Legge - 4/05/1983 - n. 184 art. 7

Mauro Di Marzio

 

1. L'adozione è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità ai sensi degli articoli seguenti.

2. Il minore, il quale ha compiuto gli anni quattordici, non può essere adottato se non presta personalmente il proprio consenso, che deve essere manifestato anche quando il minore compia l'età predetta nel corso del procedimento. Il consenso dato può comunque essere revocato sino alla pronuncia definitiva dell'adozione.

3. Se l'adottando ha compiuto gli anni dodici deve essere personalmente sentito; se ha un'età inferiore, deve essere sentito, in considerazione della sua capacità di discernimento1.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 7 della legge 28 marzo 2001, n. 149.

Inquadramento

L'art. 6 apre il titolo della legge dedicato all'adozione c.d. piena o legittimante, soffermandosi sulla figura degli adottanti, mentre il successivo art. 7 pone previsioni concernenti il consenso del minore quattordicenne e l'obbligo di audizione del minore dodicenne capace di discernimento. In generale occorre dire sull'istituto dell'adozione in discorso che, qualora la famiglia di origine sia irrimediabilmente inidonea a prestare al minore adeguata tutela, il suo interesse a godere di assistenza materiale e morale si realizza attraverso l'adozione piena o legittimante, la quale determina l'inserimento del minore abbandonato in una nuova famiglia in sostituzione della famiglia di sangue, conferendogli lo stato giuridico a tutti gli effetti di figlio degli adottanti. È in proposito ricorrente l'affermazione che l'adozione è diretta a tutelare il minore e non a sanzionare il comportamento del genitore (Fadiga, 853; Autorino Stanzione, 673).

Al riguardo l'art. 27 l. 4 maggio 1983, n. 184, stabilisce al comma 1 che per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome, ed al comma 3 che con l'adozione cessano i rapporti dell'adottato verso la famiglia d'origine, salvi i divieti matrimoniali. Il minore, in conseguenza dell'adozione, cessa così di vantare diritti e di essere assoggettato ad obblighi nei confronti della famiglia di sangue, ed assume il cognome della nuova famiglia, fatto salvo il caso di adozione pronunziata nei soli confronti della nuova madre in caso di separazione coniugale sopravvenuta all'affidamento preadottivo, nella quale ipotesi l'adottato prende per l'appunto il cognome della madre adottiva.

In definitiva, il rapporto di filiazione adottiva non si distingue, sul piano giuridico, da quello di filiazione di sangue (Bianca, 416). È stato detto al riguardo che il fondamento positivo dell'istituto si individua nel brocardo adoptio naturam imitatur: la lesione del diritto del minore alla propria famiglia richiede un intervento che attribuisca al minore una famiglia quanto più possibile analoga alla propria (Giacobbe, 237).

E, però, si tenga presente il recente mutamento di prospettiva secondo cui la condizione di abbandono di un minore, che giustifica la pronuncia del decreto di adottabilità si riscontra quando il minore sia privo di assistenza materiale e morale non per causa di forza maggiore a carattere transitorio. La principale conseguenza giuridica della dichiarazione di adottabilità consiste nella sospensione della responsabilità genitoriale e nella nomina definitiva del tutore. Il minore che sia stato dichiarato adottabile versa nella condizione giuridica di essere posto in affidamento preadottivo. Non è prevista da alcuna norma e pressa come conseguenza automatica della dichiarazione di adottabilità la recisione di qualsiasi rapporto e contatto con i genitori biologici, mentre tale effetto si determina definitivamente ai sensi dell'art. 27 l. n. 184/1983 con la adozione. La cessazione dei rapporti e dei contatti con la famiglia di origine è, tuttavia, una conseguenza diretta dell'affidamento preadottivo perché costituisce una modalità di attuazione di questa cruciale fase del rapporto tra adottante e adottando, diretta a culminare nella dichiarazione di adozione. Può, pertanto, ritenersi che con la dichiarazione di adottabilità, in quanto finalizzata alla adozione legittimante (ancorché possa verificarsi in alcune ipotesi la assenza di tale esito finale) si determina la cessazione dei rapporti con i genitori biologici, non essendo compatibile con la finalità ultima dell'istituto la perpetuazione di una relazione che è destinata a recidersi definitivamente con la assunzione di un diverso status filiale mediante l'adozione (Cass. I, n. 3643/2020).

L'adozione menzionata viene pronunciata all'esito di uno speciale procedimento che si articola in tre passaggi: la dichiarazione dello stato di adottabilità , l'affidamento preadottivo e il provvedimento di adozione (Sesta , 426). In proposito occorre in generale osservare che la l. 4 maggio 1983, n. 184 , ha strutturato il procedimento di adozione sul modello del giudizio di cognizione piena, consentendo la partecipazione degli interessati sin dall'inizio della procedura, prima della dichiarazione dello stato di adottabilità (art. 10), così da dare attuazione piena al principio del contraddittorio. L'art. 8, comma 4, dispone così che il procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità deve svolgersi sin dall'inizio con l'assistenza legale del fanciullo e dei genitori o degli altri parenti che abbiano rapporti significativi con il medesimo. Questa disposizione si pone in collegamento con quanto stabilito dalla Convenzione di Strasburgo del 1996 e ratificata dal nostro paese con l. 20 marzo 2003, n. 77 , che ammette la nomina di un avvocato in tutti i procedimenti familiari in cui venga in questione l'interesse del minore.

Gli adottanti

I requisiti degli adottanti sono elencati dall'art. 6 l. 4 maggio 1983, n. 184 e concernono il vincolo del matrimonio tra di essi, la loro idoneità ad esercitare la funzione genitoriale nonché l'età.

Stabilisce la norma anzitutto che gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni, senza che abbia avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto. Ne discende che l'adozione è preclusa non soltanto ai singoli, ma anche alle coppie conviventi more uxorio, i cui componenti, tuttavia, se contraggono matrimonio, sono tenuti all'osservanza del termine triennale anche in considerazione della pregressa convivenza.

Il legislatore italiano — è stato osservato — è rimasto in ciò fedele ad un principio già accolto dalla Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967, ai sensi del cui art. 6 la adozione è ammessa solo da parte di due persone unite in matrimonio, sia che adottino simultaneamente o successivamente, oltre che da parte di un solo adottante, principio che in seguito verrà ribadito dalla Convenzione europea sulla adozione dei minori del 27 novembre 2008, peraltro non ratificata dall'Italia  (Giacobbe, 237). Per altro verso, è stato sottolineato che la novella sulla disciplina delle convivenze e, più ancora, la riforma della filiazione, che ha reso «unico» lo stato dei figli matrimoniali e non matrimoniali, parrebbero non giustificare più la previsione dell'art. 6, commi 1 e 4, l. n. 184/1983, che riserva solo ai coniugi (e non la attribuisce ai meri conviventi) la capacità di adottare: se, invero, il matrimonio ha perduto l'attitudine a qualificare il rapporto di filiazione — la cui disciplina, con riguardo al rapporto genitori-figli, è unica — sembra non più coerente esigere il matrimonio quale requisito per poter adottare. La previsione potrebbe, dunque, apparire oggi costituzionalmente illegittima per violazione del principio di uguaglianza, in quanto dà rilevanza ad una modalità di essere della coppia richiedente, che non riveste più un ruolo specifico nella disciplina legale della relazione genitoriale (Sesta, 423).

Quanto alle persone singole, vale osservare che l'art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967, resa esecutiva in Italia con la legge 22 maggio 1974 n. 357, prevede espressamente, come accennato, che gli Stati aderenti possono permettere l'adozione, oltre che da parte di due persone unite in matrimonio, che vi procedono simultaneamente o successivamente, anche da parte d'un unico adottante. Ha in proposito osservato la S.C, che l'adozione da parte del single è ammessa nei casi particolari, di cui all'art. 44 l. n. 184/1983, di cui si parlerà più innanzi, con effetti limitati rispetto all'adozione legittimante, o nelle speciali circostanze di cui all'art. 25, quarto e quinto comma, della medesima legge; al di fuori di tali ipotesi, opera il principio fondamentale, scaturente dall'art. 6 della citata legge, secondo cui l'adozione è permessa solo alla coppia di coniugi (uniti in matrimonio da almeno tre anni), e non ai singoli componenti di questa. Lo stesso principio opera in sede di adozione internazionale, ammissibile negli stessi casi in cui è consentita l'adozione nazionale legittimante e quella in casi particolari; pertanto, se il single può procedere all'adozione internazionale nei casi particolari di cui al citato art. 44, ciò non può fondare il riconoscimento di una generalizzata ammissibilità di tale adozione da parte di persona singola; fermo restando che — tanto più in presenza della disposizione, non avente peraltro carattere autoapplicativo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea in materia di adozione di minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 e ratificata dall'Italia con la legge 22 maggio 1974, n. 357 — il legislatore nazionale ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, tipizzate dalla legge o rimesse di volta in volta al prudente apprezzamento del giudice, ad un ampliamento dell'ambito di ammissibilità dell'adozione di minore da parte di una singola persona (Cass. n. 6078/2006; Cass. n. 3572/2011, in Dir. fam. pers. 2012, 131, con nota di Magno, Sulla delibazione di provvedimento straniero recante adozione di minorenne a favore di persona non coniugata).

I coniugi — prosegue il citato art. 6 l. 4 maggio 1983, n. 184, come novellato dall'art. 6, comma 1, l. 28 marzo 2001, n. 149 — devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare. La norma richiede dunque la sussistenza di un'idoneità anzitutto sul piano affettivo, in vista di uno sviluppo del minore armonico e sereno, oltre che della capacità psico-fisica nonché economica di accudire la prole.

Tra gli adottanti e l'adottato devono esserci di regola non meno di 18 anni di differenza d'età e non più di 40. La Corte costituzionale ha però dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 6, comma 2, l. 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l'adozione valutando esclusivamente l'interesse del minore, quando l'età dei coniugi adottanti superi di oltre quarant'anni l'età dell'adottando, pur rimanendo la differenza di età compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore (Corte cost. 9 luglio 1999, n. 283, in Dir. fam. pers., 2000, 9, con nota di Morani, Il crepuscolo del divario massimo d'età nell'adozione di minori: con la sentenza n. 283/99 la consulta riafferma la deroga ed anticipa la riforma; e in Giust. civ., 1999, I, 2587 con nota di Marchio, Il limite «flessibile» per l'età dei genitori nell'adozione di minori). In seguito alla già citata novella di cui alla l. 28 marzo 2001, n. 149, è stabilito che non è preclusa l'adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia superato da uno solo di essi in misura non superiore a dieci anni, ovvero quando essi siano genitori di figli anche adottivi dei quali almeno uno sia in età minore, ovvero quando l'adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato.

Gli adottanti ben possono avere altri figli, di sangue o, come è espressamente previsto, adottivi.

Bibliografia

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