416-bis c.p.: lo scorrere del tempo in custodia carceraria non è sufficiente a far venir meno le esigenze cautelari

Andrea Pellegrino
04 Maggio 2018

Con la sentenza che si commenta la Suprema Corte, dopo aver ribadito l'ineludibilità dell'osservanza della doppia presunzione ma anche della rilevanza del tempo di commissione del fatto (ancor di più se “silente”), opera, tuttavia, un decisivo distinguo: nell'ipotesi di reato istantaneo...
Massima

L'attenuazione o l'esclusione delle esigenze cautelari – relativamente al reato permanente di cui all'art. 416-bis c.p. – non possono essere desunte dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura o dall'osservanza puntuale delle relative prescrizioni ma solo dalla rescissione del legame con il sodalizio criminale, ovvero dal fatto che quest'ultimo sia stato debellato o si sia sciolto. In caso contrario, deve applicarsi la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. non tanto per la prognosi negativa in relazione al pericolo di recidiva di futuri reati, quanto per evitare che l'indagato, ritornando in libertà, perseveri nella condotta criminosa addebitatagli, ossia continui ad implementare – anche con la sola “messa a disposizione” – l'operatività dell'associazione criminale della quale continua a far parte.

Il caso

Il tribunale del riesame di Napoli aveva rigettato l'appello proposto dall'indagato contro l'ordinanza con la quale il Gip presso il medesimo tribunale aveva respinto l'istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere emessa per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. ritenendo, da un lato, la irrilevanza dell'unico elemento difensivo allegato relativo al mero decorso del tempo ed evidenziando, dall'altro, come il clan camorristico di appartenenza dell'imputato fosse ancora ampiamente operativo. Nel giudizio di merito, il tribunale, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato l'imputato in relazione all'incolpazione per la quale era stato emesso il titolo cautelare, essendosi dimostrato come lo stesso avesse rivestito, in seno all'associazione, un ruolo di estrema rilevanza, occupandosi degli spostamenti dei “capi” durante la latitanza, fornendo assistenza nell'esecuzione di efferati delitti, provvedendo alla distribuzione dei compensi ai partecipi e curando la raccolta dei proventi destinati ai vertici dell'organizzazione.

La questione

Si dibatte se il mero decorso del tempo – in modo ininterrotto - in custodia cautelare sia un elemento di per sé sufficiente e idoneo a far ritenere venute meno le esigenze cautelari in ordine al reato di cui all'art. 416-bis c.p. La risposta deve necessariamente “partire” dall'esame della “doppia presunzione” di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. relativamente al reato di cui all'art. 416-bis c.p.: la prima, relativa (di sussistenza delle esigenze cautelari), la seconda, assoluta (di esclusiva adeguatezza della misura custodiale massima).

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento alla presunzione relativa, la Suprema Corte aveva già ritenuto in passato come la stessa fosse superabile unicamente nell'ipotesi di riscontrati segnali di rescissione del legame del soggetto con il sodalizio criminale (Cass. pen., Sez. V, 12 luglio 2016, dep. 16 novembre 2016, n. 48287; Cass. pen., Sez. VI, 20 aprile 2016, dep. 31 maggio 2016, n. 23012) ovvero nell'ipotesi in cui l'associazione di appartenenza fosse stata debellata o sciolta. La ratio sottostante di tale indirizzo viene rinvenuta nella nota stabilità delle mafie storiche e nel fatto che la gravità indiziaria della partecipazione “porta con sé” almeno due conseguenze: la prima, in ordine alla superfluità della valutazione degli attributi dell'attualità e della concretezza del pericolo di reiterazione, essendo questi ultimi ritenuti impliciti alla verifica della ragionevole probabilità di colpevolezza (Cass. pen., Sez. II, 20 gennaio 2016, dep. 16 marzo 2016, n. 11034; Cass. pen., Sez. III, 1 aprile 2014, dep. 24 giugno 2014, n. 27439); la seconda, quella della totale irrilevanza del dato temporale (sia con riferimento alla durata intrinseca della custodia che, prima ancora, all'intervallo temporale, tra fatto e decorrenza della misura), con conseguente esonero del giudice da ogni motivazione sul punto. Detto orientamento si pone in conformità sia alla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 450/1995, n. 265/2010, n. 231/2011, n. 110/2012) che a quella europea (Corte Edu, 6 novembre 2013, Pantano c. Italia).

Detta giurisprudenza viene resistita da altra che, sulla base della previsione normativa dell'art. 292, comma , lett. c) c.p.p., ritiene che il dato temporale del tempo trascorso dalla commissione del reato debba valere anche nei confronti dell'indagato di cui all'art. 416-bis c.p., tanto più in presenza di un lasso temporale considerevole tra fatti e misura cautelare, circostanza che impone al giudice di motivare comunque in ordine alla rilevanza “in negativo” del tempo trascorso sull'esistenza e sull'attualità delle esigenze cautelari (Cass. pen., Sez. V, 23 settembre 2016, dep. 13 dicembre 2016, n. 52628; Cass. pen., Sez. VI, 30 marzo 2017, dep. 28 aprile 2017, n. 20304; Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2017, dep. 14 giugno 2017, n. 29815; Cass. pen., Sez. VI, 11 maggio 2017, dep. 22 maggio 2017, n. 25517) e dovendosi in ogni caso considerare il c.d. “tempo silente”, ossia quel periodo, successivo alla commissione del fatto, durante il quale l'indagato, in stato di libertà, non ha commesso alcun reato.

Con la sentenza che si commenta la Suprema Corte, dopo aver ribadito l'ineludibilità dell'osservanza della doppia presunzione ma anche della rilevanza del tempo di commissione del fatto (ancor di più se “silente”), opera, tuttavia, un decisivo distinguo: nell'ipotesi di reato istantaneo, il tempo silente costituisce un elemento presuntivo favorevole all'indagato e la valutazione della pericolosità del soggetto va effettuata anche tenendo conto di questo; nell'ipotesi di reato permanente, la situazione è ben diversa, a ragione della perduranza nel tempo della condotta. In questo secondo caso, diventa decisiva la contestazione: se la stessa è “chiusa”, ossia cessata ad una determinata data, il reato permanente, ai fini della sussistenza delle esigenze cautelari, è parificabile ad un reato istantaneo, con le conseguenze valutative appena esposte; se, invece, il reato permanente è a contestazione “aperta”, ossia duri nell'attualità, la problematica del tempo silente (che finisce, di fatto, per essere negato) rimane del tutto estranea: in questo caso, la doppia presunzione di cui all'art. 275, comma 3 c.p.p. esplica tutta la sua forza ed il suo superamento potrà avvenire solo con la dimostrazione che il legame (di qualsiasi tipo) con l'associazione sia stato rescisso ovvero che l'associazione stessa sia stata debellata o sciolta definitivamente.

Osservazioni

La sentenza ha cura di precisare che il manifestato principio di diritto ha riguardo alla fattispecie di indagato attinto da misura custodiale mentre si trova in stato di libertà.

Diversa è, invece, la situazione che si può configurare quando la misura cautelare attinga soggetto già ristretto per altra causa, ovvero quando è dall'esecuzione della misura alla data di presentazione dell'istanza di revoca che sia decorso un significativo lasso temporale. In entrambi i casi, si è in presenza di un tempo silente: lo stesso tuttavia, non appare volontario, ma coartato e, quindi, imposto dalla detenzione. Al riguardo, nel negare la valenza del tempo silente “carcerario”, viene ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'attenuazione o l'esclusione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura o dall'osservanza puntuale delle relative prescrizioni, dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all'inizio del trattamento cautelare (Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2010, dep. 27 aprile 2010, n. 16425; Cass. pen., Sez. II, 9 ottobre 2013, dep. 17 gennaio 2014, n. 1858; Cass. pen., Sez. III, 15 settembre 2015, dep. 27 ottobre 2015, n. 43113). Il tempo carcerario ha infatti, una valenza neutra, essendo la detenzione finalizzata proprio ad evitare che il detenuto possa continuare a delinquere; inoltre, l'art. 299 c.p.p. richiede, per la revoca della misura, la mancanza originaria o “per fatti sopravvenuti” delle esigenze cautelari, avendo il legislatore preso in considerazione il dato temporale trascorso in carcere (o agli arresti domiciliari) solo con riguardo alla durata massima dei termini di custodia cautelare (art. 303 c.p.p.).

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