Illegittimità costituzionale dell'art. 656 c.p.p.: le prospettive tracciabili dall'intervento sulla soglia di pena

14 Maggio 2018

La Corte costituzionale dichiara illegittimo l'art. 656, comma 5, c.p.p. nella parte in cui prevede, per la sospensione dell'ordine di esecuzione, una soglia di pena inferiore a quella prevista per l'accesso all'affidamento in prova “allargato”. Il sistema postula un tendenziale parallelismo fra i presupposti della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative.
Abstract

La Corte costituzionale dichiara illegittimo l'art. 656, comma 5, c.p.p. nella parte in cui prevede, per la sospensione dell'ordine di esecuzione, una soglia di pena inferiore a quella prevista per l'accesso all'affidamento in prova “allargato”. Il sistema postula un tendenziale parallelismo fra i presupposti della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative. Ogni ipotesi derogatoria è sottoposta a uno stretto scrutinio di legittimità. Le vigenti ipotesi di esclusione della sospensione presentano profili di criticità suscettibili di approfondimento. Il criterio evocato per l'esercizio del sindacato di ragionevolezza richiede un giudizio di bilanciamento il cui esito, in concreto, appare compatibile con un unico approdo, quello di allineare le esclusioni della sospensione dell'ordine di esecuzione alle ipotesi di inammissibilità delle misure alternative.

Il quadro normativo di riferimento

La Consulta affronta finalmente il tema della soglia di applicabilità della sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656, comma 5, c.p.p. e della permanente, legittima operatività del limite dei tre anni di pena, anche a seguito dell'introduzione – per effetto dell'art. 3, comma 1, lett. c), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni in l. 21 febbraio 2014, n. 10 – del c.d. affidamento allargato, disciplinato dall'art. 47, comma 3-bis, ord. penit., ammissibile per pene fino a quattro anni.

La nuova figura di affidamento in prova al servizio sociale, per i suoi estesi presupposti, che la rendono applicabile a qualsiasi condannato che abbia serbato, nell'anno precedente alla richiesta, anche in stato di libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio prognostico idoneo a fondare la misura, ha sostanzialmente elevato il limite di ammissibilità dell'istituto a quattro anni.

L'intervento normativo ha dunque dato luogo ad un disallineamento tra tale limite e la soglia di applicabilità della sospensione dell'ordine di esecuzione prevista dall'art. 656, comma 5, c.p.p., rimasta invariata a tre anni.

Ne scaturiva che la fascia di condannati tenuti ad espiare una pena detentiva compresa fra tre e quattro anni, pur potendo legittimamente aspirare alla misura alternativa, non avrebbe potuto giovarsi della possibilità di accedervi direttamente dallo stato di libertà, trovandosi costretta a subire la cattura e l'accompagnamento in carcere al passaggio in giudicato della sentenza e ad attendere in vinculis la decisione del tribunale di sorveglianza.

Il mancato coordinamento aveva da subito sollevato perplessità ed era stato segnalato già in sede di parere ex art. 10, l. 24 marzo 1958, n. 195 dal C.S.M.

In giurisprudenza, a fronte di un primo tentativo di interpretazione evolutiva teso a elevare il limite della sospensione dell'ordine di esecuzione a quattro anni (Cass. pen., Sez. feriale, 24 agosto 2017, n. 39889; Cass. pen., Sez. I, 9 novembre 2016, n. 53426; Cass. pen., Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864; Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848), andava consolidandosi l'orientamento contrario, che giudicava non superabile in via meramente interpretativa il dato testuale dell'art. 656, comma 5, c.p.p., che continuava a contemplare esplicitamente il limite di tre anni (Cass. pen., Sez. I, 30 novembre 2017, n. 1784; Cass. pen., Sez. I. 21 settembre 2017, n. 46562

L'ordinanza di rimessione

Anche il giudice remittente muoveva dall'impraticabilità di un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, richiamando il principio secondo cui «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (Corte cost., n. 78 del 2012).

Dubitava quindi della costituzionalità dell'art. 656, comma 5, c.p.p., sotto il duplice profilo della violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.).

La sospensione dell'ordine di esecuzione – sempre secondo il giudice remittente – è chiaramente ispirata alla ratio di impedire l'ingresso in carcere ai condannati in grado di ottenere l'ammissione a una misura alternativa alla detenzione ed è, nel suo concreto assetto normativo, strutturalmente e funzionalmente collegata all'accesso del condannato a tali misure, con le quali condivide il duplice obiettivo di mirare, da un lato, alla deflazione carceraria, dall'altro, all'attuazione della funzione rieducativa e special-preventiva della pena, sul comune presupposto che i rispettivi requisiti individuino un'area di presumibile ridotta pericolosità sociale del condannato.

La stessa ratio connota anche il nuovo istituto dell'affidamento “allargato”, la cui unica peculiarità, quella di richiedere un periodo di osservazione più esteso, non varrebbe a conferirgli significativi caratteri di eterogeneità, rispetto alla figura – per così dire – ordinaria, trattandosi in entrambi i casi di misure fondate sulla verifica della condotta e della personalità del reo. Dunque la mancata estensione al primo delle stesse modalità di accesso dalla libertà previste per il secondo sarebbe stata priva di ragionevole giustificazione.

Quanto all'ulteriore profilo della violazione della funzione rieducativa della pena, si osservava che la necessaria previsione del passaggio in carcere prima dell'accesso alla misura alternativa rappresenta un'interruzione idonea a vanificare le positive esperienze risocializzanti già registrate in libertà.

La difesa dell'Avvocatura generale dello Stato

L'Avvocatura generale dello Stato, in difesa della disposizione censurata, rivendicava all'ambito della discrezionalità legislativa la scelta di individuare i limiti di applicabilità della sospensione dell'ordine di esecuzione, sostenendo che l'esclusione dei condannati a pene detentive superiori a tre anni, per quanto legittimati ad aspirare all'affidamento “allargato”, si sarebbe giustificata per il maggior grado di pericolosità desumibile dalla più alta entità della pena espianda.

La necessaria previsione, prima dell'accesso alla misura alternativa, di un periodo di carcerazione, da ritenersi presumibilmente breve in quanto limitato al tempo strettamente necessario per la decisione del tribunale di sorveglianza, inoltre, non avrebbe compromesso la funzione rieducativa della pena.

L'Avvocatura sosteneva altresì che l'istituto dell'affidamento “allargato”, per la sua origine storica, legata all'esigenza di contrastare il sovraffollamento carcerario a seguito della nota sentenza pilota di condanna della Corte Edu 8 gennaio 2013, Torreggiani ed altri c/ Italia, si sarebbe connotato per la sua accentuata funzione deflattiva e sarebbe stato precipuamente indirizzato alla popolazione detenuta, non potendo quindi essere equiparato alla preesistente figura dell'affidamento “ordinario”.

Il valore della coerenza normativa secondo la Corte

Il percorso argomentativo della Corte si incentra sull'osservazione che il tendenziale parallelismo tra i presupposti della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative è immanente al sistema, e tratto di imprescindibile coerenza intrinseca di esso.

Il meccanismo normativo delineato dall'art. 656, comma 5, c.p.p. nasce all'indomani della sentenza n. 569 del 1989 della Corte costituzionale, che aveva esteso la facoltà di accedere all'affidamento in prova, fino ad allora riservato ai detenuti, anche ai condannati liberi e si connota fin dall'origine per la coincidenza fra il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione e quello che delimita l'accesso alla misura alternativa, secondo la Corte proprio per evitare l'incongruenza di disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe potuto poi godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere.

La stessa simmetria ha successivamente permeato anche l'evoluzione storica del sistema, attraverso il costante adeguamento della soglia della sospensione operato in occasione dell'innalzamento dei limiti di accesso alle misure alternative, sia quando è stato portato a sei anni quello dell'affidamento c.d. terapeutico, sia quando è stato alzato a quattro anni quello della detenzione domiciliare c.d. umanitaria.

L'analisi conduce la Consulta ad affermare che la sospensione dell'ordine di esecuzione prevista dall'art. 656, comma 5, c.p.p. presenta carattere complementare rispetto alla disciplina dell'accesso alle misure alternative alla detenzione, un principio che viene più volte ribadito, parlando di natura servente e di normativa ancillare.

Non si esclude la possibilità che il Legislatore introduca discrezionalmente ipotesi derogatorie, tuttavia – ed è questo l'argomento cardine della sentenza – queste, per i potenziali profili di incoerenza normativa che presentano, sono soggette ad un controllo di legittimità costituzionale particolarmente stretto.

L'esito di questo controllo, nel caso di specie, si articola su pochi e semplici passaggi e prescinde invero dall'analisi dell'argomento speso dall'Avvocatura generale dello Stato circa la maggiore pericolosità sociale desumibile dalla più alta entità della pena espiabile in affidamento “allargato”.

Il rilievo determinante è che la nuova misura è destinata sia ai detenuti che ai condannati in stato di libertà, come reso palese dal fatto che la pena da espiare può anche non essere residuo di maggior pena e che l'osservazione comportamentale può avvenire anche in stato di libertà.

É dunque l'architettura normativa della misura, accessibile indifferentemente dalla detenzione o dalla libertà, che stride con la necessaria previsione del passaggio in carcere, destinato inevitabilmente a tradursi in una significativa riduzione dello spazio applicativo riservato dallo stesso legislatore alla misura alternativa.

Potenzialità espansive del sindacato di ragionevolezza

L'accoglimento del profilo di illegittimità costituzionale legato al parametro dell'art. 3 Cost. consente alla Consulta di dichiarare assorbita l'ulteriore censura fondata sull'art. 27, comma 3, Cost., una scelta deludente per chi auspicava una maggior valorizzazione del principio della funzione rieducativa della pena, indubbiamente suscettibile di incidere sul sistema ben più a fondo del mero sindacato di ragionevolezza.

Nella fattispecie, sarebbe stato agevole constatare che il condannato interessato dal vaglio sottoposto alla Corte, come si desume dall'ordinanza di rimessione, dopo aver trascorso un breve periodo in stato di detenzione, era stato a lungo sottoposto a misure cautelari non detentive, evidentemente rivelatesi adeguate al contenimento del pericolo di fuga e di recidiva, visto che non erano intervenuti aggravamenti.

Difficilmente pertanto avrebbe potuto negarsi che il ripristino della carcerazione, per effetto di un mero automatismo e a dispetto dei concreti risultati del percorso cautelare seguito all'intervento giurisdizionale, rappresentasse un inammissibile regresso del trattamento di risocializzazione.

Tuttavia, a differenza di altri interventi in cui il sindacato di ragionevolezza si limitava a colpire il diverso trattamento tra fattispecie strutturalmente connotate da elementi di analogia (come nel caso del furto con strappo e della rapina semplice, interessato dalla sentenza n. 125 del 2016), questa decisione si caratterizza per un'interessante apertura nella direzione di una complessiva rivalutazione dell'assetto dell'art. 656 c.p.p.

L'affermazione della necessaria corrispondenza tra i presupposti della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative, pur prendendo le mosse dall'allineamento dei rispettivi limiti di pena, è infatti proiettata anche sulle ipotesi derogatorie previste dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., cui la Corte fa esplicito riferimento per confermare che rientrano nella discrezionalità del Legislatore ma sono anch'esse soggette ad uno stretto controllo di costituzionalità.

Proprio a queste ultime si riferisce la decisione commentata quando, con una certa enfasi, sembra quasi formulare una riserva verso possibili futuri sviluppi giurisprudenziali: l'esito dello scrutinio di legittimità costituzionale su queste ed altre ipotesi analoghe dipende dall'adeguatezza degli indicatori che nella visione del legislatore dovrebbero opporsi all'esigenza della coerenza sistematica, fino a poter prevalere su di essa.

I criteri dello scrutinio

L'affermazione appena richiamata, che intende fornire anche un'indicazione sui criteri destinati a governare l'evocato scrutinio, si completa nell'illustrazione della ratio delle vigenti preclusioni alla sospensione previste dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., che la Corte riconduce alla particolare pericolosità di cui, secondo il Legislatore, sono indice i reati accertati a carico del condannato ovvero alla ricorrenza di situazioni che (non solo per la gravità del reato) denotano come meramente residuale la prospettiva di accesso alle misure alternative per le stringenti condizioni a tal fine richieste dalla loro propria disciplina.

Quest'ultimo paradigma è direttamente enucleato dalla previsione dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., nella parte che rinvia al catalogo dei reati previsto dall'art. 4-bis ord. penit.

Qui la ratio dell'esclusione della sospensione risiederebbe nella circostanza che i condannati per quella categoria di delitti, proprio in ragione della previsione dell'art. 4-bis cit., sarebbero tendenzialmente esclusi dalle misure alternative, per cui difetterebbe la funzione propedeutica rispetto alla loro applicazione.

A rigore, non si tratta di eccezioni alla regola della coerenza sistematica ma di esclusioni imposte da quella stessa regola.

É tuttavia agevole osservare che la premessa, declinata con riguardo all'intero perimetro dell'art. 4-bis ord. penit. si rivela particolarmente semplificatoria.

Nell'ambito di quella disposizione sono infatti diversamente disciplinate plurime categorie di reati. Solo per quelli c.d. di prima fascia, elencati dal comma 1, è prevista effettivamente una tendenziale esclusione dall'accesso alle misure alternative (se tale può considerarsi la prevista condizione della collaborazione con la giustizia). Diversamente, per i c.d. reati di seconda fascia, individuati dal comma 1-ter, sebbene si richiedano requisiti più stringenti (assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva) e un'istruttoria più approfondita (necessità di acquisire dettagliate informazioni dal Questore), l'accesso alle misure alternative non è precluso né in assoluto né in misura tale da configurarlo come residuale. E ancora, per i sex offenders, la previsione di una necessaria, prolungata e qualificata, osservazione scientifica della personalità (comma 1-quater), esperibile solo nel contesto carcerario, preclude l'accesso alle misure alternative dallo stato di libertà.

Dunque, se si guarda unicamente al venir meno della sua funzione servente, l'esclusione della sospensione risulterebbe giustificata per i reati di prima fascia e per i sex offenders ma non invece per i reati di seconda fascia.

Per questi ultimi e per le ulteriori ipotesi di reato specificamente contemplate dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., viene dunque in rilievo l'altro parametro giustificativo individuato dalla Consulta nella loro attitudine a costituire indice di particolare pericolosità sociale.

Si tratta di ipotesi di cesura rispetto al punto di equilibrio ottimale del sistema, rappresentato dal tendenziale collegamento della sospensione dell'ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative, giustificate da ragioni ostative che appaiono prevalenti.

É a queste che si rivolge lo scrutinio di costituzionalità e risulta, a tal punto, chiaro che il criterio dell'adeguatezza degli indicatori allude a indicatori di pericolosità sociale, il cui vaglio non può che riguardare il fondamento delle presunzioni sottese e la loro idoneità, in un giudizio di bilanciamento, a prevalere sul valore della coerenza del sistema.

In conclusione

Ma è davvero possibile, attraverso un giudizio di ragionevolezza, sindacare il fondamento di presunzioni normative di pericolosità sociale che impongano di avviare la fase dell'esecuzione della pena con l'automatica carcerazione del condannato anche quando questi potrebbe legittimamente aspirare ad una misura alternativa?

Forse non è un caso che, una volta poste queste premesse, la Corte abbia poi preferito percorrere un diverso itinerario nella decisione della questione sottopostale, eludendo la prospettiva dell'Avvocatura generale dello Stato che ravvisava nella elevata entità della pena espiabile in affidamento “allargato” una ragionevole presunzione di pericolosità sociale idonea a giustificare la necessità del passaggio in carcere.

L'interrogativo richiede che ci si soffermi sull'altro termine del giudizio di bilanciamento, domandandosi ulteriormente se il fondamento della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative, come prospettato nel caso di specie dal giudice remittente, risieda effettivamente in una contrapposta presunzione di minore pericolosità sociale del condannato.

La risposta è certamente negativa. Le misure alternative sono tutte ancorate a un concreto giudizio sulla personalità del condannato e sull'idoneità delle adottande restrizioni al contenimento della sua pericolosità sociale e anche la disciplina della sospensione dell'ordine di esecuzione, per quanto necessariamente incentrata sull'automatismo, in quanto destinata ad essere applicata dal pubblico ministero prima dell'intervento giurisdizionale, trova un fondamentale momento di equilibrio nella previsione dell'art. 656, comma 9, lett. b), c.p.p., che la preclude ai condannati sottoposti a custodia cautelare.

Quest'ultima disposizione, in sostanza, recupera il giudizio espresso in sede cautelare dal giudice della cognizione circa il pericolo di fuga o di recidiva, deducendone l'esigenza di mantenere il medesimo elevato grado di contenimento e al contempo una prognosi tendenzialmente negativa sulla ammissione all'esecuzione extra-muraria.

Invertendo la prospettiva, il fatto che il condannato, all'avvio della fase esecutiva, non sia sottoposto a custodia cautelare, a meno che non si tratti di persona scarcerata per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, implica che il giudice della cognizione abbia ritenuto insussistenti o contenibili con misure non carcerarie, sia il pericolo di fuga che il pericolo di reiterazione del reato e altresì che tale valutazione non si sia rivelata infondata, per effetto di accadimenti indicativi di segno contrario, per tutta la durata del giudizio di cognizione.

Non è dunque un presunzione astratta di non pericolosità incentrata su parametri formali quali l'entità della pena ed il titolo del reato, che sorregge la sospensione dell'ordine di esecuzione, ma la valorizzazione di una condizione che postula un concreto accertamento giurisdizionale sull'effettiva assenza di pericolosità.

Ne discende che tutte le esclusioni della sospensione che operano nei confronti di condannati liberi o corrispondono ad ipotesi di inammissibilità delle misure alternative e sono quindi imposte dalla stessa logica di coerenza sistematica valorizzata dalla Consulta oppure, se attingono condannati che potrebbero aspirare a trattamenti extra-murari e si pongono quali eccezioni rispetto a quella logica, sanciscono la prevalenza di presunzioni di pericolosità astratte ed aprioristiche, sull'esito di un concreto accertamento giurisdizionale che attesta l'assenza di pericolosità.

Ed allora occorre concludere che nessuna di queste eccezioni può superare lo stretto scrutinio di costituzionalità evocato dalla Corte, a prescindere dall'adeguatezza degli indicatori valorizzati, poiché in nessun caso può ritenersi ragionevole, tanto meno in un ambito sensibile quale è quello della libertà personale, che una presunzione normativa prevalga sull'esito di segno contrario di un compiuto accertamento giurisdizionale.

La conclusione avvalora il fondamento dell'odierna declaratoria di incostituzionalità, ma suggerisce altresì l'auspicio che il percorso seguito dalla Consulta prosegua nella direzione della valorizzazione delle relazioni sistematiche che legano l'art. 656 c.p.p., quale norma di raccordo fra il giudizio di cognizione e la fase esecutiva, non solo con la disciplina delle misure alternative ma anche con quella delle misure cautelari, approdando al riconoscimento della necessità di un pieno allineamento dei presupposti della sospensione dell'ordine di esecuzione e dell'accesso alle misure alternative alla detenzione.

Merita ricordare infine che un simile punto di arrivo coinciderebbe con la proposta formulata nell'elaborato finale della Commissione per la riforma dell'ordinamento penitenziario istituita presso l'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia in vista dell'esercizio della delega legislativa contenuta nell'art. 1, comma 85, l. 23 giugno 2017, n. 103 (reperibile in Giurisprudenza Penale web, 5 febbraio 2018), purtroppo sul punto non recepita dal testo del decreto legislativo ad oggi approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri, che aveva circoscritto l'esclusione della sospensione dell'ordine di esecuzione prevista dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. alle sole fattispecie previste dall'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., delineando un sistema incentrato sul pieno allineamento con i presupposti di accesso alle misure alternative (nello stesso elaborato e nel testo della bozza di decreto legislativo, era infatti stata prevista la possibilità di accesso dalla libertà alle misure di comunità anche per i sex offenders che si fossero sottoposti a programmi terapeutici dopo la commissione del reato e prima dell'inizio dell'esecuzione della pena).

Guida all'approfondimento

V. ALBERTA, Con l'affidamento allargato pena sospesa fino a 4 anni: incostituzionale il quinto comma dell'articolo 656 c.p.p., in Giurisprudenza Penale, 2018, 3;

L. BARONTINI, L'affidamento in prova al servizio sociale allargato e il mancato allargamento del termine di sospensione dell'ordine di esecuzione, in www.penalecontemporaneo.it, 5 febbraio 2016, 5 e segg;

L. DEGLI INNOCENTI, F. FALDI, Pene detentive brevi. Il revirement della Cassazione sul limite edittale per la sospensione dell'ordine di esecuzione, in Questa Rivista, Giurisprudenza commentata del 29 novembre 2017;

M. PALMA, L'affidamento in prova al servizio sociale: La “Terra di mezzo” tra il nuovo art. 47, comma 3-bis, Ord. Penit. E il vecchio art. 656, comma 5, c.p.p., in Cass. Pen., 2017, 2891 e segg;

D. VICOLI, Sospensione dell'ordine di esecuzione e affidamento in prova: la Corte costituzionale ricuce il filo spezzato dal legislatore, in Diritto penale contemporaneo, 4/2018, 89 e segg.

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