Risarcimento per trattamento inumano e compensazione del credito dello Stato per le spese di mantenimento in carcere

Andrea Nocera
21 Maggio 2018

La questione principale posta all'attenzione della Suprema Corte riguarda l'opponibilità al condannato cui sia stato riconosciuto, a seguito di reclamo sulle condizioni di detenzione, il risarcimento per violazione dell'art. 3 Convenzione Edu dell'eccezione di compensazione del credito relativo alle spese di mantenimento ...
Massima

Nel giudizio risarcitorio conseguente alla violazione dell'art. 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati, l'eccezione di compensazione del credito maturato per le spese di mantenimento in carcere del condannato –fondato su titolo diverso ma avente medesima derivazione – pur essendo questione attratta alla competenza del magistrato di sorveglianza, perché astrattamente rilevante sulla quantificazione della somma spettante al detenuto danneggiato, non è opponibile dall'amministrazione convenuta, perché privo dei requisiti di certezza ed esigibilità ed in ogni caso non sussistente in relazione ai periodi di detenzione per i quali sia accertata l'illegalità convenzionale del trattamento.

Il caso

Il caso oggetto della sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 13377 del 10 ottobre 2017 (dep. 22 marzo 2018), Busiello, riguarda l'impugnazione di un provvedimento di rigetto, emesso dal tribunale di sorveglianza di Sassari, del reclamo proposto ai sensi dell'art.35-ter ord. pen. dal Ministero della giustizia. Il magistrato di sorveglianza di Nuoro, nella specie, aveva liquidato in favore di un detenuto, nelle more affidato ai servizi sociali, la somma di € 3.600,00 a ristoro della sottoposizione – per taluni periodi – a condizioni di detenzione non conforme ai parametri di cui all'art. 3 Convenzione Edu.

Nella motivazione del provvedimento di rigetto del reclamo, pronunciandosi sulla eccezione di compensazione delle spese di mantenimento in carcere dovute dal detenuto, il tribunale di sorveglianza riteneva il proprio difetto di giurisdizione, dovendo la relativa domanda di ripetizione delle spese di mantenimento essere formulata dall'amministrazione innanzi al giudice civile competente. Riscontrava, inoltre, che era stata correttamente calcolata nel caso in esame la quota di spazio vitale minimo in cella collettiva, risultata inferiore ai 3 metri quadrati in termini di spazio 'calpestabile', con conseguente violazione dell'art. 3 Convenzione Edu. Affermava, infine, che l'intervenuta scarcerazione del condannato per essere sottoposto a misura alternativa, nelle more della decisione del magistrato di sorveglianza non assume rilievo, in quanto la competenza del magistrato di sorveglianza si radica al momento della proposizione della istanza risarcitoria.

I motivi di ricorso proposti dal Ministero avevano ad oggetto: 1. l'erronea applicazione dell'art. 3 Convenzione Edu in relazione alla individuazione dello spazio vitale minimo in cella collettiva e all'omesso esame delle condizioni di possibile «riequilibrio» dell'offerta trattamentale per l'ammissione del detenuto al regime di socialità a celle aperte e per la complessiva qualità dell'offerta, tali da superare la 'forte presunzione' di trattamento inumano o degradante; 2. La violazione dell'art. 1243 c.c. per l'omessa valutazione della eccezione di compensazione per la concorrente obbligazione del detenuto per il rimborso delle spese di mantenimento in carcere, pari ad euro 1,69 pro die, oltre interessi e rivalutazione sino al momento della decisione.

La questione

La questione principale posta all'attenzione della Suprema Corte (sent. n. 13377/2018, Busiello) riguarda l'opponibilità al condannato cui sia stato riconosciuto, a seguito di reclamo sulle condizioni di detenzione, il risarcimento per violazione dell'art. 3 Convenzione Edu dell'eccezione di compensazione del credito relativo alle spese di mantenimento in carcere da parte dell'Amministrazione della giustizia. Alla questione fanno da corollario due ulteriori profili che investono la competenza a decidere sulla istanza risarcitoria (e sulla connessa eccezione di compensazione del credito vantato dall'Amministrazione) e la definizione dei parametri minimi in base ai quali ritenere violato il citato art. 3 della Convenzione.

In particolare, in ordine alla tutela risarcitoria riconosciuta dall'art. 3 Convenzione Edu, affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, è necessario che sia riservato a ogni detenuto uno spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati, per la cui determinazione, secondo il costante orientamento della Suprema Corte (ex multis, Cass. pen., Sez. I,9 settembre 2016, n. 52819, Sciuto) dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse (tra cui il letto a castello), ma non gli altri arredi facilmente amovibili, direttamente funzionale alla libertà di movimento del recluso, già di per sé fortemente limitata dall'esperienza segregativa (Cass. pen., Sez. I, 26 maggio 2017, n. 41211, Gobbi).

Tale linea interpretativa applica i criteri funzionali espressi dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo, 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia (negli stessi termini le sentenze Corte Edu, Sez. I, 10 gennaio 2012, Ananyev e altri c. Russia, §§ 147-148; Corte Edu, 17 ottobre 2013, Vladimir Belyayev c. Russia § 34) in cui si segnala come l'esistenza di una superficie minima di tale estensione deve garantire lo spazio utile ad assicurare il movimento del detenuto.

I citati arresti della Corte Edu richiamano, in particolare, la necessità che ogni detenuto debba disporre di un posto individuale per dormire, che disponga di almeno tre metri di spazio calpestabile (floor space) e che l'intera superficie della cella consenta di muoversi liberamente tra gli arredi. La mancanza di una delle tre citate condizioni costituisce grave indizio presuntivo di trattamento degradante del detenuto sanzionato dall'art. 3 della Convenzione.

Con la sentenza sul caso Mursic c. Croazia si individua la necessità dì un «ulteriore» spazio separato e destinato ad altra finalità (il bagno), fermo restando il fatto che la superficie complessiva della cella non coincide con lo spazio destinato al movimento, dovendo da esso essere detratte gli spazi occupati da strutture indispensabili per garantire la legalità del trattamento, come la superficie occupata dal letto (già esclusa dalla richiamata sentenza sul caso Ananyev ed altri).

Le soluzioni giuridiche

La competenza sull'istanza risarcitoria. Nella sentenza in commento si affronta in via preliminare la questione della competenza sull'istanza risarcitoria formulata ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen., atteso che sul suddetto rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell'art. 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati vi è una concorrente competenza del magistrato di sorveglianza, radicata in ragione dello stato di restrizione del richiedente, e del giudice civile nel caso si tratti di soggetto scarcerato.

Sul punto, è in via di consolidamento l'orientamento secondo cui, in materia di rimedi risarcitori, presupposto necessario per radicare la competenza del magistrato di sorveglianza è lo stato di restrizione del richiedente al momento della proposizione del reclamo ex art. 35-ter ord. pen., a nulla rilevando l'eventuale scarcerazione nelle more della decisione (Cass. pen., Sez. I,17 novembre 2017, n. 5515, Sbeglia; Cass. pen.,Sez. I, 17 novembre 2016,n. 9661, Cangelosi). La competenza a provvedere del magistrato di sorveglianza si radica, infatti, in riferimento al momento e al contenuto della domanda, restando ininfluenti le modifiche dello status di detenuto intervenute successivamente o l'eventuale scarcerazione dell'istante nelle more della decisione. Nel caso di domanda formulata da un soggetto libero, di contro, in relazione al pregiudizio sofferto nel corso della detenzione per condotte dell'amministrazione nel frattempo cessate, la competenza è del giudice civile.

A tale soluzione si allinea la Suprema Corte, ribadendo che deve ritenersi correttamente radicata la competenza del magistrato di sorveglianza in relazione allo stato di detenuto del soggetto istante ed osservando altresì che, in pendenza del procedimento, lo stesso era stato ammesso alla misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale che rappresenta comunque una forma di espiazione della pena, con permanenza della competenza funzionale in capo al Magistrato di sorveglianza (sul tema, cfr., Cass. pen., Sez. I, 18 maggio 2017, n. 47052, Fazio). Nei medesimi termini la coeva sentenza Cass. pen., Sez. I, 10 ottobre 2017, n. 13381, Querci, che ha riqualificato il reclamo sulle condizioni di detenzione, già valutato ex art. 35-bis ord. pen. dal magistrato di sorveglianza, come richiesta di differimento dell'esecuzione per motivi di salute ex artt. 146 e 147 c.p., escludendo chela stessa avesse contenuto risarcitorio ex art. 35-ter ord. pen.

Tale approdo non è privo di voci dissenzienti in giurisprudenza. Secondo Cass. pen., Sez. I, 19 luglio 2016, n. 38801, Commisso, infatti, proprio sulla base del presupposto necessario del perdurante stato di restrizione del richiedente, assume rilevanza la scarcerazione nelle more del giudizio dello stesso, che comporta il trasferimento della competenza in capo al giudice civile, con il conseguente onere per l'interessato di adire quest'ultimo per conseguire il ristoro patrimoniale del pregiudizio subito.

Inoltre, nell'interpretare il presupposto della carcerazione in termini restrittivi, la S.C. ha anche affermato la competenza del tribunale civile del capoluogo del distretto di residenza dell'istante, e non del magistrato di sorveglianza, nel caso del condannato che abbia terminato di espiare la pena detentiva per essere ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare (Cass. pen., Sez. I, 21 giugno 2016, n. 44175, Vicinanza), soluzione che lascia seri dubbi di sostenibilità attesa la natura del tutto fungibile, ai fini della espiazione della pena, della detenzione domiciliare alla detenzione intramuraria.

Del resto, la riforma del sistema di tutela dei diritti dei soggetti sottoposti a restrizione in forma coercitiva realizzata dal legislatore attraverso le modifiche apportate agli articoli 69 e 35 della legge di ordinamento penitenziario (d.l. 23 dicembre 2013, 146 conv.. con l.21 febbraio 2014, n. 10 e, successivamente d.l. 26 giugno 2014, n. 92, conv. in l.11 agosto 2014, n.117) ha dettato linee di intervento penetranti, tese ad un recupero di tempestività ed effettività dell'intervento giurisdizionale realizzato – in costanza di trattamento detentivo – dalla magistratura di sorveglianza ed alla realizzazione di un più adeguato ed effettivo sistema di tutela dei diritti dei soggetti sottoposti a restrizione carceraria.

In tale quadro sistematico, si osserva nella citata sentenza n. 13381/2018, Querci, la specialità del rimedio compensativo/risarcitorio di cui all'art. 35-ter, commi1 e 2, ord. pen. non si pone in contrasto con la ordinaria tutela, azionabile mediante il potere generale di reclamo ex art. 69 ord. pen., di inibizione alla protrazione della condotta illecita con rimozione del comportamento lesivo, come nel caso della allocazione in cella non adeguata. Si afferma in tal modo che il collegamento funzionale tra la norma generale (art. 69, comma 6 lett. b) ord. pen., e norma speciale (art. 35-ter ord. pen.) è certamente da ritenersi sussistente, con possibile esercizio da parte del soggetto detenuto di una azione che miri ad ottenere, lì dove la compressione del diritto sia in atto al momento della domanda, la duplice forma di tutela offerta dall'ordinamento. Ove, però, la compressione del diritto del detenuto non sia più in atto al momento della decisione del Magistrato di sorveglianza, ma la lesione si sia già esaurita, il soggetto detenuto resta titolare della sola tutela risarcitoria ex art. 35-ter e non del diritto alla adozione di un provvedimento inibitorio (per la differenza tra il reclamo giurisdizionale di cui agli artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen. e quello generico ex art. 35, comma 1, n. 5, ord. pen., cfr. Cass. pen., Sez. I, 14 giugno 2017, n. 54117, Costa, secondo cui il primo rimedio deve avere ad oggetto la verifica di un pregiudizio concreto e attuale sofferto dal medesimo in conseguenza di un comportamento dell'amministrazione lesivo di una sua posizione di diritto soggettivo).

Lo spazio vitale minimo. Alla luce della giurisprudenza Cedu sopra richiamata, per la determinazione dello spazio vitale minimo, ai fini della valutazione del presupposto per la tutela risarcitoria, deve aversi riguardo ad una nozione di spazio “calpestabile”, quale porzione di superficie utile che, al di là della esistenza di “quote di ingombro” degli arredi, consenta il movimento del detenuto

Tuttavia, nella sentenza n. 13377/2018, Busiello, la S.C. precisa che, dove la disponibilità di una quota di spazio individuale quota al di sotto dei tre metri quadrati, non può ritenersi integrata di per sè la violazione del parametro convenzionale. Richiama, sul punto, quanto espresso dalla Corte Edu, Grande Camera, del 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, secondo cui lo spazio inferiore alla soglia indicata dalla sentenza Mursic, in caso di detenzione in una cella collettiva, fa sorgere una presunzione, forte ma non inconfutabile, di violazione del'art. 3 Convenzione Edu. La presunzione in questione può essere confutata, in particolare, dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di un adeguato spazio personale, quali la durata e l'ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l'offerta di attività all'esterno della cella, nonché del carattere complessivo, generalmente decente o meno, delle condizioni di detenzione nell'istituto in questione.

Il giudice, dunque, è tenuto a valutare, anche al solo fine di confutarne la valenza, la sussistenza di possibili elementi di «riequilibrio trattamentale», ove allegati od indicati dall'Amministrazione ricorrente, suscettibili di superare la forte presunzione di violazione del diritto derivante dalla disponibilità di uno spazio vitale minimo inferiore a tre metri quadri, come sopra calcolato. Nel caso di specie, l'omessa valutazione di tali elementi da parte del tribunale di sorveglianza di Sassari (di cui non vi è traccia nella motivazione del provvedimento impugnato) ha fondato la decisione di annullamento con rinvio dell'ordinanza.

La compensabilità delle spese di mantenimento in carcere. La terza – e, forse, principale – questione che affronta la Suprema Corte con la sentenza n. 13377/2018, Busiello, riguarda la possibilità per l'Amministrazione della Giustizia di opporre in compensazione ex art. 1243 c.c. al diritto del detenuto al risarcimento per le condizioni inumane di detenzione il credito maturato per spese di mantenimento in carcere.

Nel caso di specie, la S.C. ha censurato la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva escluso la propria competenza sull'eccezione di compensazione ritenendo che tale aspetto possa essere trattato esclusivamente innanzi al giudice civile. In particolare, la Corte ha osservato che, in sede di procedura di verifica del trattamento inumano o degradante subìto dal detenuto, la competenza del magistrato di sorveglianza non incontra limiti cognitivi, potendo essere apprezzato nel relativo giudizio discrezionale qualunque circostanza di fatto che si riveli incidente sul provvedimento da adottare, ivi compresa quella relativa all'esistenza o meno di un credito vantato dall'amministrazione penitenziaria, opposto ad una rilevata liquidazione monetaria della lesione.

In tal senso, la generale previsione di cui all'art. 2 c.p.p., in assenza di pregiudizialità tra i due giudizi, trova applicazione anche in sede di trattazione di procedimenti innanzi al Tribunale di sorveglianza (sul punto, Cass. pen., Sez. I, 18 maggio 2017, n. 49242, Lucky).

Di qui l'affermazione della astratta proponibilità – e rilevanza nel giudizio risarcitorio innanzi al magistrato di sorveglianza – della eccezione di compensazione sul presupposto che il credito opposto abbia i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità. Del resto, il credito per risarcimento spettante al detenuto che si risolve nell'attribuzione compensativa di una somma di denaro non rientra tra le ipotesi legali – tassativamente elencate – di esclusione della compensazione ex art. 1246 cod. civ. ed è pienamente ammissibile la compensazione di ragioni creditorie che, pur avendo il loro comune presupposto nel medesimo rapporto, siano fondate su titoli aventi natura diversa (Cass. civ., Sez. III, 25 maggio 2016, n. 10750).

Nondimeno, nel caso del credito maturato per le spese di mantenimento in carcere, la S.C. ha ritenuto non eccepibile la compensazione nell'ambito del procedimento per il riconoscimento della particolare lesione del diritto del detenuto disciplinata dall'art. 35-ter ord. pen.,sotto diversi profili.

In primo luogo, l'assenza di certezza ed esigibilità del credito vantato dall'amministrazione per spese di mantenimento, in virtù della esistenza di un apposito procedimento per la remissione del debito di cui all'art. 6 del d.P.R. 115/2002, attivabile su domanda di parte, successiva alla richiesta formale di pagamento, può portare alla estinzione parziale o totale della pretesa patrimoniale per le spese di mantenimento in carcere (v. sul tema Cass. pen., Sez. V, 7 marzo 2017, n. 14562).

Il giudizio per la remissione del debito relativo alle spese processuali e di mantenimento in carcere presuppone il bilanciamento tra le ragioni dello Stato e l'esigenza di garantire al condannato un'esistenza libera e dignitosa ed in funzione di tale bilanciamento, richiede che sia valutato non solo lo stato di indigenza ed il serio squilibrio del suo bilancio domestico, tale da compromettere il soddisfacimento di elementari esigenze vitali e il reinserimento sociale, ma anche la sussistenza in capo al condannato di risorse economiche eccedenti il soddisfacimento di tali bisogni esistenziali minimi (Cass. pen., Sez. V, 7 marzo 2017, n. 14562, Mangiocavallo).

Ove tale giudizio non sia stato definito prima della decisione sul reclamo ex art. 35-ter ord. pen. mancherebbero dunque i presupposti della certezza ed esigibilità del credito per il mantenimento.

In secondo luogo, la Corte osserva che, rispetto alla pretesa azionata, la stessa consistenza del credito è dubbia in quanto in caso di riconoscimento della avvenuta sottoposizione del detenuto a un trattamento inumano o degradante deve necessariamente provvedersi ad una corrispettiva riduzione dell'ammontare del credito per il mantenimento, che deve essere liquidato in riferimento alla sola – eventuale – frazione di detenzione che non contrasti con i contenuti dell'art. 3 della Convenzione Edu.

I periodi di detenzione caratterizzati dalla accertata illegalità convenzionale del trattamento non possono fondare il diritto di credito dell'amministrazione, atteso che è proprio l'offerta trattamentale che è causa di danno.

Ostano a tale riconoscimento ragioni di carattere logico, in quanto le modalità trattamentali inumani o degradanti determinano una detenzione illegittima nel quomodo, tale che il primo rimedio apprestato dal legislatore alla detenzione in condizioni inumane è quello della riduzione di pena, e sistematico, non potendo la condotta contra legem comportare l'esistenza di un contestuale onere a carico del soggetto che quel danno ha subìto (il principio, in termini generali è espresso da Cass. pen., Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 28508).

Osservazioni

Con le coeve decisioni in commento la Corte non solo pone un punto fermo in tema di riparto di competenza sulla domanda risarcitoria ex art. 35-ter ord. pen. ma ribadisce i criteri, di carattere presuntivo e non, alla luce dei quali deve essere condotto il giudizio ripartivo nei casi di modalità trattamentali inumane e degradanti.

Con la sentenza n. 13377/2018, Busiello, in particolare, pur ammettendo in via astratta l'opponibilità in compensazione nel giudizio risarcitorio del credito maturato dall'amministrazione per il mantenimento in carcere del detenuto istante, ne condiziona l'esperibilità alla intervenuta definizione del giudizio di rimessione del debito.

Sotto tale aspetto la pronuncia espone il fianco a critiche non solo per la natura del tutto eventuale e futuribile del giudizio per la remissione del debito, promovibile ad iniziativa del debitore condannato ma perché proprio la possibilità di una successiva remissione del debito presuppone la certezza ed esigibilità del credito vantato dall'amministrazione, che matura di giorno in giorno, requisiti la cui esistenza è negata dalla decisione della S.C. Inoltre, appare di dubbia sostenibilità anche l'articolata ragione logico-sistematica, atteso che, a fronte del trattamento intramurario produttivo di danno viene già riconosciuta una misura compensativa/risarcitoria al detenuto, liquidata in denaro, che non può dunque avere un ulteriore effetto ostativo al credito per le spese di mantenimento per il corrispondente periodo di detenzione.

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