Codice Civile art. 291 - Condizioni 1 2 .[I]. L'adozione è permessa alle persone che non hanno discendenti [legittimi o legittimati]3 , che hanno compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l'età di coloro che essi intendono adottare4. [II]. Quando eccezionali circostanze lo consigliano, il tribunale può autorizzare l'adozione se l'adottante ha raggiunto almeno l'età di trent'anni, ferma restando la differenza di età di cui al comma precedente [35 att.].
[1] Articolo così sostituito dall'art. 1 l. 5 giugno 1967, n. 431. [2] La Corte cost., con sentenza 19 maggio 1988, n. 557 ha dapprima dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo «nella parte in cui non consente l'adozione a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti» e poi con sentenza 20 luglio 2004, n. 245 «nella parte in cui non prevede che l'adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall'adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti». [3] V. l'art. 1, comma 11, l. 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di figli naturali, legittimi e legittimati e l'art. 105, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154. [4] La Corte costituzionale, con sentenza n. 5 del 18 gennaio 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 291, primo comma, del codice civile nella parte in cui, per l’adozione del maggiorenne, non consente al giudice di ridurre, nei casi di esigua differenza e sempre che sussistano motivi meritevoli, l’intervallo di età di diciotto anni fra adottante e adottando. InquadramentoSino all'inizio del ‘900 l'adozione costituì un istituto di tradizione aristocratica e della ricca borghesia. Essa fu utilizzata da coloro che non avevano discendenti ai quali lasciare il cognome, il titolo e il patrimonio. Aveva, dunque, finalità prettamente successorie e si fondava sul reciproco consenso, scambiato tra persone adulte. In prosieguo di tempo l'adozione assunse caratteristiche assistenziali, a favore di minori rimasti senza famiglia e senza soccorso. Ne costituì motivo il grande rivolgimento causato dalla prima guerra mondiale, la quale coinvolse nel dramma larghe fasce della popolazione civile. Una legge per gli orfani di guerra fu emanata il 31 luglio 1919, con il n. 1357. In modo analogo si provvedette nel 1940, dopo la ancor più tragica seconda guerra mondiale. Il codice civile del 1942 recepì la sparsa normativa precedente e ne fece un aspetto integrante delle sue disposizioni, riferite all'adozione degli adulti e all'adozione dei minorenni. Con la l. 5 giugno 1967, n. 341, si accolsero istanze che avevano evidenziato la necessità di una disciplina specifica per l'adozione dei minori, da diversificare rispetto a quella dettata per i maggiorenni. In allora l'adozione dei minori richiedeva ancora, oltre al consenso degli adottandi, il consenso dei genitori dell'adottato che non si trovasse in condizioni di completo abbandono. L'adozione nel frattempo era divenuta uno strumento formale adatto a munire di affetti familiari i coniugi privi di figli propri. Fu soltanto con la l. 4 maggio 1983, n. 184, che l'adozione dei soggetti minori di età fu autonomamente regolata con una normativa che interrompeva totalmente il rapporto dell'adottato con la famiglia di origine. L'adozione tradizionale disciplinata dalle disposizioni codicistiche è stata riservata al rapporto da istituire tra gli adulti (artt. 58 — 60 l. 184/1983) e si diversifica da quella dei minori per un aspetto cruciale: essa non crea, infatti, a differenza dell'altra, un rapporto di parentela con i discendenti dell'adottante (art. 74 c.c.). Funzione attuale dell'istitutoL'evoluzione dell'istituto dell'adozione di persone maggiorenni ne ha fatto oggi soprattutto uno strumento di assistenza solidaristica agli anziani privi di relazioni parentali ed anche un mezzo di conservazione del cognome per chi è privo di discendenti diretti (Giusti, 561). La Corte costituzionale (ord. Corte cost. 25 maggio 2003, n. 173) ha osservato, incidentalmente, che l'adozione di persone maggiori di età continua ad essere caratterizzata dalla originaria finalità di procurare un figlio a chi non lo ha avuto naturalmente dal matrimonio (adoptio in hereditatem). E ha sottolineato la differenza che intercorre con l'adozione dei minorenni, la quale persegue il fine di garantire al minore il diritto a vivere, crescere ed essere educato in un ambiente familiare stabile e armonioso, in cui si possa sviluppare la sua personalità, in caso di inesistenza o inidoneità dei genitori biologici. I minori adottati vengono inseriti definitivamente nella famiglia di accoglienza e acquistano, in corrispondenza alla cessazione dei loro rapporti con la famiglia di origine, lo stato di figli legittimi dei coniugi adottandi. Costoro assumono, a loro volta, la responsabilità educativa del minore adottato e diventano titolari dei poteri e dei doveri che caratterizzano la posizione dei genitori nei confronti dei figli: in particolare, del dovere di mantenere, istruire ed educare l'adottato, così come è previsto per i figli dall'art. 147 c.c. Viceversa, l'adozione del maggiore di età, consentita anche al singolo ed essenzialmente determinata dal consenso dell'adottante e dell'adottato, non implica necessariamente l'instaurarsi o il permanere della convivenza familiare e non determina la soggezione alla potestà del genitore adottivo, che non assume l'obbligo di mantenere, istruire ed educare l'adottato, oltre a non far sorgere alcun rapporto tra l'adottato e i parenti dell'adottante né tra l'adottante e la famiglia dell'adottato. La persistente funzione solidaristica riconosciuta dalla giurisprudenza ha portato a far affermare alla Corte di cassazione che è consentito all'adottando maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione giudiziale, di manifestare il proprio consenso anche per il tramite del suo rappresentante legale, trattandosi di un atto personalissimo che non gli è espressamente vietato e in conformità al dettato degli artt. 1 e 12 Convenzione Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, ratificata dall'Itali con l. n. 18/2009. (Cass. I, ord. n. 3462/2022). La decisione riprendeva affermazioni già enunciate in pronunce precedenti e veniva dunque a formare con esse un orientamento che si è protratto senza contrasti. Già con sentenza n. 89/1993, ad esempio, la Corte aveva dichiarato inesatta l'equiparazione dell'adozione ordinaria di persone maggiorenni di età all'adozione dei minori. E nel dichiarare con sentenza n. 500/2000 infondata la questione di costituzionalità dell'art. 291 c.c. in relazione alla differenza di età da rispettare tra adottante e adottato, ribadiva che l'adozione ordinaria ha struttura, funzione ed effetti diversi rispetto all'adozione dei minori e che tali diversità erano idonee a giustificare una differente disciplina con riguardo alle possibilità di derogare al divario suddetto di età. In senso analogo fu pronunciato con l'ordinanza n. 82/2001 che dichiarava manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 291 nella parte che non consentiva al giudice di ridurre l'intervallo dei diciotto anni di età tra adottante e adottato: erroneamente, infatti, il giudice rimettente aveva ritenuto che l'adozione ordinaria creasse un legame giuridico familiare. La giurisprudenza di merito ha osservato che l'adozione di maggiorenne presuppone la verifica del requisito della convenienza che sussiste quando l'adottando trovi un'effettiva e reale rispondenza nella comunione di intenti dei richiedenti (Trib. Milano, I, 7 luglio 2018, n. 48). Alcuni Autori negano all'adozione attualità e concretezza di funzione, dovendo per gli scopi assistenziali e benefici cui si dice esser preposta ricorrere ad altri istituti giuridici (De Giorgi, Comm. alla l. 4 maggio 1983, n. 184, in Le nuove leggi civ. comm.,1984, 199). Altri studiosi ne segnalano l'abuso o, quanto meno, l'utilizzo difforme dall'intento originario, che talvolta è emerso nell'applicazione pratica. Uno di questi utilizzi si è concretato nel fornire una veste formale a relazioni affettivo-sentimentali (Cattaneo, 127), in taluni casi di natura omosessuale (Costantini, La prassi dei trib. nel vaglio di liceità e di meritevolezza dell'adozione dei maggiori di età: abuso o non uso del diritto, in Contr. Impr. 2000, 569). Sono conosciuti casi di irrituale regolarizzazione di immigrazione mascherati da adozioni. Il Tribunale di Prato (10 luglio 2015, n. 2232) ha ammesso l'adozione di persona maggiorenne da parte della zia (sorella della madre) sul presupposto dell'avvenuto decesso del padre e di consenso della madre, in un caso in cui l'adozione consentiva di rafforzare un legame giuridico e affettivo già presente con la predetta, con acquisizione dei conseguenti diritti successori. Lo stesso tribunale ( Trib. Prato 11 gennaio 2012, NGCC, 2012, I, 529) ha affermato che non può essere pronunciata l'adozione di un maggiorenne quando tra chi chiede di adottare e l'adottando non intercorre alcun significativo legame affettivo e di consuetudine e in tutti quei casi in cui si accerti che la richiesta di adozione è utilizzata esclusivamente per aggirare la vigente normativa sull'immigrazione. Anche la Corte di appello di Torino (App. Torino 26 giugno 2006, in Dir. fam., 2006, 4, 1707) aveva affermato che non può essere pronunciata l'adozione di un maggiorenne da parte di un maggiorenne, ancorché privo di discendenti, qualora tra chi chiede di adottare e l‘adottando non intercorra alcun significativo legame di affetto e di consuetudine, specie se l'adottante è persona che permane precariamente nel territorio nazionale e la richiesta di adozione è, con ogni probabilità, diretta esclusivamente ad aggirare la vigente normativa italiana sull'immigrazione. Per il Tribunale di Livorno (Trib.Livorno, 7 aprile 2015, n. 3), nel disporre l'adozione occorre tener conto del beneficio per la parte adottanda che abbia già trascorso un lungo periodo di permanenza presso la famiglia adottante. Il dato letterale dell'art. 291 c.c. e la necessità di una sua lettura aggiornata Nel testo dovuto alla l. 4 maggio 1983, n. 184, l'art. 291 c.c. elenca le condizioni da osservare per far luogo all'adozione di persone maggiori di età. Queste condizioni sono (tuttora) così indicate: - l'adozione è permessa alle persone che non hanno discendenti legittimi o legittimati; - tali persone devono aver compiuto trentacinque anni; o, in casi eccezionali e con l'autorizzazione del tribunale, i trenta anni; - le medesime persone devono superare almeno di diciotto anni l'età di coloro che intendono adottare. Alcune delle proposizioni così formulate dalla norma non possono essere intese nel senso stabilito in origine. A mutarne la portata sono intervenute pronunce della Corte costituzionale e modifiche legislative indirette, di portata tale da consentire le affermazioni di quanti sostengono che l'art. 291 va ritenuto privo di contenuto normativo. È certo, comunque, che dell'intera disposizione si rende necessaria una lettura aggiornata. Mancanza di discendenti legittimi o legittimatiPresenza di figli maggiorenni L'art. 291 vieta, se si tiene conto del solo tenore letterale, l'adozione a chi ha già figli legittimi o legittimati. La ragione della limitazione andava colta nell'intento legislativo di conservare lo scopo primario dell'istituto, costituito dall'intento di dare un figlio a chi non aveva potuto averne e permettere quindi la trasmissione del cognome e degli averi familiari (Dogliotti, 2002, 150). Il divieto, inoltre, intendeva evitare che attraverso l'adozione di estranei si potessero attuare manovre elusive dei diritti e delle aspettative degli eredi legittimi: timore progressivamente venuto meno per la mutata concezione che assegna all'adozione di maggiori di età una funzione di assistenza agli anziani e di formalizzazione di rapporti affettivi. Il divieto è stato ridimensionato notevolmente nel suo ambito di applicazione. Con sentenza 19 maggio 1988, n. 557, la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità dell'art. 291 nella parte in cui non consentiva l'adozione alle persone aventi discendenti (in allora, legittimi o legittimati) maggiorenni e consenzienti. Si poneva, infatti, un ingiustificato contrasto di posizioni rispetto al coniuge dell'adottando, il cui consenso era idoneo a consentire l'adozione mentre non lo era il consenso del figlio maggiorenne. La disparità di situazioni appariva irragionevole alla luce della uguale posizione dei detti soggetti, entrambi maggiorenni, entrambi appartenenti al nucleo familiare e tutti ugualmente interessati alla conservazione dei valori morali e patrimoniali di tale nucleo. Il divieto di cui all'art. 291 non impedì, dunque, l'adozione ove fosse espresso un consenso dei figli maggiorenni, legittimi e legittimati. Ne seguiva che non poteva procedersi all'adozione di maggiorenni, ad opera di chi aveva figli legittimi o legittimati, se i figli maggiorenni non erano consenzienti ovvero se vi erano figli minorenni, come tali, incapaci di prestare il proprio assenso. La citata pronuncia della Consulta creava una disparità di situazioni che venne subito denunciata dalla dottrina. La discriminazione riguardava la posizione del figlio naturale riconosciuto dell'adottante, del quale non era richiesto il consenso, a differenza di quanto era venuto a risultare con riferimento alla filiazione legittima o legittimata. Con sentenza Corte cost. 20 luglio 2004, n. 245, la Corte ha dichiarato illegittimo l'art. 291 nella parte in cui non prevede che l'adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall'adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti. Nella decisione si osservava che l'interpretazione giurisprudenziale seguita alla pronuncia di incostituzionalità dell'art. 291 c.c., nel senso che il divieto di adozione di maggiorenni si applichi a coloro che hanno figli legittimi o legittimati minori o, se maggiorenni, non consenzienti, comporta una disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali riconosciuti e in pregiudizio dei secondi, per cui le ragioni di indole morale e patrimoniale, che consentono ai primi di opporsi all'adozione, valgono anche per i figli naturali. La pronuncia equiparava, dunque, i figli legittimi e legittimati ai figli nati fuori dal matrimonio ma riconosciuti: se maggiorenni, il loro consenso consentiva l'adozione di soggetti terzi. La l. 10 dicembre 2012, n. 219, dispose, in seguito, che non poteva più distinguersi, nel trattamento giuridico, tra figli legittimi e figli naturali, dovendo costoro essere considerati tutti come «figli», indipendentemente dall'essere avvenuta la nascita fuori oppure entro il matrimonio. Il successivo decreto attuativo d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, impose la soppressione dell'espressione «figli legittimi» da qualunque norma vi fosse contenuta e determinò l'abrogazione delle disposizioni sulla legittimazione. Ne seguì che il testo dell'art. 291 da allora doveva esser letto nel senso che esso impedisce l'adozione semplicemente a coloro che hanno discendenti. Il mutamento che é venuto a verificarsi non è soltanto terminologico, in quanto da esso è derivata la conseguenza per cui la disposizione comprende definitivamente nella nozione di discendenti anche coloro che una volta erano denominati figli naturali. Già la Corte costituzionale aveva pronunciato in questo senso. Con sentenza n. 245/2004 essa aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 291 c.c. nella parte in cui non prevedeva che l'adozione di maggiorenni non potesse essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall'adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti. Infatti, aveva osservato, l'interpretazione giurisprudenziale che ritiene il divieto di adozione applicabile a coloro che hanno figli legittimi o legittimati minori o, se maggiorenni, non consenzienti comporta una disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali riconosciuti e in pregiudizio dei secondi; per cui le ragioni di indole morale e patrimoniale che consentono ai primi di opporsi all'adozione valgono anche per i figli nati fuori dal matrimonio. La dottrina si è divisa in ordine alla questione concernente il valore ostativo all'adozione del semplice concepimento di un figlio non ancora nato. Si sostiene, da un lato, che l'ostacolo risiede nella tradizionale funzione dell'adozione di dare figli a chi ne è privo e in una esigenza di tutelare lo stesso concepito (Cattaneo, 125; De Filippis, 840; Procida Mirabelli di Lauro, 1995, 386). Si oppone l'opportunità di non estendere l'ambito applicativo della norma, che impone un divieto, oltre il caso direttamente considerato (Dogliotti, 2002, 154). Il divieto permane se il figlio è dichiarato scomparso. Cade, per contro, con la dichiarazione di morte presunta. Se il figlio ritorna, si pone la questione della sua ripercussione sull'intervenuta adozione. La dottrina suggerisce di ritenere l'adozione nulla, a meno che il ritornato ad essa consenta (Dogliotti, 2002, 154; Procida Mirabelli di Lauro, 386). Il consenso dei figli maggiorenni
Con la sentenza della Corte costituzionale n. 557/1988 , sopra ricordata, divenne consentita l'adozione al soggetto avente figli maggiorenni (legittimi o legittimati) a condizione dell'espressione del loro consenso. La dottrina osservò che più corretta sarebbe stata l'utilizzazione del termine «assenso», posto che il valore della manifestazione della loro volontà non poteva andare oltre ad una semplice adesione all'iniziativa altrui (ad es., Bianca, 2014, 476). In ogni caso, dovendo i detti figli essere maggiorenni, si richiedeva che essi esprimessero una volontà del tutto favorevole all'adozione di terzi maggiorenni. Si pose, allora, la questione della compatibilità con la regola così venuta a formarsi delle situazioni di incapacità dei detti figli a manifestare il loro consenso. La questione fu sottoposta alla Corte costituzionale, sotto il profilo di una irragionevole disparità di situazioni creata a sfavore dell'incapace. La Corte dichiarò (Cort. 20 luglio 1992, n. 345 ) infondato il dubbio di legittimità, con l'osservare che, in presenza della detta situazione di incapacità, il tribunale può ugualmente far luogo all'adozione con le modalità previste dall' art. 297, secondo comma, c.c. La Corte ha osservato che, nei casi in cui per l'adozione ordinaria di persona maggiorenne è richiesto l'assenso di appartenenti alla famiglia legittima dell'adottante, deve ritenersi che la disposizione dell'art. 297 c.c. – secondo la quale quando, per incapacità dei suddetti, l'assenso non può essere ottenuto, il tribunale, apprezzando gli interessi ivi indicati, può ugualmente pronunciare l'adozione – benché originariamente dettata solo per i genitori e il coniuge, assuma un significato e un contenuto generale e che, quindi, in seguito alla sentenza n. 557/1988 della Corte costituzionale – che, dichiarando la parziale illegittimità dell'art. 291, ha reso possibile l'adozione, in precedenza non consentita, anche in presenza di figli legittimi o legittimati, se assenzienti – sia applicabile, quando è impossibile ottenerne l'assenso per incapacità, anche a questi ultimi. Così ricostruito il sistema normativo, la Corte ne ha concluso il rigetto della censura di disparità di trattamento avanzata sul presupposto – che di tale ricostruzione non teneva conto – della necessità e inderogabilità, nell'ipotesi in questione, della manifestazione di volontà del figlio legittimo o legittimato. Presenza di figli minorenni Evolutasi la norma dettata dall'art. 291 nel senso dell'ammissibilità dell'adozione in presenza di figli maggiorenni consenzienti, si è posto il problema della compatibilità con i principi costituzionali del divieto dell'adozione in presenza di figli minorenni, non capaci, per età, di prestare il consenso richiesto ai figli maggiorenni. La pronuncia della Corte costituzionale n. 345/1992 aveva chiarito che era consentita l'adozione nel caso in cui l'adottante avesse figli maggiorenni incapaci di esprimere il consenso per le loro condizioni soggettive: doveva farsi applicazione dell'art. 297, secondo comma (vedi supra par. 3.2.). Si affermò, allora, che una identica possibilità doveva sussistere per il caso in cui l'adottante avesse figli minorenni: anch'essi incapaci di esprimere un consenso, a causa della loro età insufficiente a legittimarli al compimento di negozi giuridici. La questione, in particolare, veniva posta a proposito dell'adottando figlio del coniuge dell'adottante, stabilmente inserito nel nucleo familiare: questa circostanza doveva consentire una applicazione estensiva dell'art. 297, secondo comma, finalizzata a valorizzare in concreto l'unità della famiglia. La Corte costituzionale, investita della questione, la dichiarò infondata per l'asserito difetto della possibilità di porre sullo stesso piano le situazioni dell'adottante con figli minorenni e quella dell'adottante con figli maggiorenni o interdetti per infermità di mente (Corte cost. 23 febbraio 1994, n. 53). L'incapacità dei minori, fu affermato, è meramente transitoria, mentre quella dei maggiorenni interdetti è caratterizzata dall'abitualità e dall'incertezza della prognosi, quando non sia irreversibile. La pronuncia fu criticata da una parte della dottrina, che rilevò come anche la situazione di interdizione potesse essere transitoria e come si fosse venuta a creare una situazione di disparità tra il maggiorenne e il minorenne, potenziali adottandi, che si trovino in stato di abbandono (Sbisà-Ferrando, 245). La questione fu riproposta dalla magistratura di merito, sempre con riferimento al caso in cui l'adottando era figlio del coniuge dell'aspirante adottante e già era stabilmente inserito all'interno del nucleo familiare. Si deduceva che la Costituzione riconosce e tutela il valore etico e sociale del nucleo familiare e favorisce l'unità della famiglia, da intendersi anche in senso allargato, quale gruppo di persone in condivisione di affetti e di situazioni giuridiche. L'impedimento, in questi casi, all'adozione per la sola presenza di figli minorenni avrebbe mantenuto l'adottando estraneo al nucleo familiare formatosi, rispetto al nuovo coniuge del genitore, e gli avrebbe fatto vivere il disagio sociale della manifesta sua diversità di origine. La Corte costituzionale dichiarò dapprima l'inammissibilità della questione, in quanto avrebbe richiesto una pronuncia additiva e la conseguente creazione di una nuova figura di adozione (Corte cost. 16 luglio 1996, n. 252). Dichiarò, poi, l'infondatezza della detta questione sull'assunto per cui l'adozione di maggiorenni continua ad essere caratterizzata dall'originaria finalità di procurare un figlio a chi non lo ha avuto dalla natura (Corte cost., 23 maggio 2003, n. 170). In motivazione si osservava che il sistema della disciplina dell'adozione di persone maggiori di età – presupponendo, fra l'altro, la necessità che i membri della famiglia legittima dell'adottante (coniuge e figli) siano adeguatamente posti in condizioni di valutare le relative conseguenze sul piano morale e su quello patrimoniale e di esprimere, perciò, il loro assenso – non era stato modificato dalle sentenze costituzionali n. 557 del 1998 e n. 345 del 1992 e che l'invocata relativa ratio decidendi non era applicabile al caso proposto, nel quale si chiedeva un intervento di revisione diretto ad escludere l'assenso dei figli minori anziché a far fronte alla relativa incapacità di esprimere la loro volontà. La dottrina si è espressa criticamente e, in particolare, ha evidenziato la disparità di trattamento venuta a formarsi tra l'adottando minorenne e quello divenuto maggiorenne, nel caso in cui entrambi sono figli del coniuge del potenziale adottante. Nell'attesa del raggiungimento della maggiore età non poteva escludersi l'esigenza di una tutela, anche in considerazione della funzione assunta dall'adozione di fornire rilievo giuridico a rapporti affettivi già presenti nelle c.d. famiglie allargate, dette anche famiglie ricostituite. La magistratura ordinaria ha ammesso l'adozione, a determinate condizioni. Con una serie di pronunce conformi, la Corte di appello di Milano aveva sollevato la cennata questione di legittimità costituzionale e si era dichiarata favorevole a consentire l'adozione in presenza di figli minorenni dell'adottante già inseriti nel suo nucleo familiare (App. Milano 9 novembre 2001; App. Milano, 28 settembre 2001). Questo orientamento è stato recepito dalla Corte di cassazione (sent. Cass. n. 2426/2006). La Corte ha riconosciuto che la presenza di figli minorenni costituisce, di norma, ai sensi dell'art. 291, un impedimento alla richiesta di adozione, in quanto i detti minorenni sono incapaci, per ragioni di età, di esprimere un valido consenso. Tuttavia, ove l'adozione di un maggiorenne riguardi il figlio del coniuge che già appartenga, insieme al proprio genitore naturale ed ai fratelli minorenni ex uno latere, al contesto affettivo della famiglia dell'adottante, la detta presenza dei figli minori dell'adottante non può precludere in assoluto l'adozione. Spetta al giudice il potere-dovere di procedere all'audizione personale dei minori, se aventi capacità di discernimento, e del loro curatore speciale, ai fini della formulazione del complessivo giudizio di convenienza nell'interesse dell'adottando. Questa convenienza sussiste in quanto l'interesse dell'adottando trovi una effettiva e reale rispondenza (da apprezzare anche in esito all'acquisizione delle opportune informazioni) nella comunione di intenti di tutti i membri della famiglia, compresi i figli dell'adottante. In un caso particolare, il Tribunale di Reggio Calabria aveva affermato che, in caso di adozione del figlio maggiorenne del proprio coniuge, l'esistenza di altro figlio minorenne non costituiva ostacolo all'attivazione della procedura essendo risultato che l'adottando era già inserito nella vita familiare dell'adottante e del coniuge. Confermava la conclusione in tal senso il fatto che fosse stata avviata una analoga procedura di adozione per l'altro figlio, ancora minorenne, posto che tale iniziativa dimostrava l'intento benefico degli adottandi e non poteva che essere valutata positivamente. Se si accede a questo orientamento occorre fare applicazione delle norme che dopo la riforma del processo civile dovuta al d.lgs. 149/2022 sono stabilite per le modalità di ascolto del minore dagli artt. 473-bis.5 c.p.c. , 152-quater e 152-quinquies disp. att. c.p.c. L'età dell'adottante e la differenza di età con l'adottandoL'art. 291 condiziona l'adozione di persone maggiorenni all'osservanza di un limite minimo di età nella persona dell'adottante e di una differenza di età fissata nel minimo tra la persona dell'adottante e quella dell'adottando. Il palese scopo di una siffatta condizione è di creare rapporti tra i soggetti interessati che in qualche modo rispettino la relazione naturale tra genitore e figlio (adoptio naturam imitatur). L'adottante deve dunque essere una persona che abbia raggiunto un grado di sviluppo idoneo alla filiazione biologica e tale da far acquisire il grado di maturazione fisica e psichica propria dell'adulto divenuto consapevole e responsabile delle sue azioni. L'adottando deve essergli più giovane di quel tanto da consentirgli di poterne essere un figlio. I predetti limiti di età risultano dal testo della norma essere stati stabiliti in trentacinque anni per l'adottante e in diciotto anni, quanto alla differenza da osservare rispetto all'adottando. Non sono fissati termini massimi, oltre i quali l'adozione non è più consentita; mentre si consente al tribunale di autorizzare l'adozione in favore di chi ha compiuto almeno i trenta anni, quando eccezionali circostanze lo consigliano. Su questa disciplina, di per sé chiara e netta nei suoi aspetti, hanno inciso modifiche legislative successive. La legge sull'adozione dei minori, l. 4 maggio 1983, n. 184, ha disposto che le norme dettate dal codice civile in tema di adozione si applicano soltanto nei confronti di adottandi maggiorenni. Costoro devono avere compiuto diciotto anni; e poiché l'art. 291 impone una differenza di età di almeno diciotto anni rispetto alla persona dell'adottante, ne risulta che questi deve avere compiuto i trentasei anni, e non già i trentacinque come tuttora si legge nel testo di questa disposizione. Per questo aspetto la norma deve ritenersi tacitamente sostituita con quella che risulta dall'evoluzione legislativa (la dottrina si esprime apertamente nel senso dell'intervenuta abrogazione: Cattaneo, 126; Dogliotti, 2002, 155; Giusti, 566; Sbisà-Ferrando, 244). La dottrina concorda nell'affermare che l'inosservanza dei limiti di età comporta la nullità dell'adozione per violazione di una norma imperativa (per tutti: Dogliotti, 2002, 158). Si ricava questa affermazione dalla previsione di una deroga riferita all'età dell'adottante soltanto previa autorizzazione del giudice e unicamente se giustificata dall'eccezionalità del caso. Si ritiene, in particolare, in dottrina, che non possa derogarsi alla condizione che impone una differenza minima di età tra l'adottante e l'adottando. La Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 291 nella parte in cui, disciplinando le condizioni per l'adozione di persone maggiori di età, non consente al giudice, in presenza di validi motivi e/o di circostanze eccezionali, di ridurre l'intervallo di diciotto anni di età che deve intercorrere fra adottanti e adottando. Nel caso di specie il giudice rimettente, secondo la Corte, aveva fondato il dubbio di legittimità presupposto interpretativo (poi dichiarato erroneo) secondo cui l'adozione ordinaria consentirebbe la costituzione di un legame giuridico familiare tra il maggiorenne adottato e i figli degli adottanti: in contrasto con quanto stabilito sia dall'art. 300 c.c., il quale afferma che l'adozione non induce alcun rapporto civile tra l'adottato e i parenti dell'adottante, e dall'art. 567, a sua volta precisante che gli adottati sono estranei alla successione dei parenti dell'adottante (Corte cost. 23 marzo 2001, n. 82; Corte cost. 17 novembre 2000, n. 500). La diversità di struttura, funzione ed effetti rispetto all'adozione dei minori non consentiva, si era asserito, parificazioni di disciplina. In senso contrario si era espressa la Corte di cassazione (sent. Cass. n. 354/1999) e si è successivamente espressa la giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 31 gennaio 2011, in Fam. e dir., 2011, 616 nota di Paganini; Trib. Milano, 4 febbraio 2008, in Fam. e dir., 2008, 931; Trib. Firenze, 11 novembre 2000, in Fam. e dir., 2002, 46). Il Tribunale di Forlì (4 dicembre 2008, n. 66), ad esempio, ha ritenuto possibile accogliere la domanda di adozione di una persona maggiore di età anche ove non vi sia fra adottante e adottato la differenza di età richiesta dall'art. 291 c.c. in un caso nel quale il divario di età era stato ritenuto contenuto nell'ambito di quanto si verifica in natura e non aveva impedito, alla prova dei fatti, il formarsi negli anni di un rapporto fra i due interessati corrispondente ad una normale relazione fra genitore e figlio. Cass. I, n. 7667/2020 ha poi affermato che il giudice deve interpretare l'art. 291 c.c. in modo compatibile con l'art. 30 Costituzione, secondo la lettura data dalla Corte costituzionale e in relazione all'art.8 della CEDU, che consenta, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, una ragionevole riduzione di tale divario minimo, al fine di tutelare situazioni familiari consolidate da tempo e fondate su una comprovata “affectio familiaris”. La promessa di adozioneL'adozione tra persone maggiorenni, in quanto richiede un consenso reciproco, si è prestata alla questione dell'ammissibilità di una promessa, di farne attuazione, che abbia un valore vincolante a favore dell'adottando. Di per sé l'istituto non ha uno scopo economico, tipico degli atti negoziali, ed anzi produce l'effetto di creare uno status personalissimo, come tale assolutamente incommerciabile. Una risalente pronuncia della Corte di cassazione dichiarò la promessa di adozione nulla in quanto contraria al principio generale di ordine pubblico che esige la libertà e la spontaneità della manifestazione di volontà alle quali la legge ricollega immediatamente o mediatamente la costituzione degli status familiari (Cass. n. 835/1964). A commento della pronuncia si affermò che si sarebbe piuttosto dovuto parlare di irrilevanza della promessa, in quanto la nozione di nullità esprimeva già un aspetto di rilevanza, anche se negativa, che doveva in radice negarsi a proposito dell'impegno ad effettuare l'adozione. Ne seguiva l'affermazione dell'improponibilità di qualunque richiesta di risarcimento del danno per il caso di mancato adempimento dell'eventuale promessa (Procida Mirabelli di Lauro, op. cit., 396). In una nota alla stessa pronuncia si fece notare, in contrario, che il legislatore aveva ritenuto consentita la promessa a proposito di un altro istituto costitutivo di rapporti familiari, quello della promessa di matrimonio (art. 79 e ss. c.c.); circostanza che lasciava intendere come l'ammissibilità, almeno in astratto, di tale promessa non fosse impensabile (Ferri, in Rd com. 1965, II, 333). Era da concludere che la promessa di matrimonio era stata disciplinata espressamente sol perché di accadimento più frequente e di maggior incidenza nella realtà sociale. E che il silenzio serbato su altre promesse, relative a rapporti familiari diversi dal matrimonio, non poteva significare che per esse dovessero essere applicati principi più rigorosi. Doveva pertanto considerarsi applicabile l'art. 80 c.c. («Restituzione dei doni»), con riferimento agli eventuali arricchimenti ricevuti in vista dell'adempimento della promessa. 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