La corruzione dell'arbitro: un ingiustificato vuoto di tutela penale

Francesco Rubino
Roberta Francia
16 Aprile 2018

La vicenda trae origine dal deposito, presso la procura della Repubblica di Milano, di un'istanza di ricusazione del Presidente di due collegi arbitrali, chiamati a ...
Massima

L'arbitro nominato - ex artt. 806 ss. c.p.c. – dalle parti private al fine di dirimere una controversia non riveste la qualifica di pubblico ufficiale e per ciò solo non risponde dei reati di corruzione, in particolare del reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.)

Il caso

La vicenda trae origine dal deposito, presso la procura della Repubblica di Milano, di un'istanza di ricusazione del Presidente di due collegi arbitrali, chiamati a pronunciarsi in due distinte controversie aventi a oggetto il pagamento di commissioni arretrate e contestuale richiesta di risarcimento del danno, per importi pari a circa due miliardi di euro. Le controparti – una società assicurativa americana, da un lato, e un suo ex broker, dall'altro – avevano esercitato la facoltà, a essi concessa ai sensi dell'art. 806 c.p.c. di devolvere la controversia al giudizio di un collegio arbitrale. La società americana, però, nelle more del procedimento arbitrale, ha presentato l'istanza di ricusazione del Presidente del collegio arbitrale: infatti, in alcuni non meglio precisati “audio” dell'ex broker, registrati da investigatori privati, quest'ultimo lasciava intendere di essersi assicurato una decisione favorevole in sede di arbitrato a fronte della promessa fatta al Presidente del collegio di versargli il 10% di quanto egli avrebbe ottenuto.

Il P.M. ha ritenuto del tutto infondata la notizia di reato in ragione degli esiti delle intercettazioni telefoniche che non avevano fornito alcun riscontro all'ipotesi che fosse realmente intervenuto un accordo corruttivo. Si consideri inoltre che la controversia civile aveva poi avuto un esito bonario con il riconoscimento da parte della società americana di un debito dell'importo di 60.000.000 € nei confronti dell'ex broker, circostanza che conduceva alla chiusura di ogni controversia tra le parti.

Il procedimento penale si è concluso, pertanto, con il decreto di archiviazione qui in commento.

La questione

Il decreto di archiviazione in commento risulta rilevante in quanto il giudice non poggia le ragioni dell'archiviazione sulla sola infondatezza della notizia di reato ma si interroga circa la configurabilità o meno, in capo all'arbitro, della responsabilità penale per i delitti di corruzione o di corruzione in atti giudiziari, anche alla luce del novellato art. 813, comma 2, c.p.c. secondo il quale «Agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio».

Le soluzioni giuridiche

Trattandosi di un decreto di archiviazione, risulta palese che l'organo giudicante abbia dato, al quesito sopra posto, una soluzione negativa. Il giudice, sulla base di un'argomentazione che di seguito si illustra, arriva – infatti – ad affermare che l'arbitro non riveste la qualifica di pubblico ufficiale: dal momento che la corruzione configura un'ipotesi di reato c.d. proprio, per il quale la qualifica soggettiva dell'agente assurge ad elemento costitutivo del reato, è inevitabile affermare che l'arbitro non risponde del reato in questione.

Il ragionamento giuridico, che conduce a tale decisione, prende le mosse dall'analisi dell'art. 813, comma 2, c.p.c., norma posta quale stella polare del delle motivazioni del Gip.

Infatti, il giudice, dopo aver menzionato l'art. 813, comma 2, c.p.c., che – come già detto – in maniera assolutamente inequivocabile e tranchant afferma che l'arbitro non riveste né la qualifica di pubblico ufficiale, né quella di incaricato di un pubblico servizio, analizza l'evoluzione giurisprudenziale della disciplina dell'arbitrato. Dapprima prende in considerazione la giurisprudenza degli anni 2000 (Cass. pen., Sez. unite, 527/2000), che spinta dalla preoccupazione di mettere al riparo l'istituto dell'arbitrato da rischio di incostituzionalità ex art. 102 Cost., ne fornisce una ricostruzione in chiave esclusivamente privatistica. Infatti, richiamando anche la sentenza della Corte costituzionale n. 127/1977, sottolinea che «il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma 1, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell'art. 102 Cost.»

D'altra parte, il giudice riconosce che l'ultima tendenza della giurisprudenza, sorretta anche da disposizioni legislative di nuova introduzione, si indirizzi nel senso di riconoscere al lodo arbitrale una natura giurisdizionale equivalente a quella di un provvedimento di un organo giudicante. In tale senso cita l'ordinanza della Corte di cassazione civile a Sezioni unite, n. 24153/2013, la quale afferma che «la normativa, in parte introdotta con la legge 25 del 1994 ed in parte con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, pare contenere sufficienti indici sintomatici per riconoscere la natura giurisdizionale del lodo arbitrale e per soddisfare quelle indicazioni sui limiti entro i quali la scelta del giudice diverso da quello statale può essere dall'ordinamento affidato ai privati». Il Gip richiama poi la disciplina dell'impugnazione del lodo arbitrale; la trascrizione e l'interruzione della prescrizione; l'art. 819-ter c.p.c. che nel disciplinare il rapporto tra le cause devolute al giudizio degli arbitri e cause proposte al giudice ordinario, individua il rapporto tra i due processi in termini di competenza; l'art. 824-bis c.p.c. che equipara gli effetti del lodo dalla data della sua sottoscrizione a quelli della sentenza passata in giudicato.

Tuttavia, nonostante il riconoscimento di questi indici sintomatici della natura giurisdizionale del lodo arbitrale, il giudice, alla luce dell'invalicabile disposizione di cui all'art. 813 c.p.c., ne limita l'equiparazione ai soli effetti, concludendo che «il rapporto in forza del quale gli arbitri esercitano le loro funzioni è e rimane pur sempre privatistico con possibilità di dolersi di eventuali condotte illecite degli arbitri in sede civilistica».

Stante la ricostruzione privatistica dell'istituto dell'arbitrato, appare dunque impossibile sostenere la veste pubblica dell'arbitro.

Osservazioni

Se il ragionamento del giudice condotto nel decreto di archiviazione, qui in commento, risulta privo di falle, non può non evidenziarsi un vuoto di tutela penale. Il problema non è di poco conto se si considera che a seguito della riforma del processo civile attuata ad opera del d.l. 132/2014, è stata introdotta la possibilità di trasferire in sede arbitrale anche le cause civili pendenti dinanzi al tribunale o alla Corte d'appello, cause che possono avere ad oggetto questioni economiche di rilevante importo.

Il problema circa la configurabilità in capo all'arbitro della qualifica di pubblico ufficiale non risulta di facile risoluzione stante la presenza, nel nostro ordinamento, di due norme di difficile coordinamento: l'art. 357 c.p. che fornisce agli effetti della legge penale una definizione di pubblico ufficiale, secondo la quale «sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa»; e l'art. 813, comma 2, c.p.c. già ampiamente richiamato.

Le tesi dottrinali che si contrappongono poggiano entrambe su argomenti plausibili. Se della prima – che sostiene la natura privatistica del ruolo dell'arbitro – si è detto, in quanto tesi abbracciata dal giudice che dispone l'archiviazione del caso che occupa, della seconda si illustrano sommariamente i punti salienti nel prosieguo del commento.

I sostenitori della seconda tesi poggiano le loro argomentazioni sul principio di autonomia del diritto penale nella definizione di concetti normativi richiamati dalle fattispecie incriminatrici, affermato ormai da diverse voci (Cfr. C. BENUSSI, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, in G. Marinucci, E. Dolcini (a cura di) Trattato di diritto penale. Parte speciale, II ed., Padova, 2013, pag. 45; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. II, XV ed., Milano, 2008, p. 298).

Se così è, infatti, ai fini della configurabilità della qualifica di pubblico ufficiale o meno in capo all'arbitro a nulla rileverebbe richiamare l'art. 813, comma 2, c.p.c. ma ci si dovrebbe riferire esclusivamente agli artt. 357 e 358 c.p.

In questo senso, quindi, la chiave di volta del ragionamento si dovrebbe individuare nell'analisi della pubblica funzione giudiziaria esercitata dall'arbitro. A tale fine, si sottolinea che a seguito delle modifiche introdotte ad opera della l. 86/1990, l'art. 357 c.p. abbraccia una concezione funzionale – oggettiva della nozione di pubblico ufficiale completamente avulsa da qualsivoglia rapporto di dipendenza dall'apparato statale.

Se così è allora, risulta necessario verificare in concreto se l'attività dell'arbitro possa essere ricompresa nel novero delle funzioni pubblica giudiziaria, indipendentemente dal tipo di rapporto su cui si fonda l'esercizio della sua attività.

In questo solco interpretativo, dunque, le peculiarità della disciplina dell'arbitrato, già elencate dal giudice redattore del decreto di archiviazione sopra commentato, quali indici sintomatici dell'equiparazione (quanto ai soli effetti) del lodo arbitrale alla sentenza, dovrebbero rappresentare validi elementi per considerare la funzione dell'arbitro rientrante nel concetto di funzione pubblica giudiziaria.

In conclusione, quindi, i sostenitori della seconda tesi, ritenendo inaccettabile che il vuoto di tutela penale possa discendere da un'interpretazione della disciplina dell'istituto dell'arbitrato nel senso indicato dal Gip, arrivano ad affermare la configurabilità della qualifica di pubblico ufficiale in capo all'arbitro, non attribuendo discrimine decisivo alla lettera dell'art. 813, comma 2, c.p.c.

Se questa seconda interpretazione appare preferibile perché conduce a scongiurare un ingiustificato vuoto di tutela per la funzione arbitrale – che ha assunto un ruolo chiave nella risoluzione delle controversie in un'ottica di smaltimento delle controversie civili pendenti – occorre allo stesso tempo evidenziare che si giungerebbe a problematiche, forse insormontabili, di coordinamento tra la qualifica di pubblico ufficiale ex art. 357 c.p. dell'arbitro e la sua veste privatistica sancita dall'art. 813, comma 2, c.p.c., che – peraltro – come già rilevato risulta conforme al dettato dell'art. 102 Cost.

Così come accadde nel 2012, allorquando il Legislatore intervenne con la l. 190 del 6 novembre 2012 introducendo il reato di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.) – volto a colmare un vuoto di tutela nel settore societario che discendeva dall'impossibilità di estendere il concetto di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio a soggetti con poteri dirigenziali, ora contemplati quali soggetti attivi del reato di cui all'art. 2635 c.c. – nello stesso modo si auspica che il legislatore intervenga introducendo una disposizione incriminatrice ad hoc volta a punire il pactum sceleris di cui possono essere protagonisti gli arbitri.

In tal modo, infatti, da un lato non si renderebbe necessario estendere oltre limite l'interpretazione del concetto di pubblico ufficiale di cui all'art. 357 c.p., impraticabile anche alla luce del principio di legalità e, dall'altro, si giungerebbe a colmare un vuoto di tutela rispettando il dettato di cui all'art. 813, comma 2, c.p.c. nonché dell'art. 102 Cost.

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