non essere nominata, anche atteso il fatto che la presunzione di nascita nel matrimonio di cui all'art. 231 c.c. opera soltanto in presenza dei suindicati presupposti (Dogliotti, 2015, 256). Se dunque essa opera solo in presenza di un conforme atto di nascita, è sempre ammessa la dichiarazione nell'atto di nascita, da parte della donna coniugata, dell'esclusione della paternità del marito e non sorge dunque alcuna necessità di esperire azione di contestazione dello stato di figlio, essendo sufficiente, in caso di difformità, l'esperimento di un'azione di rettifica dell'atto di nascita. La Corte di Cassazione ha più volte affermato, in continuità con un orientamento che risale alla sentenza Cass. S.U., n. 828/1934, che la presunzione di paternità di cui all'art. 231 c.c. non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato che il figlio da lei nato è figlio naturale, difettando l'operatività di detta presunzione e dello status di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell'art. 235 c.c., né si frappone alcun ostacolo all'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito (Cass. I, n. 8059/1997; Cass. I, n. 3194/1996; Cass. I, 11073/1992; Cass. I, 3184/1987). La facoltà della donna di dichiarare nell'atto di nascita di non voler essere nominata è stata riconosciuta da Corte cost., n. 171/1994 e da Corte cost. n. 425/2005. Successivamente, la Corte Costituzionale, con sentenza Corte cost. 2013/. 278, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 28 l. 4 maggio 1984, n. 183 sull'adozione dei minori, in quanto non prevede la possibilità per il giudice di interpellare, con riservatezza, la madre non nominata nell'atto di nascita, per l'eventuale assunzione di rapporti personali e non giuridici con il figlio. In particolare, la Corte ha riconosciuto all'adottato il diritto a conoscere le proprie origini e ha rilevato i profili di irragionevolezza nell'irreversibilità dell'anonimato della madre biologica, prevedendo la possibilità di un interpello di questa da attuarsi all'interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Viene operato un bilanciamento tra il diritto della madre all'anonimato, che si fonda «sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi», e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – atteso che tale «bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale». La sentenza, muovendo dalla distinzione tra «genitorialità giuridica» e «genitorialità naturale>>, ha ritenuto «eccessivamente rigida» e in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. la disciplina dell'art. 28, comma 7, l. 4 maggio 1983 n. 184, come sostituito dall'art. 177, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che consente alla madre la facoltà di dichiarare di non voler essere nominata, laddove non se ne preveda la revocabilità, in seguito alla richiesta del figlio, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza. Tale pronuncia ribalta il convincimento di infondatezza dell'anzidetta questione di costituzionalità, già espresso con sentenza Corte cost. n. 425/2005, sulla base dei principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 25 settembre 2012 – Ricorso n. 33783/09 – Godelli c. Italia, che ha censurato la vigente disciplina interna dell'anonimato, laddove non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l'accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini, non consentendo la reversibilità del segreto. La Corte richiama analoghi precedenti, in cui si afferma che il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra nel campo di applicazione della nozione di «vita privata» (Odièvre c. Francia [GC], n. 42326/98, § 29, CEDU 2003 III, e Mikulić c. Croazia, n. 53176/99, § 53, CEDU 2002 I). La Cassazione civile ha affermato che il diritto dell'adottato – nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ex art. 30, comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 – ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato, anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui all'art. 93, commi 2 e 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a condizione che i dati personali della defunta siano trattati lecitamente ed in modo tale da non arrecare un danno all'immagine, alla reputazione o ad altri beni di primario rilievo costituzionale, ad eventuali terzi interessati. (Cass. I, n. 22838/2016 e Cass. I, n. 15024/2016). Un approdo su questa materia è costituito dalla sentenza delle Sezioni Unite in tema di parto anonimo che, dirimendo una controversia in ordine alla possibilità di interpello della madre anonima in assenza di una disciplina normativa, ha affermato che per effetto della sentenza della Corte cost. n. 278/2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità (Cass. S.U., n. 1946/2017). La “possibilità” di cui alla decisione citata è stata poi considerata come un vero e proprio diritto: “Il figlio nato da parto anonimo ha diritto di conoscere le proprie origini, ma il suo diritto deve essere bilanciato con il diritto della madre a conservare l'anonimato, e deve pertanto consentirsi al figlio di interpellare la madre biologica al fine di sapere se intenda revocare la propria scelta, occorrendo però tutelare anche l'equilibrio psico-fisico della genitrice; pertanto il diritto all'interpello non può essere attivato qualora la madre versi in stato di incapacità, anche non dichiarata, e non sia pertanto in grado di revocare validamente la propria scelta di anonimato” (Cass. I, n. 7093/2022). Conforme Cass. I, n. 22497/2021, la quale ha aggiunto in motivazione che non rileva, ai fini dell'applicazione di queste regole, l'abrogazione dell'art. 177, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che aveva sostituito all'art. 28 della l. n. 183 del 1984, il comma 7, che inibiva il diritto alla conoscenza delle origini del nato da parto anonimo, sia perché il limite alla conoscenza di cui all'art. 28, comma 7, era già stato introdotto con la legge n. 149 del 2001, sia perché deve tenersi conto dell'intervento additivo di principio, cui ha provveduto la Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013. La decisione citata ha attribuito al diritto del figlio un ulteriore riconoscimento: "Il figlio nato da parto anonimo ha diritto di ottenere le informazioni sanitarie sulla salute della madre, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all'eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili; tale facoltà è ulteriore e distinta rispetto a quella di puro accesso alle origini, avendo come finalità la tutela della vita o della salute del figlio adottato o di un suo discendente. Ne consegue che l'esercizio del diritto deve essere garantito con modalità tali da tutelare l'anonimato della donna "erga omnes", anche verso il figlio, e la richiesta, meramente cartolare, di consultazione dei dati, quali ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica della partoriente, potrà comportare, non potendosi consentire un accesso indiscriminato al documento sanitario in oggetto, un diritto di accesso sulla base di un quesito specifico, non esplorativo, relativo a determinati dati sanitari, con l'osservanza di tutte le cautele necessarie a garantire la massima riservatezza, e quindi la non identificabilità, della madre biologica. BibliografiaAmadio, Macario, Diritto di famiglia, 2016; Amore, nota a Cass, 26097/2013 in Cass. Pen., 2014, 6, 2134; G.E. 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