Il caso “Cap Anamur” (sentenza del 7 ottobre 2009, n. 95, tribunale di Agrigento – irrevocabile. in allegato).
Il comitato denominato “Cap Anamur” è un'organizzazione tedesca con finalità di tipo umanitario fondata nel 1979.
Nell'anno 2003 il presidente dell'associazione acquistava una nave denominata anch'essa “Cap Anamur” da utilizzare per il trasporto di viveri, medicinali, attrezzatura medica e materiale vario nell'ambito dei diversi progetti umanitari.
La mattina del 12 luglio 2004 la motonave “Cap Anamur”, battente bandiera tedesca ,attraccava nel porto di Porto Empedocle (Ag).
Il presidente dell'associazione, il capitano e il primo ufficiale della nave venivano tratti in arresto per il delitto di cui all'art. 12 del testo unico immigrazione per la seguente imputazione: «al fine di procurarsi un profitto sia diretto che indiretto – anche consistito nella pubblicità e risonanza internazionale ottenuta ed inoltre un profitto relativo alla vendita a terzi delle immagini e delle informazioni relative ai fatti per cui è processo […] favorivano l'ingresso clandestino di 37 cittadini extracomunitari».
Dopo un lungo processo il tribunale di Agrigento ha assolto tutti gli imputati perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell'art. 530, comma 3, c.p.p., ritenendo che il natante soccorso si trovava in difficoltà e che le persone a bordo del gommone correvano un grave ed evidente pericolo.
È stata riconosciuta la scriminante dell'adempimento di un dovere imposta da una norma di diritto internazionale.
In particolare, il tribunale ha ritenuto che è da ritenersi certo che il capitano della nave – mediante il trasbordo degli occupanti il gommone sulla motonave “Cap Anamur” - effettuasse un'operazione di soccorso in mare con la conseguenza che le persone tratte in salvo, ancora prima di essere migranti o richiedenti asilo, sono in primo luogo naufraghi.
È stata richiamata la normativa internazionale di riferimento partendo dalla convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare e in particolare l'art. 98 che impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà.
Secondo il tribunale, il capitano e il primo ufficiale decidevano di non trasportare i naufraghi/migranti in Libia in quanto, pur essendo il posto più vicino al punto di salvataggio, ritenevano che in quel posto non fossero garantiti i diritti fondamentali della persona umana.
Ai migranti doveva essere garantito il diritto di essere sottoposti alle verifiche minime necessarie ad accertare anche a seguito della presentazione delle domande di asilo politico l'esistenza eventuale di presupposti che avrebbero impedito il respingimento e garantito protezione nel rispetto delle norme del diritto internazionale (art. 33 Convenzione di Ginevra sullo status rifugiati).
Il caso dei sette pescatori tunisini (sentenza del tribunale di Agrigento del 17 novembre 2009, riformata dalla Sentenza della Corte di appello di Palermo, Sez. III, del 21 settembre 2011 n. 2932/2011 irrevocabile il 4 febbraio 2012).
In data 8 agosto 2007, sette pescatori tunisini venivano arrestati a largo di Lampedusa in quanto indagati del reato di cui agli artt. 110 e 12, commi 3 e 3-bis del d.lgs. 286/1998.
L'arresto veniva disposto benché, con fax inviato lo stesso 8 agosto 2007 da M.R.C.C. Tunisi a M.R.C.C. Roma e a M.R.C.C. Malta, le autorità italiane e maltesi venivano informate che i due pescherecci tunisini Mohamed El Hedi 768/MO e Morthada 865/MO avevano tratto in salvo 44 immigrati da un gommone che affondava nella posizione 34° 58' N, 012° 56' E, e che uno degli immigrati era in cattive condizioni di salute.
Peraltro, con tale comunicazione, si invitavano le autorità italiane e maltesi ad intervenire in modo dovuto (appropriate action).
Non solo ma alle ore 16.29 dello stesso 8 agosto 2007, MRCC Roma ordinava a MRSC Palermo a UCG Lampedusa e a Comsquaguardcost sette Lampedusa di prestare assistenza e soccorso in favore di una persona recuperata in mare dai motopesca tunisini denominati Mohamed El Hedi e Morthada nonché in favore di un natante alla deriva con circa 40 migranti a bordo.
Ignorando, dunque, tali dati che pure facevano parte del patrimonio conoscitivo dell'organo inquirente, l'arresto veniva invece disposto sulla considerazione che gli indagati non potessero considerarsi pescatori in quanto a bordo dei due pescherecci «non vi era traccia né di pescato, né di esche, né di reti o altri attrezzi per la pesca».
Prendeva così corpo quella aberrante tesi secondo la quale gli imputati, lungi dall'essere dei pescatori tunisini, avrebbero inscenato il soccorso marittimo e sarebbero giunti fino a Lampedusa con l'intento di consentire l'ingresso in Italia dei 44 migranti.
Peraltro, va precisato che a bordo dei pescherecci venivano ritrovati i documenti professionali dei pescatori e che, per tutte le fasi di avvicinamento a Lampedusa, i comandanti dei pescherecci avevano cercato di rappresentare come a bordo vi fossero persone bisognose di cure e, addirittura, in pericolo di vita.
Condizioni puntualmente confermate dall'immediato ricovero che i sanitari presenti a Lampedusa disporranno, lo stesso 8 agosto 2007, nei confronti di una donna incinta (ottavo mese) e di un bambino disabile.
Peraltro, quasi nell'immediatezza dei fatti, due dei migranti soccorsi, sentiti a sommarie informazioni testimoniali, confermavano pienamente la versione degli imputati.
Ed ancora, lo stesso giudice della libertà aggiungeva che «anche logicamente la tesi del Capitano del recupero in mare dei migranti risulta verosimile in considerazione dell'obiettività delle cattive condizioni del mare, tali comunque da mettere in crisi la navigazione di un gommone stracolmo del suo sfortunato “carico umano” nonché in considerazione della circostanza che, preventivamente, uno dei pescherecci aveva lanciato l'allarme proprio all'Ufficio circ.le marittimo di Lampedusa. Atipico, infine, risulterebbe, sul piano strettamente logico, l'uso di un peschereccio efficiente per il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina al fine di profitto, essendo purtroppo, per fatto notorio, utilizzate di solito a tale scopo, imbarcazioni meno sicure dal punto di vista della navigazione, ma più economiche, così da ridimensionarsi il peso della perdita, nell'evenienza di sequestro e confisca da parte dei paesi di destinazione».
Celebratosi, infine, il processo per direttissima, dopo oltre due anni di processo e 21 udienze dibattimentali, con la sentenza n. 1107, il tribunale di Agrigento, in composizione collegiale, in data 17 novembre 2009, riconoscendo come gli imputati dovessero considerarsi dei pescatori e come avessero effettivamente tratto in salvo 44 migranti, assolveva gli imputati dal reato per il quale erano stati arrestati perché il fatto non costituisce reato per il delitto di cui all'art. 12 T.U Immigrazione.
Escludendo comunque la scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 c.p. perché l'emergenza sanitaria non sussisteva ed era stata esclusa dall'intervento del medico.
Nel corso del processo veniva, però, effettuata una nuova contestazione ai sensi dell'art. 516 c.p.p. (fatto diverso) del delitto previsto dal codice della navigazione ossia della resistenza a nave guerra e veniva irrogata la condanna a due anni e sei mesi ai due comandanti dei pescherecci.
La corte di appello di Palermo ha riformato la sentenza di primo grado per l'imputazione residua della resistenza della nave da guerra ex art. 1100, ritenendo, invece, operante la scriminante dello stato di necessità: «due imputati a bordo dei loro pescherecci, trovatisi nella necessità di salvare da un pericolo di danno grave alla persona una donna in avanzato stato di gravidanza che aveva fortissimi dolori all'addome e non si reggeva in piedi ed un bambino di quattro anni con una tetraparesi, hanno violato l'ordine di fermarsi e di non entrare in acque territoriali, impartito da navi da guerra italiane, per raggiungere al più presto il vicino porto di Lampedusa». (sentenza della Corte di appello di Palermo, sez. III, n. 2932/2011).