Impugnazione del riconoscimento del figlio di genitori non coniugati per difetto di veridicità

Ermelinda Di Martino
16 Maggio 2018

La Cassazione esamina la natura giuridica dell'impugnazione ex art. 263 c.c. chiedendosi quale sia l'onus probandi che grava sull'impugnante e, analizzando le ragioni del precedente orientamento giurisdizionale, si interroga circa la necessità della prova dell'assoluta incapacità di concepimento e il rilievo che hanno acquisito nel tempo le prove ematologiche ai fini dell'accertamento della filiazione.
Massima

In tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio “naturale” per difetto di veridicità, il principio del favor veritatis, come per tutte le altre azioni di stato, deve orientare la prova dell'assoluta impossibilità di concepimento, pertanto, anche per l'azione ex art. 263 c.c. deve essere valorizzato il contegno della parte che si oppone all'espletamento della consulenza genetica, unica forma di accertamento attendibile nella ricerca della filiazione.

Il caso

A seguito della morte dello zio, il nipote suo erede ha impugnato, ai sensi dell'art. 263 c.c., il riconoscimento di paternità di tre figli nati da genitori non uniti in matrimonio, effettuato dal de cuius anni addietro. Il Tribunale, ritenuta la non veridicità del riconoscimento, ha accolto la domanda e ha ordinato all'Ufficiale dello Stato civile del Comune di competenza di provvedere ai relativi adempimenti sul registro degli atti di nascita. Solo uno dei tre figli precedentemente riconosciuti ha proposto gravame.

La Corte d'Appello ha confermato la decisione del primo giudice, basando la propria pronuncia principalmente sul comportamento dell'appellante, il quale si era opposto all'espletamento della prova del DNA.

A favore del rigetto dell'impugnativa, deponeva pure la mancata menzione dei suddetti figli riconosciuti nel testamento del padre ormai defunto, che invece istituiva espressamente il nipote quale suo unico erede universale. Infine, la Corte territoriale ha proseguito argomentando sulla base di una dichiarazione resa dal presunto padre, dinanzi ad un notaio a cui aveva conferito procura, in cui affermava di essere celibe e senza figli.

Avverso la suesposta decisione ha proposto ricorso per Cassazione il figlio riconosciuto, già unico appellante.

La questione

La questione giuridica principale affrontata dalla pronuncia in esame concerne le condizioni necessarie affinché possa essere impugnato il riconoscimento di paternità per difetto di veridicità. La Cassazione esamina perciò la natura giuridica dell'impugnazione ex art. 263 c.c. chiedendosi quale sia l'onus probandi che grava sull'impugnante e, analizzando le ragioni del precedente orientamento giurisdizionale, si interroga circa la necessità della prova dell'assoluta incapacità di concepimento e il rilievo che hanno acquisito nel tempo le prove ematologiche ai fini dell'accertamento della filiazione.

Le soluzioni giuridiche

Il giudice di legittimità, con la pronuncia in esame, statuisce che il raggiungimento della prova dell'assoluta impossibilità di concepimento non è parametro richiesto necessariamente dalla norma di cui all'art. 263 c.c.. In passato la giurisprudenza ne ha richiesto la dimostrazione, ricercando una giustificazione di tale orientamento nella “natura confessoria” attribuita alla dichiarazione di riconoscimento di cui all'art. 258 c.c. Posto che la paternità e la maternità al di fuori del matrimonio erano considerati un fatto disdicevole, e che la confessione consisteva in una asserzione sfavorevole allo stesso dichiarante, poteva attribuirsi tale natura al riconoscimento di figli nati da genitori non uniti in matrimonio, solo ritenendo che la condotta presupposta costituisse una “colpa” suscettibile di confessione (Cass. civ. sez. II, sent. 1 agosto 1990, n. 7700). Ne consegue che la dichiarazione di riconoscimento, avendo natura confessoria, poteva essere smentita soltanto assicurando una prova rigorosa della sua non corrispondenza al vero. L'indirizzo giurisprudenziale così ricostruito poteva avere una possibile valenza fino agli interventi riformatori del biennio 2012-2013, in conseguenza dei quali anche questa azione di disconoscimento di paternità è stata posta sul medesimo piano delle altre azioni di stato. In punto di prova, il favor veritatis richiede che gli accertamenti della paternità vengano effettuati caso per caso e con ogni mezzo; compete poi al legislatore individuare eventuali deroghe dettate dalla necessità di tutelare altri interessi di preminente rilievo. La Corte di legittimità ha pure ribadito che la CTU genetica è la forma di accertamento privilegiata e pertanto devono essere valorizzati i comportamenti tenuti dalla parte che vi si oppone o che intralcia l'assunzione del mezzo di prova.

La Corte Suprema precisa, altresì, che l'impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità non si concretizza in una revoca del riconoscimento medesimo (vietata dall'art. 256 c.c.) risolvendosi, invece, nella giudiziale dimostrazione della non rispondenza al vero del riconoscimento effettuato.

Osservazioni

L'evoluzione storica e il netto cambiamento del contesto socio-culturale hanno suggerito al legislatore moderno un ripensamento dei valori ispiratori in materia di diritto di famiglia e filiazione. L'intenzione di fondo è quella di valorizzare la verità. Quella che ai nostri fini viene in esame è la verità biologica nell'ambito dei rapporti familiari. Ma è pur vero che un ampliamento di tutela sotto questo profilo non può, automaticamente, significare un azzeramento di contrapposti interessi, ugualmente meritevoli di protezione. A tal proposito la Corte di Cassazione ha ribadito, a più riprese, che il favor veritatis non costituisce valore di rilevanza costituzionale assoluta poiché la legge, a sua volta, individua i limiti e le modalità per l'esercizio di tale indagine (Cass. civ. sez. I, sent., 8 settembre 1995, n. 9463).

Giova preliminarmente ricordare che l'azione di impugnazione per difetto di veridicità rientra nella più generale categoria delle azioni di stato: espressione che ricomprende ogni azione giudiziale volta ad attribuire, o negare, lo status filiationis nei riguardi di uno o entrambi i genitori. L'elenco tassativo delle azioni di stato annovera anche l'impugnazione per difetto di veridicità, da utilizzarsi nel caso in cui si affermi che l'autore del riconoscimento del figlio, nato da genitori non uniti in matrimonio, non sia in realtà il genitore della persona riconosciuta. Occorre accertare, dunque, che il legame biologico non corrisponda allo status giuridico.

L'affermazione del principio di verità si è tradotta, sul piano pratico, nell'attribuzione della legittimazione attiva a tutti coloro che abbiano un interesse rilevante all'accertamento del reale status filiationis. L'espandersi dell'ambito soggettivo è stato però ragionevolmente arginato dalla riforma legislativa del 2013 la quale ha indicato il termine per l'impugnazione di chiunque vi abbia interesse in cinque anni, decorrenti dall'annotazione del riconoscimento nei registri dello stato civile. La novella muove un passo ulteriore verso l'assimilazione delle azioni di stato: difatti, la disciplina dell'impugnazione per difetto di veridicità e quella dell'azione di disconoscimento - ferma restando la diversa relazione personale preesistente alla filiazione - presentano prescrizioni sostanzialmente omogenee, alla luce della piena equiparazione tra i figli nati in costanza di matrimonio e quelli nati in assenza di questo legame.

Il mezzo che la odierna giurisprudenza di legittimità privilegia al fine di raggiungere detta veritas è la prova del DNA. Neppure la massima ufficiale sembra aver colto appieno le intenzioni del collegio giudicante, il quale ha chiarito come la prova ematologica non sia l'unica che il giudice può prendere in considerazione al fine di ritenere dimostrata la filiazione, ma è certamente quella maggiormente attendibile, e dunque occorre attribuirle un significativo rilievo nel libero apprezzamento del corredo probatorio. Originariamente utilizzabili nella sola ipotesi del ricorso al disconoscimento di paternità per celamento della maternità o adulterio (art. 235, comma 1, n.3, c.c.), le prove ematologiche si configurano oggi come il principale strumento nelle mani del giudicante, in grado di provare la compatibilità del patrimonio genetico del figlio con quello del presunto padre. Anche la Corte costituzionale (Corte cost., sent., 6 luglio 2006, n. 266) ha assicurato un autorevole avallo a questo orientamento, dichiarando l'illegittimità dell'art. 235, comma 1, n.3,c.c. nella parte in cui subordinava l'esperimento della prova ematologica alla previa dimostrazione dell'adulterio della madre. Esito, questo, prontamente accolto ed applicato anche dalla Corte di Cassazione.

Tuttavia, sino ad oggi, ai fini dell'azione ex art. 263 c.c., la Suprema Corte aveva sostenuto l'orientamento secondo cui era necessaria la dimostrazione della assoluta impossibilità che il dichiarante fosse, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (Cass. civ. sez. I, sent., 11 settembre 2015, n. 17970). A seguito della decisione in commento, al fine di adempiere correttamente agli oneri probatori richiesti dall'art. 2697 c.c., all'attore risulterà sufficiente provare un fatto costitutivo negativo, ossia l'inesistenza del legame biologico tra lui, riconoscente, e il riconosciuto. Questa prova potrà essere fornita con ogni mezzo, non essendo indispensabile dimostrare l'assoluta impossibilità di concepimento da parte sua.

Guida all'approfondimento

E. Andreola, Il principio di verità nella filiazione, in Fam. e dir., 2015, 1, 88;

G. Casaburi, In tema di riconoscimento del figlio, nota a Cass. sez. I, civ. 14 febbraio 2017, n. 3884, in Foro italiano, 2017, I, 3, 835.

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