Ricettazione fallimentare. Elementi costitutivi e competenza territoriale

12 Aprile 2018

Il focus ripercorre gli elementi costitutivi delle fattispecie di ricettazione pre e post fallimentare soffermando l'attenzione, in particolare, sul dibattito emerso di recente in ordine alla corretta individuazione del tempus commissi delicti dell'ipotesi pre-fallimentare. In proposito l'Autore suggerisce (in ciò aderendo alla dottrina dominante) di prendere a riferimento il momento della sentenza dichiarativa di fallimento. Ciò anche alla stregua delle considerazioni ...
Abstract

Il focus ripercorre gli elementi costitutivi delle fattispecie di ricettazione pre e post fallimentare soffermando l'attenzione, in particolare, sul dibattito emerso di recente in ordine alla corretta individuazione del tempus commissi delicti dell'ipotesi pre-fallimentare. In proposito l'Autore suggerisce (in ciò aderendo alla dottrina dominante) di prendere a riferimento il momento della sentenza dichiarativa di fallimento. Ciò anche alla stregua delle considerazioni mosse da autorevoli commentatori in occasione della note querelle che ha riguardato la corretta qualificazione da attribuire alla dichiarazione di fallimento nella bancarotta pre-fallimentare, nonché della giurisprudenza che ne ha fornito la risoluzione.

Gli elementi costitutivi delle fattispecie di c.d. ricettazione fallimentare

Il terzo comma dell'art. 232 l. fall. prevede due fattispecie di reato che puniscono con la reclusione da uno a cinque anni chiunque:

«1) dopo la dichiarazione di fallimento, fuori dei casi di concorso in bancarotta o di favoreggiamento, sottrae, distrae, ricetta ovvero in pubbliche o private dichiarazioni dissimula beni del fallito;

2) essendo consapevole dello stato di dissesto dell'imprenditore distrae o ricetta merci o altri beni dello stesso o li acquista a prezzo notevolmente inferiore al valore corrente, se il fallimento si verifica».

Le due ipotesi delittuose, rubricate Distrazioni senza il concorso del fallito sono generalmente definite, sia in giurisprudenza sia in dottrina, con la locuzione ricettazione fallimentare ancorché non ricorra alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 648 c.p. e, in particolare, non essendo richiesta la provenienza delittuosa dei beni oggetto delle condotte incriminate. Per tali ragioni l'uso della locuzione non è stato esente da critiche della dottrina più severa.

La tutela dei creditori

La disposizione è chiaramente volta a completare la salvaguardia dell'integrità delle garanzie patrimoniali dei creditori anche in relazione a quei comportamenti illeciti posti in essere, non dal debitore, ma da soggetti estranei alla compagine societaria fuori dai casi di concorso nella bancarotta.

In entrambi i casi previsti dall'art. 232 l. fall., infatti, i diritti dei creditori trovano protezione nella voluntas legis di punire quei comportamenti idonei a impedire agli organi fallimentari di accedere ai beni apprensibili alla procedura. Nell'ipotesi prevista al n. 1) della disposizione, ove la condotta penalmente rilevante si pone in un momento successivo alla dichiarazione di fallimento - laddove, quindi, la procedura risulta già avviata - la fattispecie assume connotati plurioffensivi essendo del pari garantito il regolare svolgimento della procedura fallimentare medesima.

La bancarotta dell'estraneo

In entrambe le ipotesi si tratta di reati comuni posto che il soggetto attivo è chiunque, fatte salve, tuttavia, le impossibilità logiche e giuridiche scaturenti dall'inquadramento della disposizione nel sistema delineato dal Titolo VI legge fallimentare: deve infatti trattarsi di terzo estraneo all'impresa.

Se da una parte, infatti, il Legislatore ha delineato la bancarotta come reato proprio in ragione della centralità del ruolo del fallito, la peculiarità delle fattispecie in esame è proprio quella di estendere oltre la protezione dei creditori, sanzionando aggressioni che possano provenire da soggetti esterni al rapporto obbligatorio. Non a caso, autorevole dottrina ha anche parlato di bancarotta dell'estraneo.

Parimenti, non deve potersi prefigurare un concorso nella bancarotta del fallito (o dei soggetti diversi dal fallito). Tale limitazione, che nell'ipotesi post-fallimentare trova testuale affermazione in forza della clausola di esclusione espressa fuori dei casi di concorso in bancarotta, deve ritenersi valevole anche per l'ipotesi pre-fallimentare.

Ogni incertezza in proposito è stata da tempo superata dalla stessa Corte di legittimità che ha avuto modo di chiarire che «il delitto di ricettazione prefallimentare (art. 232, comma 3 n. 2, l. fall.), si configura solo in mancanza di un accordo con l'imprenditore dichiarato fallito. Pertanto, il fatto del terzo non fallito che distragga beni prima del fallimento, in accordo con l'imprenditore, è punibile a titolo di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale, ex art. 216, comma 1, e 223, comma 1, l. fall., e non a norma del predetto art. 232 l. fall.» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 22 febbraio 2012,n. 16062. In senso conforme: Cass. pen., Sez. V, 9 marzo 2005 n. 12824).

Coerentemente, risultano molteplici le pronunce che hanno affermato che «sussiste il concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale, ex art. 216, comma 1, e 223 comma 1 l. fall., e non la cosiddetta ricettazione prefallimentare (art. 232, comma 3, n. 2), quando la distrazione di beni sociali prima del fallimento sia operata dall'estraneo in accordo con l'amministrazione della società fallita» (cfr., per tutte, Cass. pen., Sez. V, 9 marzo 2005, n. 12824).

La condotta

Le due fattispecie in cui si articola la condotta tipica sono ordinariamente intese (secondo le tradizionali categorie della materia fallimentare penale) come ricettazione pre-fallimentare e post-fallimentare, ancorché indicate dalla disposizione di cui all'art. 232 l. fall. in ordine inverso alla rispettiva collocazione cronologica, rispettivamente ai numeri 2) e 1) del comma terzo.

Il fatto è descritto secondo una la tipologia casistica tipica del Legislatore fallimentare, ancorché con termini elastici. Comuni a entrambe le fattispecie sono le modalità della distrazione e della ricettazione.

Quanto al concetto di distrazione, secondo l'opinione dominante esso equivale a stornare beni dal patrimonio soggetto alla garanzia dei creditori sicché sottrarre e distrarre hanno l'identica accezione di rendere indisponibile alla procedura beni del fallito a prescindere dal fatto che egli ne abbia il previo possesso. Si può concludere, pertanto, che la nozione di distrazione è analoga a quella di cui all'art. 216, comma 1, n. 1 l. fall., rilevando, quindi, ogni condotta che sottragga il bene alla sua funzione di garanzia ex art. 2740 c.c.

Il concetto di ricettazione – come detto differente da quello desumibile dal reato comune previsto dalla disposizione essendo indifferente al fatto che si tratti di cose provenienti da delitto – è individuato nel comportamento di chi riceve e/o occulta presso di sé beni dell'imprenditore fallendo (trattandosi di ricettazione pre-fallimentare) o fallito (nell'ipotesi post-fallimentare).

In proposito la Corte di cassazione ha da tempo chiarito che «l'espressione ricettare nell'art. 232, comma 3, n. 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) non ha il significato della condotta costitutiva del delitto comune di ricettazione, ma va intesa nella sua accezione lessicale di dare ricetto, occultare, ricevere o tener espresso di sé clandestinamente od occultare. Pertanto la ricettazione fallimentare è ravvisabile anche se l'agente ricevi beni che l'imprenditore non abbia acquisito con mezzi costituenti reato» (cfr. Cass. pen., sez. II, 28 ottobre 1982, n. 10202).

Un caso di ricettazione post-fallimentare è stato ad esempio individuato nella condotta consistita in distrazione di merci e danaro, di una società dichiarata fallita, dei quali l'imputato avesse la disponibilità per avere stipulato con il curatore fallimentare un contratto di affitto di azienda e un contratto estimatorio per la vendita delle merci in magazzino. In proposito in giurisprudenza si è infatti ritenuto che «tale ipotesi può essere ricondotta al mero inadempimento contrattuale, posto che nel contratto estimatorio la proprietà delle cose resta al tradens fino a che non ne sia stato corrisposto il prezzo, sicché la condotta distrattiva ha per oggetto beni di proprietà del fallito» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2004,n. 21081).

Esclusiva della ricettazione pre-fallimentare è, invece, la condotta di acquisto da parte del terzo di merce o di altri beni dell'imprenditore in stato di insolvenza a prezzi notevolmente inferiori al valore di mercato. Al riguardo in giurisprudenza si è affermato che «il legislatore non ha inteso vincolare il giudice a criteri predeterminati, lasciando al libero convincimento dello stesso la valutazione di tutte le circostanze di fatto idonee a stabilire quando il prezzo pagato dal ricettatore è notevolmente inferiore al valore corrente del bene comprato» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 1991, in Riv. pen. econ., 1993, 365).

Per valore corrente dovrà comunque intendersi il valore di realizzo in normali condizioni di mercato anche considerando eventuali offerte provenienti da terzi e non andate a buon fine. Parimenti, lo scarto tra il valore corrente e il valore di realizzo dovrà essere notevole, cioè superiore al margine di opinabilità nel caso concreto. In sostanza dovrà trattarsi di un acquisto speculativo che, anche in considerazione della necessità di denaro dell'imprenditore posto di fronte all'ineluttabilità del fallimento, si concreti in una rilevante sproporzione tra ciò che l'acquirente riceve e il prezzo che corrisponde.

A sua volta, esclusiva della ricettazione post-fallimentare è la condotta di dissimulazione in pubbliche o private dichiarazioni di beni del fallito poste in essere successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Il concetto di dissimulazione assume lo stesso significato attribuitogli negli altri contesti penali fallimentari in cui è richiamato con la precisazione che la dissimulazione effettuata dal terzo ai sensi dell'art. 232, comma 3, n. 1 l. fall. deve concretizzarsi tramite «pubbliche o private dichiarazioni», intendendosi per tali tutte le comunicazioni che, considerato il novero delle tipologie di dichiarazioni che nella realtà possono ipotizzarsi, siano destinate all'esterno della sfera del soggetto attivo. Oggetto della dissimulazione è qualsivoglia bene rientrante nel patrimonio del fallito, tra i quali, ovviamente, anche i crediti.

Autorevole dottrina ha ritenuto corretto aderire all'interpretazione secondo cui il reato si perfeziona qualora, ad esempio, il fallito vanti un credito reale ed esigibile e il terzo neghi per contro l'esistenza del proprio debito.

L'oggetto materiale

Quanto all'oggetto materiale della ricettazione fallimentare, esso è espresso con l'inciso beni del fallito nell'ipotesi post-fallimentare e merci o altri beni dello stesso nell'ipotesi pre-fallimentare.

È stato riconosciuto che tra i beni debba rientrare anche il denaro sottratto alla garanzia patrimoniale del fallito dal terzo estraneo alla procedura. Al riguardo è stato infatti evidenziato come anche il danaro sia un bene suscettibile di distrazione e dunque rientri a pieno titolo nella descrizione normativa dell'oggetto materiale, mentre in chiave sistematica è stato osservato che in nessun caso la legge penale fallimentare distingue tra le componenti attive del patrimonio del fallito, operando costantemente implicito riferimento anche al danaro di quest'ultimo.

La stessa giurisprudenza ha ricordato che, «come tradizionalmente ritenuto dalla dottrina, infatti, l'inusuale formulazione adottata dal legislatore e soprattutto l'eccentrico riferimento alle merci deve imputarsi alla considerazione della prevalenza di queste nelle “contrattazioni” oggetto della condotta di acquisto speculativo, non sussistendo invece dubbio alcuno che i beni oggetto del reato siano tutti quelli soggetti alla garanzia creditoria ed acquisirli alla procedura concorsuale, compreso, dunque, il danaro. E che il dato testuale non possa essere sopravalutato, evocando orizzonti interpretativi quantomeno avventurosi, è testimoniato in fondo dallo stesso carattere pleonastico della locuzione “merci od altri beni”, atteso che le merci sono comunque dei beni. Del resto, laddove dovesse invece concludersi che effettivamente il danaro non possa rappresentare l'oggetto materiale del reato, sarebbe assai arduo giustificare sul piano della ragionevolezza una siffatta interpretazione, posto che attraverso l'incriminazione della ricettazione prefallimentare il legislatore aveva voluto rafforzare la tutela dei creditori, punendo coloro che approfittando della situazione di dissesto dell'imprenditore realizzano illeciti lucri in danno delle ragioni dei creditori, assicurando al contempo agli organi del fallimento l'apprensione dei beni soggetti all'esecuzione fallimentare e garantendo cosi il regolare svolgimento della procedura concorsuale (Cass. pen., Sez. V, 14 maggio 1976, n. 12229 del Hussmann,» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 gennaio 2013, (dep. 20 febbraio 2013), n. 8383).

Elementi differenzianti le due fattispecie: il differente momento consumativo del reato

Le differenze tra ricettazione pre-fallimentare e post-fallimentare sono evidenti. In particolare, differente è il ruolo rivestito dalla sentenza dichiarativa del fallimento: nella ricettazione pre-fallimentare, è condizione obiettiva di punibilità (se il fallimento si verifica); nella ricettazione post-fallimentare, presupposto del reato (dopo la dichiarazione di fallimento).

Correlativamente, ancorché il dolo sia generico per entrambe le ipotesi, perché sia integrato l'elemento soggettivo è richiesta, nel primo caso, la consapevolezza dello stato di dissesto, nel secondo caso, invece, del fallimento.

La diversa connotazione attribuita alla sentenza dichiarativa di fallimento determina evidenti effetti anche con riguardo al momento consumativo del delitto.

Nel caso di ricettazione post-fallimentare, assumendo la sentenza dichiarativa del fallimento il ruolo di mero presupposto del reato, lo stesso si consumerà necessariamente nel momento della realizzazione della condotta criminosa.

Nel caso, invece, di ricettazione pre-fallimentare, ancorché dovrebbe esser chiaro che il momento consumativo corrisponda con il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità costituita dalla dichiarazione di fallimento, si è di recente dubitato di tale soluzione.

Pare utile, al riguardo, ripercorrere l'iter argomentativo di una recente sentenza di legittimità che pare (ad una prima lettura) poter sollevare qualche profilo di criticità.

Cass. pen., Sez. V, n. 43101/2017. Il caso

La Corte di appello di Milano, confermando la sentenza del Gup dello stesso tribunale, condannava il ricorrente reato di ricettazione fallimentare, di cui all'art. 232, comma 3, n. 2, e comma 4, l. fall., così riqualificata l'originaria imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per aver acquistato partecipazioni societarie a prezzo inferiore del valore corrente (rectius: senza alcun corrispettivo), in un'epoca in cui il dissesto della società poi fallita era ormai manifesto.

Tra i diversi motivi di ricorso, il difensore dell'imputato lamentava il difetto di giurisdizione dell'Autorità italiana anche in considerazione della natura di reato istantaneo della ricettazione fallimentare che, a detta del ricorrente, si sarebbe perfezionato nel momento della ricezione delle quote, senza che possa essere dato rilievo alla fase delle trattative che hanno preceduto la cessione delle quote medesime.

Ricordato che a norma dell'art. 6 c.p., «in caso di concorso di persone nel reato, ai fini della sussistenza della giurisdizione penale dello Stato italiano e per la punibilità di tutti i concorrenti, è sufficiente che nel territorio dello Stato sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione da parte di uno qualsiasi dei concorrenti (Cass. pen., Sez. III, 18 febbraio 2016, n. 11664, Callea)» la Suprema Corte ha affermato che la giurisdizione italiana è stata riconosciuta sul corretto presupposto che il reato di c.d. ricettazione fallimentare contestato fosse stato commesso, anche in parte, in Italia, ove era stata posta in essere, quantomeno, la fase della trattativa e della deliberazione di vendita da parte della società cedente.

(Segue). Gli (apparenti) riflessi sul momento consumativo della ricettazione pre-fallimentare

Ciò chiarito, la Corte di cassazione ha inteso liberare ulteriormente il campo dai rilievi mossi dal ricorrente riguardo la natura di reato istantaneo della ricettazione pre-fallimentare alla stregua (a suo dire) della fattispecie comune di cui all'art. 648 c.p. Al riguardo, la Corte ha infatti evidenziato la diversità tra le due fattispecie precisando che, mentre nel caso della ricettazione codicistica la condotta coincide con la ricezione o l'occultamento dei beni di provenienza illecita (in tal senso connotando la natura istantanea del reato che si consuma nel momento in cui l'agente ottiene il possesso della cosa), la condotta rilevante per l'integrazione della c.d. ricettazione pre-fallimentare (art. 232, comma 3, n. 2 l. fall.) consiste, invece, nella distrazione, nella ricettazione o nell'acquisto speculativo (a prezzo notevolmente inferiore al valore corrente) di merci o altri beni dell'imprenditore in stato di dissesto. Con la conclusione che, secondo la Corte, nel caso sottoposto al suo esame non era invocabile «la natura istantanea del reato codicistico di ricettazione [...]», stigmatizzando che, nel caso sottoposto al suo esame, «le singole condotte naturalistiche di ricezione delle quote appartengono al medesimo fatto di distrazione, quali frazioni, di carattere esecutivo, della più ampia operazione di ricettazione pre-fallimentare».

La sentenza ricordata ha suscitato qualche perplessità nei commentatori per la non chiara descrizione del momento in cui si il reato si perfeziona (per vero dovuta più alla confusione, ingenerata dal ricorrente, tra momento consumativo e presupposti per radicare la giurisdizione in Italia) e indotto qualche autore a dubitare della corretta individuazione del tempus commissi delicti.

(Segue). Il momento consumativo della fattispecie di ricettazione pre-fallimentare

Per far chiarezza sulla corretta identificazione del momento consumativo del reato di ricettazione pre-fallimentare torna utile tenere in considerazione la pronuncia resa dalla Sez. V della Suprema Corte in data 8 febbraio 2017, n. 36386 (resa, come noto, in materia di bancarotta pre-fallimentare) a seguito della quale più nessuno pare poter dubitare che nei reati di bancarotta la sentenza dichiarativa di fallimento assume il ruolo di condizione obiettiva di punibilità. D'altra parte, mai si è dubitato che i reati di bancarotta si consumino alla data e nel luogo della dichiarazione di fallimento e non già nel momento e nel luogo in cui siano consumate le condotte punibili.

A chi scrive non paiono esservi ragioni plausibili per le quali non si possa ritenere tale momento consumativo del pari per la ricettazione pre-fallimentare.

Pare anzitutto non potersi porre in dubbio che la sentenza dichiarativa di fallimento assume il ruolo di condizione obiettiva di punibilità. In proposito si ricorda come sono due i criteri di individuazione elaborati dalla dogmatica: il primo, di natura formale, attribuisce efficacia discriminante al dato letterale; all'uso, cioè, di formule ipotetiche come se dal fatto deriva, qualora, nel caso in cui, laddove sia, perché «sintomatiche di una rottura fra gli elementi costitutivi del reato e questoquid pluris che si deve verificare». Senza dubbio tale primo criterio di identificazione è rispettato: «se il fallimento si verifica».

Il secondo criterio, che potremmo definire sostanziale-funzionale, focalizza l'attenzione sul fatto che le condizioni obiettive di punibilità segnano la linea di confine tra il fatto ‘meritevole di pena' (in quanto già di per sé capace di produrre un'offesa) e il fatto punibile, sicché le stesse risultano estranee alla portata offensiva della fattispecie penale. Tanto ciò è vero che, come noto, secondo l'orientamento tradizionale, proprio perché la condizione obiettiva di punibilità è elemento estrinseco alla condotta dell'agente, ne discende la sua irrilevanza rispetto a) al perfezionamento (ma non alla consumazione) del reato il cui intero disvalore è espresso dall'esistenza degli elementi costitutivi tipici e b) al nesso psicologico con l'agente. Anche questo secondo requisito risulta soddisfatto.

Ciò ricordato, non si può disconoscere che la presenza di una condizione obiettiva di punibilità nella formulazione della fattispecie conduce a chiare implicazioni nei confronti di altri istituti di diritto penale sostanziale e processuale.

Tra tutti, per prima, la disciplina della prescrizione posto che, ai sensi dell'art. 158, comma 2, c.p., quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata.

Inoltre, è ciò è quanto qui più rileva, il verificarsi della condizione di punibilità assume rilievo determinante in quanto momento di piena consumazione del delitto che radica anche la competenza per territorio dell'Autorità giudiziaria, prevista dall'art. 8 c.p.p.

Tornando al parallelismo che si è suggerito, con riguardo ai fatti di bancarotta pre-fallimentare autorevole dottrina ha osservato che nonostante il silenzio dei codici, penale e processuale penale, nelle ipotesi che il reato sia sottoposto a condizione oggettiva di punibilità, il locus commissi delicti, non può che coincidere con quest'ultima per tre ordini di ragioni che, essendo condivise da chi scrive, si ricordano: a) in primo luogo lo stesso art. 158, comma 2, c.p., appena sopra richiamato, costituisce un riferimento sul versante sistematico; b) «prima del verificarsi dell'evento dedotto dalla legge come condizione, non vi sono ancora termini concreti di rilevanza penale» (M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 3° ed., Milano, 2004, sub art. 6, § 17, 127); c) «se poi si ritenesse che il reato è tale quando ricorrono i suoi quattro elementi costitutivi, nessun dubbio potrebbe allora sussistere sulla conclusione che le fattispecie di bancarotta vengono a giuridica esistenza nel luogo e nel tempo nei quali si realizza anche il quarto elemento costitutivo (id est: la punibilità)» (F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi?, Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., 4, 2015, 401).

In conclusione

In considerazione dell'esigenza di politica giudiziaria – da tempo manifestata rispetto ai delitti di bancarotta pre-fallimentare – di far coincidere tempus e locus commissi delicti rispettivamente con la data e il luogo in cui è stata pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento, nonché delle considerazioni in tal senso espresse dalla sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. V, 8 febbraio 2017, n. 36386, in assenza di fattori di distinzione che giustifichino una diversa soluzione, deve ritenersi che il momento consumativo del delitto di ricettazione pre-fallimentare di cui all'art. 232, comma 3, n. 2) l. fall. corrisponda, anch'esso, con la data della pronuncia dichiarativa del fallimento.

Guida all'approfondimento

Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, I reati fallimentari, Milano, 2008, 297 e ss; Santi di Paola, Il fallimento: percorsi giurisprudenziali, Milano, 2012, 409 e ss.;

Corucci, La bancarotta e i reati fallimentari, Milano, 2008, 323 e ss.;

Giuliani - Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 2006, 537 e ss.;

Pulitanò, Diritto penale, Parte speciale, Tutela penale del patrimonio, Torino, 2013, Vol. II, 385 e ss.;

Soana, I reati fallimentari, Milano, 2012, 417 e ss.; A. Alessandri, Reati in materia economica, Torino, 2012, 469 e ss.

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