Il movente solidaristico e assistenziale verso i dipendenti nel reato di omesso versamento delle ritenute certificate

Gianluca Bergamaschi
18 Aprile 2018

La questione in esame è quella del valore scriminante dell'impossibilità di adempiere nei reati omissivi e, nello specifico, se possa escludersi il dolo generico ...
Massima

Può escludersi il dolo generico del soggetto agente, per mancanza della consapevolezza dell'illiceità dell'omesso versamento delle ritenute certificate, ex art. 10-bis del d.lgs. 74/2000, quando la decisione di pagare dipendenti in preferenza rispetto al fisco, derivi dalla convinzione che gli stessi abbisognino dell'immediata corresponsione (non di somme di denaro di per sé, bensì) di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie.

Il caso

La vicenda è un classico del genere, ossia quella di un amministratore che preferisce pagare i dipendenti anziché il fisco, cosicché viene condannato sia in primo grado sia in appello.

Ne consegue il ricorso in cassazione, in cui la difesa lamenta la violazione dell'art. 10-bis del d.lgs. 74/2000 e degli artt. 45 (Caso fortuito o forza maggiore) e 54 (Stato di necessità) c.p., imperniando il gravame, come già l'appello, attorno alla mancanza del dolo delittuoso e dell'antigiuridicità della condotta.

Si fa notare, infatti, che l'imputata era subentrata dopo l'anno fiscale considerato, per cui, senza aver potuto fare per tempo i necessari accantonamenti, si era trovata in crisi di liquidità ed era stata costretta a scegliere di omettere i versamenti fiscali al fine di pagare i dipendenti per non privare gli stessi e le loro famiglie dei mezzi di sostentamento.

Ne consegue l'impossibilità di una diversa condotta per l'incolpevole indisponibilità della somma necessaria, con la ricorrenza della causa di forza maggiore o dello stato di necessità, non avendo, per altro, alcuna disponibilità di patrimonio personale.

A fronte di ciò, la Cassazione sembra valorizzare il movente addotto, ritenendolo, innanzitutto, travisato dalla Corte d'appello, che lo interpretò come una classica “libera” scelta per assicurare la continuità aziendale, tale, quindi, da escludere l'impossibilità di adempiere e da costituire prova dell'elemento psicologico.

La Corte, infatti, osserva che, dopo un primo periodo di estrema rigidità, la giurisprudenza ha aperto alla possibilità che gli omessi versamenti per gravissime crisi di liquidità, possano non integrare il reato, o sotto il profilo dell'elemento soggettivo o sotto quello della forza maggiore.

In ispecie, ritiene di condividere l'affermazione della Cass. pen., Sez. III, n. 8352/2015, ove si sostiene che il dolo non è integrato dalla mera consapevolezza della condotta omissiva ma dalla condotta omissiva attuata nella consapevolezza della sua illiceità, cosicché l'elemento psicologico del reato non consegue al mancato pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole della illiceità della condotta rappresentata dall'omesso pagamento, che ben potrebbe essere esclusa dal fine di non privare i dipendenti e le loro famiglie dei mezzi di sostentamento.

Dal che l'annullamento con rinvio, acciocché la Corte di appello verifichi compiutamente tale possibilità.

La questione

La questione in esame è sempre quella del valore scriminante dell'impossibilità di adempiere nei reati omissivi e, nello specifico, se possa escludersi il dolo generico dell'art. 10-bis, quando l'inadempimento fiscale derivi dalla crisi di liquidità aziendale che “costringe” il legale rappresentante a pagare altri creditori (nello specifico, il credito da lavoro dei dipendenti), restando poi scoperto rispetto al fisco.

Nella vicenda concreta, poi, viene valorizzato il peso che il movente, ossia il motivo che sostiene lo scopo dell'agire, può assumere per l'esclusione della consapevolezza dell'illiceità della condotta.

Le soluzioni giuridiche

A dispetto di quanto sembra ritenere la sentenza in commento, però, non appare rinvenibile, nella giurisprudenza di legittimità, un vero e proprio pluralismo di soluzioni.

La Cassazione, infatti, ha assunto un atteggiamento di sostanziale chiusura verso la possibilità che la crisi di liquidità giustifichi gli omessi versamenti fiscali.

In tale ottica, rileva menzionare le Cass.pen., Sez. unite. nn. 37424/2013 e 37425/2013, in cui si afferma che l'elemento psicologico di tali reati è il dolo generico e non quello specifico e che la prova dello stesso è nel mero rilascio della certificazione al sostituito e nella mera presentazione della dichiarazione annuale del sostituto o dell'Iva.

Inoltre, affermano che sussiste un obbligo di accantonare le somme dovute all'Erario e che la crisi di liquidità non può escludere la colpevolezza, salvo non si dimostri che non dipenda dalla scelta di non far fronte all'obbligo.

Significativa è anche la Cass.pen., Sez. III, n. 10813/2014, per la quale, l'invocata mancanza di dolo per l'assoluta impossibilità di adempiere, potrebbe anche essere riconducibile alla “forza maggiore”, a patto che la crisi non sia imputabile a chi abbia omesso il versamento e che non sia altrimenti fronteggiabile con il ricorso ad idonee misure, vale dire che non sia altrimenti possibile reperire le risorse necessarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli al patrimonio personale dell'agente, mentre non gli giova la preferenza accordata al pagamento dei dipendenti, in quanto scelta imprenditoriale che non prova la crisi e l'illiquidità.

È, pure, menzionabile, la Cass.pen., Sez. III, n. 7429/2015, che esclude la causa di forza maggiore per l'illiquidità dovuta ai mancati pagamenti dei debitori aziendali, perché ciò è insito nel rischio di impresa e non può ritenersi del tutto imprevedibile; inoltre esclude lo stato di necessità perché l'esigenza di pagare gli stipendi, non costituisce il “pericolo di un danno grave alla persona”.

Infine, si noti la Cass. pen., Sez. III, n. 8352/2015, la quale scrive che la causa di forza maggiore sarebbe in astratto concepibile, in quanto causa di giustificazione generale, ma in concreto è meramente virtuale, trattandosi di una vis cui resisti non potest, a causa della quale l'uomo non agit sed agitur, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento ed escludere la suitas della condotta; situazione a cui non è riconducibile la crisi economica, in cui vi è sempre un margine di scelta, cosicché la mancanza di liquidità frutto di una qualsiasi scelta di politica aziendale, esclude sempre la scusante.

Su tale linea si colloca pressoché interamente la giurisprudenza di legittimità (Cass.pen., Sez. III, n. 20266/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 2614/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 5467/2014; Cass.pen., Sez. III, n. 37730/2014; Cass.pen., Sez. III, n. 51436/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 1623/2016; Cass.pen., Sez. III, n. 9936/2016; Cass.pen., Sez. III, n. 38722/2016; Cass. pen., Sez. III, n. 9455/2018), salvo qualche apertura concepita in punto di fatto e in sede di accoglimento delle censure alla motivazione e di annullamento con rinvio (Cass.pen., Sez.III, n. 5905/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 15176/2014; Cass.pen., Sez. III, n. 40352/2015).

Osservazioni

La sentenza in commento, si inserisce nel filone di quelle che si sforzano di uscire dallo scafandro paraideologico in cui la Corte si è rinchiusa e dal quale si rifiuta di prendere atto che l'endemica e strutturale crisi economica è una di quelle circostanze di fatto capaci di mutare anche i connotati giuridici delle fattispecie, disvelandone aspetti ed epifenomeni prima rimasti ascosi.

D'altro canto, di primo acchito, lo sforzo della Corte, non appare coronato da un travolgente successo.

In effetti, non è chiaro in base a quale meccanismo il movente (il non far mancare i mezzi di sussistenza ai dipendenti), di regola irrilevante circa il dolo generico, possa, in questo caso, essere capace di escludere la consapevolezza dell'illiceità della condotta e, quindi, il dolo stesso.

Del resto, la stessa espressione consapevolezza dell'illiceità della condotta, appare equivoca, infatti, sembra quasi evocare l'ignoranza della legge penale che, come è noto, non scusa, salvo i casi d'ignoranza inevitabile, ma non sembra questo il caso.

A questo punto, però, non appare azzardato accostare, in chiave interpretativa, le affermazioni della sentenza con quanto dallo scrivente sostenuto proprio su questa rivista (Reato omissivo proprio e il valore scusante dell'impossibilità di adempiere, pubblicato il 16 gennaio 2017).

Chi scrive, infatti, ritiene che, in base alla teoria generale del reato omissivo doloso, la possibilità di adempiere sia un elemento costitutivo negativo del reato, la cui ricorrenza condiziona l'esigibilità della condotta precettata e la sanzionabilità della sua omissione.

Ciò non può non influire sulla qualificazione dell'elemento psicologico, giacché, per effetto dell'interazione tra il principio d'inesigibilità e la struttura omissiva delle norme, il dolo delittuoso, semanticamente descritto come generico, si risolve nella coscienza di ledere il bene giuridico tutelato, da intendersi – e qui può innestarsi il discorso sulla consapevolezza dell'illiceità della condotta, fatto in sentenza – non come il mero interesse del soggetto passivo ad ottenere un adempimento, ma come l'interesse a reprime solo le condotte deliberatamente volte a non fare o dare il dovuto, pur potendolo fare.

Cosicché il dolo si configura come un dolo generico rafforzato, perché – pur rimanendo formalmente generico, in quanto non descritto come un fine ulteriore rispetto alla realizzazione degli elementi tipici del reato –, condivide con il dolo specifico l'esigenza della piena intenzionalità delittuosa, intesa non solo come realizzazione degli elementi tipici, ma pure come orientamento degli stessi verso un fine preciso, ossi quello di sottrarsi ad un obbligo di legge sanzionato penalmente, il tutto, però, in modo diretto, ossia con esclusione del dolo indiretto o eventuale.

In sostanza, l'idea che promana dalla sentenza, ossia che un particolare tipo di movente, anziché un altro, possa escludere l'illiceità della condotta, inclina il ragionamento verso la soluzione supra propugnata, ossia di una natura ibrida del dolo, giacché la valorizzazione del movente pertiene alla nozione di dolo specifico, il quale serve proprio a dare rilevanza giuridica agli intimi motivi della condotta.

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