Ai matrimoni omosessuali contratti all'estero va garantito un minimo riconoscimento

30 Maggio 2018

La vicenda in esame riguarda sei coppie di persone dello stesso sesso, coniugate all'estero, che avevano chiesto il riconoscimento del loro matrimonio in Italia. La registrazione viene rifiutata dall'ufficiale dello Stato civile sulla base del rilievo che l'ordinamento giuridico italiano non consente e non riconosce il matrimonio tra persone omosessuali. I partner ricorrono, quindi, alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.
Massima

Con riferimento al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso in Italia, in fattispecie anteriore alla l. n. 76/2016, la Corte EDU ha condannato l'Italia per avere impedito la trascrizione dei matrimoni e delle unioni civili contratti all'estero, così negando qualsiasi forma di riconoscimento e tutela delle relazioni omoaffettive, con la conseguenza che tale vuoto legislativo va dichiarato incompatibile con il rispetto del diritto alla vita privata e familiare sancito dall'art. 8 CEDU.

Il caso

La vicenda in esame riguarda sei coppie di persone dello stesso sesso, coniugate all'estero, che avevano chiesto il riconoscimento del loro matrimonio in Italia. La registrazione viene rifiutata dall'ufficiale dello Stato civile sulla base del rilievo che l'ordinamento giuridico italiano non consente e non riconosce il matrimonio tra persone omosessuali. I partner ricorrono alla Corte Europea dei diritti dell'uomo, lamentando che la condotta posta in essere dai funzionari dello Stato italiano ha violato l'art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare ) e l'art. 14 (il divieto di discriminazione), in combinato disposto con l'art. 12 (diritto al matrimonio).

Con riferimento alle doglianze espresse nel ricorso, i giudici della Corte EDU, sul presupposto che gli Stati hanno la facoltà di decidere la registrazione dei matrimoni omossessuali, nonché di regolamentare la disciplina delle unioni omoaffettive, pone in evidenza come il vuoto legislativo riscontrato nell'ordinamento italiano, prima della riforma introdotta dalla legge n. 76/2016 che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso, lascia privi di tutela tali rapporti, che hanno invece necessità di un riconoscimento legale.

La Corte EDU rileva che il rifiuto di registrare nell'ordinamento italiano il matrimonio dei ricorrenti sotto qualsiasi forma, prima che la legislazione sulle unioni civili entrasse in vigore, determina la conseguenza che le coppie ricorrenti sono prive di qualsiasi forma di protezione, con violazione dei diritti garanti dall'art. 8 CEDU.

La questione

La mancanza di regolamentazione all'interno dello Stato italiano delle unioni omoaffettive determina un vuoto di tutela e quindi l'assenza di protezione, con conseguente violazione dei diritti garantiti dall'artt. 8, 14 e 12 CEDU, sicché non consentire la registrazione di unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso contratte all'estero determina come conseguenza l'assenza di tutela da parte del diritto nazionale.

Le soluzioni giuridiche

In motivazione i Giudici della Corte sono attenti a rimarcare, anche perché è proprio questo a fondare il richiamo all'art. 14, che la questione sottoposta al loro vaglio non ruota attorno ad un preteso obbligo dello Stato di provvedere forme di riconoscimento legale delle relazioni tra persone dello stesso sesso, atteso che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento in merito alla scelta di consentire o meno la registrazione dei matrimoni omosessuali. Ciò posto, si fa leva sulla riconosciuta capacità delle coppie formate da partner dello stesso sesso di instaurare relazioni stabili per sostenere l'equiparazione della loro situazione a quella delle coppie omosessuali, ove si discuta del riconoscimento giuridico nell'ambito dell'Unione.

Generalmente la Corte EDU, in vicende giudiziarie analoghe a quella in esame, ha sempre evidenziato l'astrattezza del fine di tutela della famiglia intesa in senso tradizionale, astrattezza cui si contrappone la concreta esigenza di interpretare la Convenzione come strumento vivente e, quindi, tenendo conto dell'evoluzione sociale e del fatto che non esiste un solo modo di intendere la famiglia e la vita privata. Ne consegue che la preclusione alle coppie omosessuali del riconoscimento di istituti già codificati in altri Stati, quali il matrimonio o le unioni civili registrate, che costituisce l'essenza della discriminazione, come poi nella fattispecie lamentano le coppie ricorrenti, avrebbe dovuto essere sorretta, per essere giustificata anche in termini di proporzione tra fine perseguito e mezzi impiegati, da ragioni significative.

Tali ragioni non possono coincidere con quella avanzata dallo Stato italiano nel corso del processo, ossia l'appello all'ordine pubblico interno. Infatti, la Corte EDU non ritiene sufficiente l'argomento, speso dal Governo, relativo al fatto che l'ordine pubblico interno rappresenterebbe un ostacolo al riconoscimento dei matrimoni contratti all'estero, atteso che, a differenza di altre disposizioni della CEDU, l'art. 8 non ha previsto la nozione di ordine pubblico come uno degli scopi legittimi nell'interesse del quale uno Stato potrebbe interferire con i diritti di un individuo.

Pur dando preminente rilievo al potere dello Stato italiano di stabilire le norme sulla validità dei matrimoni e trarne le relative conseguenze giuridiche, la Corte EDU evidenzia come l'assenza di regolamentazione ed il relativo vuoto legislativo non assicura ai ricorrenti la necessaria tutela con violazione dell'art. 8 CEDU. Nella sentenza, infatti, si afferma il valore intrinseco di una forma ufficiale di riconoscimento dell'unione matrimoniale contratta all'estero a prescindere dagli effetti giuridici che ne discendano. In forza delle ragioni di cui si è dato conto, pertanto, si è ravvisata la violazione del combinato disposto degli artt. 14 e 8 CEDU.

Osservazioni

Va segnalato che la pronuncia in esame si pone nel solco di un indirizzo politico ben saldo in seno al Consiglio d'Europa e sviluppa premesse già poste in precedenza dalla Corte EDU. Tali premesse hanno poi sollecitato il legislatore italiano ad intervenire con il riconoscimento, nel nostro ordinamento, delle unioni tra persone dello stesso sesso, con l'introduzione della legge n. 76/2016 e, quindi, con la regolamentazione dei matrimonio omosessuali contratti all'estero. Quanto ai precedenti della stessa Corte EDU, già in Schalk and Kopf v. Austria del 2010, si giudicava «artificioso sostenere l'opinione che, a differenza di una coppia di sesso diverso, una dello stesso sesso non potrebbe godere di una “vita familiare” ai sensi e per gli effetti dell'art. 8 della Convenzione». La Corte evidenzia come sia registrabile un consenso sorto tra gli Stati europei in riferimento al riconoscimento e alla tutela giuridica delle coppie omosessuali e giunge ad affermare che la relazione affettiva costituita stabilmente tra due soggetti del medesimo sesso rientra nella nozione di vita familiare al pari di rapporti costituiti da un uomo e una donna conviventi more uxorio.

In tema di riconoscimento però la Corte ha sempre rimarcato l'ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati, principio messo in luce in molte decisioni, purché tale scelta non determini conseguenze discriminatorie nel godimento dei diritti alla vita privata e familiare. L'art. 14 CEDU occupa un posto importante nel complesso della CEDU, atteso che la Corte lo pone spesso in relazione con altri articoli. Ai sensi di tale disposizione, una differenza di trattamento è discriminatoria quando non è fondata su una giustificazione obiettiva e ragionevole e cioè se non persegue un obiettivo legittimo o se non vi è un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e i fini che si intendeva realizzare. La Corte EDU ha considerato la discriminazione fondata sull'orientamento sessuale ricompresa nell'ambito di applicazione dell'art. 14 CEDU, anche se tale fattore di discriminazione non viene menzionato in maniera espressa. Ne consegue l'obbligo per gli Stati di tutelare l'unione familiare omosessuale, rientrante nell'alveo dell'art. 8, senza alcuna discriminazione, in conformità con l'art. 14 della Convenzione. Le differenze basate sull'orientamento sessuale necessitano di ragioni particolarmente serie per poter essere giustificate e certamente non costituisce motivazione obiettiva e ragionevole la contrarietà all'ordine pubblico interno. Va precisato come nel nostro ordinamento, a seguito della l. n. 76/2016, è consentito alle coppie dello stesso sesso contrarre una unione civile, ma non un matrimonio. In particolare, è utile ricordare che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2400/2015, respingendo il ricorso di una coppia omosessuale alla quale era stato negato di procedere alla pubblicazione del matrimonio aveva affermato: «il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda…sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettato dall'inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell'alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana». In altri termini, la sentenza, da una parte torna ad escludere che in assenza di un esplicito intervento del legislatore le coppie omosessuali abbiano diritto al matrimonio e, d'altra parte, torna a ribadire la loro titolarità dei diritti inerenti alla vita familiare, senza però entrare nel merito delle forme della loro tutela giudiziale in assenza di uno specifico intervento legislativo.

Guida all'approfondimento

L. Lorello, La Cassazione si confronta con la questione del matrimonio omossessuale, www.rivistaaic.it;

F. Mastromarino, Il matrimonio conteso: le unioni omosessuali in una eclettica pronuncia della Corte costituzionale italiana, in Diritto di famiglia e delle persone, 2011, n. 1, 439 ss. .

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