Codice Civile art. 159 - Del regime patrimoniale legale tra i coniugi (1).

Giuseppe Buffone

Del regime patrimoniale legale tra i coniugi (1).

[I]. Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell'articolo 162, è costituito dalla comunione dei beni regolata dalla sezione III del presente capo.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 41 l. 19 maggio 1975, n. 151.

Inquadramento

Nel sistema vigente anteriormente alla riforma del 1975, il regime patrimoniale legale che assisteva il matrimonio era quello della separazione dei beni. La novella cennata ha, invece, previsto il regime della comunione legale come regime patrimoniale ordinario in difetto di diversa opzione manifestata dai coniugi, anche dopo la celebrazione del matrimonio.

Il regime della comunione legale è, però, ad oggi, sostanzialmente residuale e di scarsa rilevanza statistica sussistendo una assoluta maggioranza di matrimoni accompagnati dal regime patrimoniale della separazione dei beni. La mancanza di «successo» del regime della comunione è certamente da legare anche alla complessità della disciplina normativa che lo assiste. Con il passaggio da un regime all'altro, il legislatore ha previsto un regime transitorio che è bene ricordare: per la famiglia già costituita alla data di entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, la comunione legale, in assenza della dichiarazione di dissenso di cui all'art. 228, primo comma, della legge, decorre dal 16 gennaio 1978 ed interessa i beni acquistati dai coniugi separatamente nel primo biennio di applicazione della legge stessa solo se ancora esistenti nel patrimonio del coniuge che li ha acquistati (Cass. n. 12693/2011).

Comunione legale e comunione ordinaria

La comunione legale è il regime patrimoniale che conferisce ai coniugi uguali poteri di cogestione e uguali diritti sugli acquisti (Bianca, 739). Si tratta di un regime espressamente qualificato dall'art.159 c.c. come «legale»: ciò significa che in mancanza di convenzioni matrimoniali volte ad adottare altri regimi, i rapporti patrimoniali tra coniugi sono governati dal regime della comunione. Questo regime giuridico non va confuso con la communio ex art. 1110 c.c.

La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Cass. n. 14093/2010). La comunione legale costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria (v. art. 1100 c.c. e ss), alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto (Cass. n. 21098/2007). Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal secondo comma dell'art. 180 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato, si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c. Per ciò che concerne, invece, gli atti di disposizione su beni mobili, l'art. 184, terzo comma, c.c. non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l'atto in questione l'obbligo di ricostituire, ad istanza dell'altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l'equivalente del bene secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l'atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace. La Suprema Corte ha ben chiarito (Cass. n. 9846/1996) che la comunione legale di cui trattasi si qualifica per essere, appunto, un «regime», cioè non solo una situazione di plurisoggettività nella titolarità di determinate posizioni giuridiche bensì il complesso statuto speciale di una contitolarità di massa relativa a una «universitas» che non si esaurisce nella regolamentazione dell'esercizio del potere di godere e di disporre delle cose comuni ma si estende all'aspetto dinamico dell'acquisizione di nuovi beni o diritti e dell'assunzione di nuove obbligazioni. Di tale configurazione rappresenta riflesso specifico la non coincidenza tra il momento dello scioglimento, al quale si ricollega la cessazione del regime di comunione, e quello della divisione, che determina concretamente il venir meno della contitolarità dei coniugi nei diritti sui beni che ne formano oggetto. Infatti, come viene riconosciuto dalla unanime dottrina, lo scioglimento della comunione legale, correlato al verificarsi di una delle cause indicate nel primo comma dell'art. 191 c.c., dà luogo a due distinti ordini di effetti giuridici: per quanto riguarda i rapporti giuridici successivi, esso si traduce nella caducazione dell'assoggettamento dei coniugi a quel regime che, altrimenti, sarebbe destinato a permanere e ad operare trovando pregnante espressione nel principio di cui all'art. 177 primo comma lettera a) c.c. il quale prevede la necessaria automatica caduta in comunione di ogni acquisto che non possa considerarsi personale a norma dell'art. 179 c.c., e nella instaurazione, in luogo di tale regime, di quello di separazione; per quanto attiene ai rapporti anteriori già ricadenti nella comunione, lo scioglimento lascia in vita lo stato di contitolarità indivisa dei diritti sui beni comuni, con la sostituzione, in ordine ai poteri di amministrazione e di disposizione, alla disciplina della comunione legale «de qua» — di cui infondatamente qualche minoritaria opinione dottrinale ha prospettato una sorta di ultrattività — della disciplina della comunione ordinaria, e, quindi, con il venire in essere, in capo a ciascuno dei coniugi, di quel diritto potestativo alla divisione che, nella comunione ordinaria, spetta a ciascuno dei compartecipi. Tutto ciò trova conferma nel tenore testuale del dato normativo nel quale la vicenda giuridica dello scioglimento e quella della divisione sono contemplate in due diverse disposizioni (art. 191 e art. 194 c.c.), e appare rispondente al sistema della tutela dei terzi quale delineato nell'art. 162 c.c. E, di fronte a tale fenomeno giuridico — per la cui comprensione talora è stato fatto riferimento analogico al ben più articolato procedimento della liquidazione societaria — riveste significato meramente nominalistico, sul piano lessicale definitorio, il rilievo dottrinale della improprietà della intitolazione e della formulazione dell'art. 191 c.c. in termini di scioglimento della comunione con riguardo a una realtà giuridica che non è identificabile in se stessa con lo scioglimento di una comunione, inteso in senso tecnico, tale dovendosi considerare quello per effetto del quale viene meno lo stato di indivisione e ciascuno dei compartecipi diviene titolare esclusivo dei diritti compresi nella quota di sua pertinenza.

Comunione legale e comunione convenzionale

Il regime della comunione legale può essere disatteso dai coniugi i quali possono optare per il regime della separazione dei beni. I coniugi possono, invero, anche parzialmente derogare al regime legale mediante la stipula di convenzioni matrimoniali ex art. 210 c.c. Il regime di comunione legale che sia stato sottoposto a modifiche pattizie da parte dei coniugi assume il nome di comunione convenzionale (Bianca, 740) ed è sottoposto a regime di pubblicità-notizia.

Ove i coniugi siano in comunione legale, per effettuare un acquisto in regime di separazione questi saranno dunque tenuti previamente stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, anche per un solo bene, ai sensi dell'art. 162 c.c. sottoponendola alla specifica pubblicità prevista (Cass. n. 3647/2004). In assenza di detta convenzione non può ritenersi ammissibile l'acquisizione di beni in regime di separazione, non essendo sufficiente a tal fine una più o meno esplicita indicazione contenuta nell'atto stesso, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, che conferiscono certezza al tipo di regime cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (ma, in merito al rifiuto del co-acquisto, v. Cass.S.U.n. 22755/2009, subart. 179 c.c.).

Incidenza sui rapporti patrimoniali del provvedimento di assegnazione ex art. 337-sexies c.c.

Si registrava, in passato, contrasto interpretativo attorno alla questione relativa alla incidenza del provvedimento di assegnazione nel momento di scioglimento della comunione. Il caso è frequente nella prassi. In genere, i due coniugi sono entrambi comproprietari dell'immobile adibito a casa familiare. Successivamente alla disgregazione della famiglia, in sede di separazione o divorzio, per la presenza di figli minorenni, la casa viene assegnata a uno dei due comproprietari, ex art. 337-sexies c.c. Nelle more, anche per il crescere dei figli, viene instaurato giudizio divisorio per ottenere lo scioglimento della comunione sulla casa. Il quesito è il seguente: il diritto di godimento derivante dalla statuizione giudiziale può essere preso in considerazione al fine di determinare il valore di mercato dell'immobile? Secondo un primo indirizzo, l'assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 337-sexies c.c. non può essere presa in considerazione in occasione della divisione dell'immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato dell'immobile, allorquando l'immobile venga attribuito al coniuge che sia titolare del diritto al godimento stesso (Cass. II, n. 17843/2016). Secondo altro orientamento, l'assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l'immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l'altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione se ne deve tenere conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all'uno o all'altro coniuge ovvero venduto a terzi (Cass. II, n. 8202/2016). La giurisprudenza orientata a tenere in considerazione la decurtazione sembra prevalente; essa, in sostanza, afferma che l'assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi è atto che, quando sia opponibile ai terzi, incide sul valore di mercato dell'immobile; «ne consegue che, ove si proceda alla divisione giudiziale del medesimo, di proprietà di entrambi i coniugi, si dovrà tener conto, ai fini della determinazione del prezzo di vendita, dell'esistenza di tale provvedimento di assegnazione, che pregiudica il godimento e l'utilità economica del bene» (Cass. n. 9310/2009).

Il tema, in tempi recenti, si arricchisce dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ. S.U. n. 18641/2022) che hanno composto i contrasti: l'attribuzione, in sede di divisione, dell'immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che ne era già assegnatario, comportando la concentrazione, in capo a quest'ultimo, del diritto personale di godimento scaturito dall'assegnazione giudiziale e di quello dominicale sull'intero immobile, che permane privo di vincoli, configura una causa automatica di estinzione del primo, che, pertanto, non potrà avere alcuna incidenza sulla valutazione economica del bene in comunione a fini divisori, o sulla determinazione del conguaglio dovuto al coniuge comproprietario non assegnatario, dovendosi conferire all'immobile un valore economico pieno, corrispondente a quello venale di mercato; né, a tal fine, rileva che nell'immobile stesso continuino a vivere i figli minori, o non ancora autosufficienti, affidati al coniuge divenutone proprietario esclusivo, rientrando tale aspetto nell'ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole, da regolamentare nella sede propria, anche con la eventuale modificazione dell'assegno di mantenimento. Di converso, in caso di attribuzione, in sede di divisione, dell'immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che non era assegnatario dello stesso quale casa coniugale, né affidatario della prole, si realizza una situazione comparabile a quella del terzo acquirente dell'intero, sicché, posto che continua a sussistere il diritto di godimento in capo all'altro coniuge, il coniuge non

assegnatario diventerà titolare di un diritto di proprietà il cui valore dovrà essere decurtato dalla limitazione delle facoltà di godimento da correlare all'assegnazione dell'immobile al coniuge affidatario della prole, permanendo il relativo vincolo sullo stesso, con i relativi effetti pregiudizievoli derivanti anche dalla sua trascrizione ed opponibilità ai terzi ai sensi dell'art. 2643 c.c.

Convivenza di fatto ex lege 76 del 2016

Ai sensi dell'articolo 1, comma 50, della l. 76/2016, i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. Il contratto di convivenza è consensuale, bilaterale, solenne, a contenuto patrimoniale. La causa (concreta) del negozio convivenziale è quella di regolare il regime patrimoniale (largamente inteso) della famiglia di fatto. Il contratto può contenere: a) l'indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. I conviventi di fatto, dunque, possono optare per il regime della comunione legale, come previsto per i coniugi. «Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile» (art. 1 comma 60 legge 76/ 2016). Si tratta di una norma eccezionale di estensione che riconosce ai conviventi il beneficio di un istituto altrimenti riservato ex lege ai coniugi. Questa estensione, insomma, consente l'applicazione dell'istituto della comunione legale anche in assenza di matrimonio. Proprio queste connotazioni, rendono l'art. 1 comma 53 cit. in parte qua eccezionale, quindi insuscettibile di avere applicazione oltre i casi previsti o di essere interpretato analogicamente. In ragione delle considerazioni svolte, i conviventi non possono stipulare altre convenzioni matrimoniali: non il fondo patrimoniale (art. 167 c.c.) ad esempio, ma nemmeno le comunioni convenzionali di cui all'art. 210 c.c.

Regolamento UE n. 1103 del 2016

Nei rapporti tra Stati Membri, dal mese di gennaio del 2019, le regole eurounitarie applicabili sono quelle di cui al Regolamento (UE) 2016/1103 del Consiglio, del 24 giugno 2016, che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi (per le unioni civili, v. Reg. UE n. 1104 del 2016).

Rito Unitario

È opportuno menzionare l'importante modifica introdotta dal decreto legislativo n. 149 del 2022 (cd. Riforma Cartabia) che ha modificato il codice di procedura civile prevedendo, in particolare, nuove disposizioni nel libro II, titolo VI-bis ove sono state introdotte: «Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie», cd. pPMF).  Quanto al campo di applicazione del nuovo rito unitario – che non è più un procedimento speciale – l'art. 473-bis c.p.c. prevede che le disposizioni contenute nel nuovo titolo IV-bis si applichino a tutti i procedimenti (di natura contenziosa) relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie di competenza del tribunale ordinario, di quello per i minorenni e del giudice tutelare, salvo che non sia diversamente stabilito e salve le esclusioni espressamente indicate dallo stesso articolo. Queste riguardano, in particolare, sia i procedimenti che in questa materia siano espressamente sottoposti dal legislatore ad altra disciplina processuale, sia i procedimenti volti alla dichiarazione dello stato di adottabilità, dei procedimenti di adozione dei minori, sia, infine, i procedimenti (di diversa natura e oggetto) attribuiti alla competenza delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea. La clausola generale di esclusione del rito unitario poggia le basi su due circostanze: 1) che il procedimento “non sia contenzioso”; 2) che sia “diversamente stabilito”.

Bibliografia

Auletta, Diritto di famiglia, Torino, 2014; Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014; Cian, Trabucchi - a cura di -, Commentario breve al codice civile, Cedam, 2011; Finocchiaro F., Matrimonio in Comm. S. B., artt. 84 - 158, Bologna - Roma, 1993; Jemolo, in La famiglia e il diritto, in Ann. fac. giur. Univ. Catania, Jovene, 1949, 57; Oberto, La comunione legale tra i coniugi in Tr. C.M., Milano, 2010; Perlingieri, Manuale di Diritto Civile, Napoli, 2005; Sesta - a cura di -, Codice della famiglia, Milano, 2015.

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