Eredità giacente

Mauro Di Marzio
18 Aprile 2018

La giacenza dell'eredità si verifica nell'intervallo temporale che va dall'apertura della successione (ossia dalla morte del de cuius) all'accettazione dell'eredità.
Inquadramento

La giacenza dell'eredità si verifica nell'intervallo temporale che va dall'apertura della successione (ossia dalla morte del de cuius) all'accettazione dell'eredità. Essa non è definita dalla legge, la quale si limita ad affermare, all'art. 528 c.c., che, quando il chiamato non ha accettato e non è nel possesso dei beni ereditari il giudice competente nomina un curatore dell'eredità. Identificato il menzionato ambito temporale, occorre distinguere la nozione di giacenza da quella più ampia di vacanza dell'eredità: quest'ultima si verifica in ogni caso in cui, apertasi la successione, il chiamato non abbia voluto o potuto per qualsiasi ragione accettare; la giacenza va invece considerata come una sottospecie della vacanza, qualificata dall'esistenza di un particolare sistema di amministrazione dei beni ereditari nei casi in cui ricorrano i presupposti previsti dall'art. 528 c.c.: è dunque ben possibile che l'eredità sia vacante, mancando l'accettazione, ma non sia giacente, perché il chiamato è in possesso dei beni ereditari.

Quanto alla natura dell'eredità giacente, superata la tesi che vedeva in essa una vera e propria persona giuridica od un autonomo soggetto di diritto — tesi che mal si concilia con la fisiologica provvisorietà della situazione di giacenza e con la retroattività dell'accettazione — si ritiene, in prevalenza che il patrimonio ereditario si atteggi quale patrimonio assoggettato ad amministrazione e, dunque, si presenti quale patrimonio separato. Questa l'opinione accolta dalla giurisprudenza (Cass. civ., 14 agosto 1951, n. 2517, in motivazione)

Quanto alla funzione dell'eredità giacente è facile constatare, ad un primo esame, che essa mira ad assicurare l'amministrazione di un patrimonio temporaneamente privo del dominus: l'istituto, cioè, è dominato dalla necessità di assicurare, sotto il profilo della amministrazione e della gestione, la continuità del patrimonio del de cuius (Pret. Roma, 21 giugno 1976, in Giur. merito 1978, I, 50; in Giust. civ. 1976, I, 1344).

Presupposti della giacenza

L'art. 528 c.c. indica due presupposti della giacenza dell'eredità, entrambi connotati in negativo: la mancanza di accettazione e l'assenza del possesso di beni ereditari da parte del chiamato.

Quanto alla mancanza di accettazione, occorre rammentare che l'accettazione, oltre che espressa, può ben essere anche tacita e, d'altronde, l'accettazione non è di regola sottoposta ad un regime pubblicitario, se l'eredità non comprenda beni immobili, ex art. 2648 c.c. o se non sia stata accettata con beneficio di inventario. Sorge perciò il problema della prova della mancata accettazione, e, in correlazione con essa, il quesito se l'eredità debba considerarsi giacente anche in caso di incertezza sull'esistenza attuale di un chiamato all'eredità: questioni, quelle indicate, alle quali la giurisprudenza ha esaurientemente risposto. Da un lato, la prova della mancata accettazione si risolve nella dimostrazione che tra gli interessati alla successione non si ha notizia dell'accettazione da parte del chiamato. Dall'altro lato si ammette che l'eredità sia giacente in mancanza di tale prova, quando vi sia incertezza sull'esistenza di un chiamato (Cass. civ., 16 luglio 1973, n. 2069; Cass. civ., 31 marzo 1987, n. 3087; secondo Pret. Genova 24 gennaio 1977, in Giur. merito 1978, 562, non si fa luogo ad apertura di eredità giacente e il patrimonio ereditario va devoluto direttamente allo Stato, quando non vi siano successibili legittimi o testamentari o vi sia incertezza assoluta sulla esistenza degli stessi).

Quanto al secondo dei presupposti ricordati, ossia all'assenza di possesso, il legislatore ha motivatamente escluso in tal caso la giacenza, mirando l'istituto dell'eredità giacente a tutelare un patrimonio ereditario momentaneamente acefalo. Il chiamato possessore, infatti, dispone già di poteri di amministrazione conservativa (art. 460 c.c.). Ed inoltre, dinanzi a lui la situazione dell'eredità si definisce rapidamente, in applicazione del congegno di cui all'art. 485 c.c.. Anche in questo caso si presenta la questione della prova dell'assenza del possesso di beni. Si ritiene rilevante, in proposito, l'ignoranza, constatata in un certo ambiente, che il chiamato abbia il possesso dei beni ereditari. Quanto al tempo del possesso, si ritiene indifferente che il chiamato possieda fin dall'apertura della successione o acquisti il possesso successivamente. La nozione di possesso non è da intendere in senso tecnico: si tratta del possesso «a qualunque titolo» che il legislatore menziona nell'art. 485 c.c. e, dunque, comprende anche la semplice detenzione. È infine da ritenere che l'esame del presupposto dell'assenza del possesso vada effettuato negli esclusivi riguardi del primo chiamato, e non dei chiamati in subordine, i quali, come tali, chiamati non sono, non essendo attuale la loro vocazione ereditaria.

Sembra poi da credere che la giacenza presupponga l'esistenza di una vocazione attuale: ciò sia nel senso che la vocazione non attuale è estranea al fenomeno della giacenza dell'eredità (si pensi all'istituzione sotto condizione sospensiva e all'istituzione del nascituro, ex artt. 641 e 643 c.c.), sia nel senso che la giacenza è esclusa dall'accertamento che il de cuius non ha successibili né per legge, né per testamento, con la conseguenza che l'eredità si devolve allo Stato, ex art. 586 c.c..

Si discute dell'ammissibilità dell'eredità giacente pro quota (l'opinione è in prevalenza per la negativa: Cass. civ., 22 febbraio 2001, n. 2611).

Aspetti procedurali dell'istanza e del decreto di nomina

Funzionalmente competente alla nomina del curatore dell'eredità giacente è il tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, ai sensi dell'art. 528, comma 1, c.c., come modificato dall'art. 145 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado. Ai sensi dell'art. 51-bis disp. att. c.c., è competente alla nomina del curatore dell'eredità giacente il tribunale in composizione monocratica del luogo dell'aperta successione, ossia l'ultimo domicilio del defunto, ex art. 456 c.c..

Quanto alla forma dell'istanza, trovano applicazione gli artt. 737 ss. c.p.c.: perciò la nomina del curatore dell'eredità giacente va proposta con ricorso. L'istanza di nomina del curatore dell'eredità giacente deve essere corredata dalla prova della morte della persona della cui eredità si tratta.

Va poi precisato che, il procedimento in esame presenta un tendenziale carattere inquisitorio, il che consente al giudice — il quale, del resto, potrebbe procedere ex officio — di assumere sommarie informazioni, ex art. 738, comma 3, c.p.c.. Il giudice, in particolare, ben può sentire i chiamati, interrogandoli sulla loro volontà di accettare l'eredità, sì da evitare, per quanto possibile, che l'apertura della curatela si riveli inutile.

Quanto alla forma del provvedimento, non v'è dubbio che il giudice adito debba provvedere con decreto: ciò si desume espressamente dall'art. 781 c.p.c., che regola la notificazione del decreto di nomina.

Ai sensi dell'art. 781 c.p.c. il decreto di nomina deve essere nel termine in esso stabilito notificato al curatore da parte della cancelleria. Sempre a cura della cancelleria, inoltre, esso deve essere pubblicato per estratto in Gazzetta Ufficiale e iscritto nel registro delle successioni, ai sensi dell'art. 528 c.c., allo scopo di rendere la nomina di pubblico dominio. Si ritiene, tuttavia, che i menzionati adempimenti pubblicitari non condizionino l'efficacia del provvedimento di nomina.

Una volta accettato l'incarico, il curatore, prima di immettersi nelle funzioni, deve prestare giuramento dinanzi al giudice di custodire ed amministrare fedelmente i beni dell'eredità, ai sensi dell'art. 193, disp. att. c.p.c..

Vi è concordia sulla reclamabilità del decreto di nomina del curatore dell'eredità giacente. La soluzione è altresì accolta in giurisprudenza (Trib. Milano, 28 marzo 1961, in Giur. it. 1962, I, 2, 500). È viceversa inammissibile il ricorso per cassazione, giacché il provvedimento di nomina del curatore dell'eredità giacente, ex art. 528 c.c., quale atto di giurisdizione volontaria, è privo del requisito della decisorietà e dell'attitudine ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale (Cass. civ., 17 maggio 2001, n. 6771). Quanto al reclamo, dopo aver ribadito che il giudice competente a provvedere sull'eredità giacente è il tribunale in composizione monocratica, occorre sottolineare che i suoi provvedimenti sono reclamabili in corte d'appello in applicazione della norma, di carattere generale, stabilità dall'art. 747, comma 3, c.p.c. (Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5274, secondo cui, ove il tribunale disponga la cessazione della curatela a seguito della decadenza di un erede, genitore di figli minorenni, dalla rinunzia all'eredità, il relativo provvedimento, ancorché adottato dal tribunale quale giudice tutelare e non quale giudice funzionalmente competente per l'eredità giacente, è soggetto al reclamo sopraindicato e non a quello, ai sensi dell'art. 739 c.p.c., al tribunale in composizione collegiale, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione avverso il provvedimento con il quale il tribunale, così adito, si dichiari incompetente).

Il curatore

L'inquadramento dogmatico della figura del curatore dell'eredità giacente non è più ricondotto, ormai, all'istituto della rappresentanza intesa in senso tecnico (Cass. civ., 28 settembre 1994, n. 7898, in motivazione; da ult. Cass. civ., 8 gennaio 2015, n. 39, ove si chiarisce che egli è nondimeno legittimato attivamente e passivamente in tutte le cause che riguardano l'eredità). Si esclude la rappresentanza dell'eredità, negandosi comunemente la sua personificazione. Si esclude parimenti la rappresentanza del de cuius, che più non è, e, dunque, neppure può essere rappresentato. Si esclude altresì la rappresentanza dell'erede: anzi, curatore ed erede si escludono a vicenda. Neppure riceve consenso la tesi della rappresentanza del chiamato, osservandosi che la gamma dei poteri del curatore è di certo più ampia di quella del chiamato: ed anzi, lungi dal rappresentare il chiamato, la nomina del curatore priva quest'ultimo dei poteri di amministrazione che altrimenti gli spetterebbero.

Diffusa è la tesi che il curatore dell'eredità giacente, quale titolare di un ufficio privato, ripeta i suoi poteri dalla legge, attraverso il provvedimento di nomina del giudice. Pur essendo immediatamente rivolto alla tutela di privati interessi, non è esclusa una marcata connotazione pubblicistica della figura, collegata all'interesse pubblico a che i beni ereditari non rimangano indefinitamente privi di amministrazione. In tal senso, si è detto che il curatore esplica una funzione pubblica (v. Cass. civ., 8 aprile 1978, n. 1646; Cass. civ., 8 novembre 1994, n. 9240). Sotto altro profilo, non sembra potersi dubitare che il curatore dell'eredità giacente si presenti quale ausiliare del giudice (Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 1997, n. 11619; da ult. Cass. civ., 10 dicembre 2012, n. 22490).

Quanto alle funzioni del curatore, si può in generale dire che la legge non le definisce con esattezza, ma si limita ad enumerare, agli artt. 529 e 530 c.c., una serie di atti che egli deve compiere, aggiungendo, all'art. 531 c.c., che a lui sono comuni le regole dettate dagli artt. 484 ss. c.c. in tema di inventario, amministrazione e rendimento del conto da parte dell'erede beneficiato, esclusa la limitazione di responsabilità per colpa.

Ai sensi dell'art. 782 c.p.c., il giudice può in ogni momento ordinare al curatore la presentazione del conto della gestione. Ciò allo scopo di verificare la regolarità e l'adeguatezza della sua amministrazione, in collegamento con il provvedimento di sostituzione, che il giudice, nell'esercizio del potere di vigilanza sulla procedura, può sempre assumere. Inoltre, ai sensi dell'art. 529 c.c., il curatore dell'eredità giacente, quale amministratore di interessi altrui, ha l'obbligo di rende conto della propria amministrazione a conclusione dell'incarico conferitogli, quando la curatela si sia conclusa per il raggiungimento del suo esito fisiologico, ossia per l'accettazione dell'eredità da parte del chiamato.

Il curatore può difendere la curatela ex art. 86 c.p.c., ove abbia i necessari requisiti (Cass. civ., 22 dicembre 1998, n. 12784).

La vendita di beni ereditari

Il curatore deve promuovere la vendita dei mobili nei trenta giorni dalla formazione dell'inventario. Lo scopo sembra essere quello di eliminare, in tal modo, il rischio di dispersione di quella parte del patrimonio più soggetta ad una simile eventualità e, dunque, di ridurre il contenuto della custodia posta a carico del curatore. Il termine ha un carattere genericamente ordinatorio, e perciò la vendita ben può essere effettuata successivamente.

Non è esclusa l'alienazione in corso della formazione dell'inventario e finanche prima di essa. Difatti, deve ritenersi applicabile alla situazione di giacenza l'art. 460, comma 2, c.c., attraverso il duplice rinvio degli artt. 531 e 486 c.c., nella parte in cui consente al chiamato di vendere, con l'autorizzazione giudiziale, i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio.

La vendita richiede l'autorizzazione giudiziale: la necessità dell'autorizzazione discende dalla regola generale posta dall'art. 782, comma 2, c.p.c., il quale richiede l'autorizzazione giudiziale per tutti gli atti di straordinaria amministrazione, quale è la vendita. L'autorizzazione attiene sia al se della vendita, sia alle modalità della ed al prezzo: ciò si desume dal comma 1 dell'art. 783 c.p.c., secondo cui il giudice può disporre diversamente.

Il prezzo di vendita non dovrà essere inferiore al prezzo stimato in inventario, sotto il quale si potrà scendere solo a seguito di tentativi di vendita infruttuosi, o in ragione di altre particolari circostanze. Potrà, però, essere effettuata una stima dei beni, in particolar modo se si tratti di beni di importante valore, quando quella contenuta in inventario non sia soddisfacente o non sia più attuale.

Quanto alla forma della vendita, trova applicazione l'art. 748 c.p.c., posto in tema di vendita di beni ereditari. È sempre richiesta la forma scritta, sebbene ciò non sia richiesto ad substantiam actus, dal momento che l'esigenza dello scritto nasce dall'obbligo del curatore di rendere il conto della gestione

La vendita degli immobili può essere eseguita solo in caso di necessità o utilità evidente, ai sensi dell'art. 783, comma 2, c.c.. Si versa in caso di necessità quando occorra estinguere passività ereditarie e l'eredità non disponga di denaro sufficiente. La nozione di utilità evidente non può essere racchiusa entro precisi limiti, data la varietà delle situazioni che si possono presentare. Si può genericamente dire che essa può sorgere tanto dalla considerazione delle spese che l'amministrazione del bene richiederebbe, quanto dalla considerazione del lucro che l'investimento del ricavato dalla vendita potrebbe produrre.

L'inventario non prevede la stima degli immobili. Perciò, il bene da alienare deve essere preventivamente stimato da un esperto nominato dal giudice.

Cessazione della giacenza

Dispone l'art. 532 c.c. che il curatore cessa dalle sue funzioni quando l'eredità è stata accettata. Si pone al riguardo il quesito se la cessazione della giacenza si verifichi ipso iure per effetto dell'accettazione, senza alcun margine di valutazione da parte del curatore e del giudice, oppure richieda un provvedimento costitutivo. La dottrina propende per questa seconda soluzione, osservando: a) l'accettazione dell'eredità è senza dubbio un atto unilaterale non ricettizio, sicché non può ammettersi la cessazione del curatore dall'ufficio in conseguenza di un evento — quello contemplato dall'art. 532 c.c. — del quale non gli spetta avere conoscenza; b) una volta assunto l'incarico in forza di un provvedimento del giudice, il curatore può decadere solo per effetto di un provvedimento uguale e contrario; c) l'automaticità della cessazione del curatore dell'ufficio è esclusa dalla necessità di tutelare i terzi, i quali, altrimenti, rimarrebbero ignari dell'evento. In giurisprudenza, invece, è certamente presente un orientamento, per così dire, restrittivo (Trib. Genova, 5 gennaio 1995, in Giur. merito 1995, 941; ma v. Cass. civ., 26 aprile 1994, n. 3942, in motivazione, e, espressamente nel senso della necessità del provvedimento di chiusura Trib. Roma, 1 dicembre 1999, in Giur. romana 2000, 74; in Arch. civ. 2000, 1247).

Il compenso al curatore dell'eredità giacente

L'accettazione dell'eredità e la conseguente chiusura del procedimento di eredità giacente non comportano la perdita del potere del giudice di liquidare il compenso dovuto al curatore, ma ne costituiscono la necessaria premessa, in quanto l'esercizio di detto potere non soggiace a limiti temporali ma dipende dalla conclusione dell'incarico affidato al curatore correlandosi alle attività all'uopo svolte dallo stesso (Cass. civ., 12 luglio 1991, n. 7731; in senso diverso, però, v. Cass. civ., 24 ottobre 1995, n. 11046).

Il principio del contraddittorio, sancito in linea generale dall'art. 101 c.p.c., deve essere applicato anche nei procedimenti di volontaria giurisdizione, tutte le volte che sia identificabile un controinteressato. Pertanto, il curatore dell'eredità giacente, per ottenere la liquidazione del compenso per l'incarico espletato, deve proporre l'istanza nei confronti degli aventi diritto all'eredità ed istituire nei loro riguardi il contraddittorio. In difetto, il procedimento di liquidazione è affetto da nullità e non produce effetto la pronuncia emessa dal giudice nei confronti dei contraddittori non sentiti (Cass. civ., 4 marzo 1977, n. 885; Cass. civ., sez. II, 13 agosto 1985, n. 4433; Cass. civ., 22 maggio 1986, n. 3409; Cass. civ., 21 luglio 1988, n. 4742). In particolare, il curatore dell'eredità giacente, per ottenere la liquidazione del compenso per l'incarico espletato, deve proporre l'istanza nei confronti degli aventi diritto all'eredità, ovvero, ove i chiamati vi abbiano rinunciato, degli ulteriori successibili, oltre che degli eventuali creditori dell'eredità e dei soggetti comunque interessati a proporre azioni nei confronti dell'eredità medesima, instaurando nei loro riguardi il contraddittorio (Cass. civ., 9 marzo 2006, n. 5082).

Il curatore dell'eredità giacente, nominato a norma dell'art. 528 c.c., va annoverato fra gli ausiliari del giudice, dovendo intendersi per tale il privato esperto in una determinata arte o professione ed in generale idoneo al compimento di atti che il giudice non può compiere da solo, temporaneamente incaricato di una pubblica funzione, il quale sulla base della nomina effettuata da un organo giurisdizionale secondo le norme del codice o di leggi speciali presti la sua attività in occasione di un processo in guisa da renderne possibile lo svolgimento o consentire la realizzazione delle particolari finalità (caratteristiche tutte riunite nella figura del curatore dell'eredità, ove si considerino l'impossibilità del giudice di provvedere da solo ai compiti di conservazione del patrimonio ereditario affidatigli dalla legge; la conseguente strumentalità delle funzioni del curatore, tenuto sotto giuramento, ex art. 193 disp. att. c.p.c., a custodire e amministrare fedelmente i beni dell'eredità, sotto l'attività di direzione e sorveglianza del giudice, da esplicarsi mediante appositi provvedimenti giudiziari; il provvedimento finale di chiusura della procedura, cui conseguono l'approvazione del rendiconto e la consegna all'erede del patrimonio convenientemente gestito). Pertanto, conformemente alla regola fissata dall'art. 52 disp. att. c.p.c., il compito di liquidare il compenso al curatore dell'eredità giacente spetta, in sede camerale, al giudice che lo ha nominato, senza che a ciò sia d'ostacolo la circostanza che la suddetta liquidazione, con l'indicazione del soggetto tenuto a corrispondere il compenso, attenga a diritti soggettivi, posto che questi ultimi, nell'ambito di quel procedimento ricevono tutela, sia in prime cure con la partecipazione allo stesso di ogni controinteressato sia in sede di gravame (Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 1997, n. 11619; v. pure Cass. civ., 29 ottobre 1998, n. 10776).

Si affermava in passato che i provvedimenti con i quali l'organo giurisdizionale competente in materia di procedimenti di giurisdizione volontaria, liquida le competenze spettanti alle persone nominate titolari di uffici privati con funzioni amministrative e tutelari (nella specie si trattava per l'appunto del curatore di eredità giacente), hanno carattere giurisdizionale decisorio, in quanto diretti a dirimere l'eventuale conflitto d'interessi tra la persona titolare dell'ufficio privato e coloro che sono tenuti a corrispondere il relativo compenso. Tali provvedimenti non sono suscettibili di impugnazione mediante opposizione dinanzi allo stesso giudice che li ha emessi o all'organo giurisdizionale cui questi appartiene, in analogia delle norme che regolano l'ordinario procedimento di ingiunzione, mancando essi dell'elemento essenziale costituito dall'ingiunzione di pagamento emesso nei confronti dei soggetti nello stesso espressamente indicati ma sono impugnabili con il ricorso per cassazione a norma dell'art. 111 Cost. (Cass. civ., Sez. Un., 18 settembre 1970, n. 1581; Cass. civ., 17 aprile 1981, n. 2329; Cass. civ., 13 agosto 1985, n. 4433; Cass. civ., 29 ottobre 1987, n. 8000).

In seguito si è tuttavia chiarito che la situazione è mutata dopo l'intervento del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. Tale decreto, innanzitutto, ha formalmente previsto che «ausiliario del magistrato» è non solo il perito, ovvero il consulente tecnico, l'interprete e il traduttore, ma anche «qualunque altro soggetto competente, in una determinata arte o professione o comunque idoneo al compimento di atti, che il magistrato o il funzionario addetto all'ufficio può nominare a norma di legge» (art. 3, lett. n). La stessa fonte, inoltre, ha previsto che la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del giudice è effettuata con decreto motivato (art. 168) e che avverso questo decreto «il beneficiario e le parti processuali, compreso il pubblico ministero», entro venti giorni dall'avvenuta comunicazione possono proporre opposizione al presidente dell'ufficio giudiziario competente, nelle forme del processo in materia di onorari degli avvocati, che si conclude con decisione monocratica (art. 170). La conseguenza che ne deriva, quindi, è che contro il provvedimento di liquidazione del compenso emesso ai sensi di detto art. 168 non è ammissibile il ricorso per cassazione, in quanto il provvedimento stesso non può considerarsi definitivo in ragione della possibilità di esperire l'impugnazione di cui all'art. 170 (Cass. civ., 5 maggio 2009 n. 10238), la quale si conclude con ordinanza che è invece, essa sì, soggetta al ricorso straordinario (Cass. civ., 29 gennaio 2007, n. 1887; Cass. civ., 14 febbraio 2011, n. 3633; Cass. civ., 25 novembre 2011, n. 24959; da ult. Cass. civ., 10 dicembre 2012, n. 22490).

Riferimenti

Di Marzio, I procedimenti di successione, Giuffrè, Milano, 2002.

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