La contestazione “in fatto” delle circostanze aggravanti

15 Giugno 2018

Può il giudice, ritenendola contestata in fatto, applicare in sentenza una circostanza aggravante i cui riferimenti normativi non compaiono nel capo di imputazione? La giurisprudenza di legittimità è costante fin dagli anni '90 nel ritenere sufficiente una contestazione fattuale della circostanza aggravante, senza che ...
Massima

Ai fini della contestazione di una circostanza aggravante non è necessaria la specifica indicazione della norma che la prevede, essendo sufficiente la precisa enunciazione fattuale della stessa, in modo che l'imputato possa avere cognizione degli elementi di fatto che la integrano e predisporre al riguardo la propria linea difensa e il giudice possa ritenerla sussistente in sentenza senza compiere un atto a sorpresa per l'accusato.

Il caso

Tizio, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, con decisione confermata sul punto dalla Corte di appello, veniva condannato in primo grado per il reato di cui all'art. 476 c.p. per aver falsificato il processo verbale di audizione del contribuente in contraddittorio (art. 52 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).

Trattandosi di un atto destinato a provare, sino a querela di falso, la provenienza dell'atto, le dichiarazioni delle persone ascoltate e, in generale, quanto il pubblico ufficiale abbia attestato essere avvenuto in sua presenza, a Tizio veniva applicata anche la circostanza aggravante di cui al capoverso dell'art. 476 c.p. in quanto la falsità materiale aveva riguardato un atto fidefacente.

Avverso la decisione del giudice di seconde cure Tizio proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge da parte della Corte territoriale per aver ritenuto sussistente la suddetta circostanza nonostante il capo di imputazione non ne facesse menzione, né attraverso il richiamo all'art. 476, comma 2, c.p., né attraverso l'indicazione della natura fidefacente dell'atto.

La Suprema Corte ha dichiarato infondato il ricorso osservando come il proprio orientamento sia costante nel ritenere non necessaria, ai fini della contestazione di una circostanza aggravante, la specifica indicazione della norma che la prevede. Ciò che è necessario, ma anche sufficiente, per una corretta contestazione dell'elemento accidentale è invece la precisa enunciazione in fatto della stessa, così che l'imputato possa avere cognizione degli elementi di fatto che la integrano (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 10 novembre 1989, n. 5678; Cass. pen., Sez. II, 28 ottobre 2003, n. 47863; Cass. pen., Sez. VI, 28 settembre 2012, n. 40283; Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 14651; Cass. pen., Sez. I, 8 febbraio 2017, n. 51260).

La questione

La questione in esame è la seguente: può il giudice, ritenendola contestata in fatto, applicare in sentenza una circostanza aggravante i cui riferimenti normativi non compaiono nel capo di imputazione?

Le soluzioni giuridiche

Come già detto, la giurisprudenza di legittimità è costante fin dagli anni '90 nel ritenere sufficiente una contestazione fattuale della circostanza aggravante, senza che occorra anche riportare nell'imputazione il riferimento normativo dell'elemento accidentale che si intende addebitare all'imputato.

In sostanza, è sufficiente che nella descrizione del fatto attribuito all'imputato si possano individuare gli elementi costitutivi della circostanza aggravante, senza che occorra né indicare la norma che la prevede, né contestare formalmente l'elemento accessorio con espressioni del tipo con l'aggravante dell'aver …, fatto aggravato da …, ecc.

Si pensi, ad esempio, a una imputazione per furto nella quale compare unicamente la descrizione dell'azione di sottrazione ed impossessamento e il riferimento all'art. 624 c.p. Qualora nella narrazione del fatto emerga anche che l'imputato ha agito in concorso con due persone rimaste sconosciute, il giudice potrà ritenere in sentenza sussistente la circostanza aggravante di cui all'art. 625 n. 5 c.p. senza incorrere nella violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.).

Con specifico riferimento alla questione trattata dalla pronuncia in commento, si rinvengono numerose pronunce che escludono la violazione del principio di correlazione ex art. 521 c.p.p. nei casi in cui il giudice ritenga in sentenza sussistente l'ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma 2, c.p., ancorché la predetta aggravante non sia stata formalmente contestata nel capo di imputazione, purché la natura fidefacente dell'atto considerato falso sia stata chiaramente indicata in fatto ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell'atto oggetto del falso (cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 settembre 2008, n. 38588, in tema di processo verbale di "esperimento di vendita" redatto da pubblico ufficiale; Cass. pen., Sez. V, 14 settembre 2016, n. 2712, in tema di referto medico; Cass. pen., Sez. V, 20 settembre 2017, n. 55804; Cass. pen., Sez. V, 2 aprile 2015, n. 38931, in tema relata di notifica formata da un ufficiale giudiziario).

In sostanza, qualora in una imputazione per falso materiale sia chiaramente indicata la tipologia di atto che si assume essere stato contraffatto, il giudice, se ritiene che tale atto sia fidefacente, potrà condannare l'imputato per il reato aggravato di cui all'art. 476, comma 2, c.p. anche se il pubblico ministero non ha citato la predetta disposizione normativa nel capo di imputazione, né vi ha indicato espressamente la circostanza che il fatto era stato compiuto su un atto fidefacente.

Va detto che la suddetta soluzione non è del tutto pacifica in giurisprudenza. Proprio sul tema in analisi si rinvengono alcune – invero poche – pronunce che considerano una irrimediabile violazione del diritto di difesa la condanna per l'ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico quando la natura fidefacente dell'atto assunto come falso non è stata esplicitamente indicata nel capo di imputazione, non è stata nemmeno indicata in fatto con sinonimi o formule equivalenti e non è stata neanche è richiamato l'art. 476, comma 2, c.p. (in questi casi il giudice dovrebbe ritenere sussistente l'ipotesi di falso non aggravata dalla natura fidefacente dell'atto).

A sostegno di tale assunto si osserva che, anche alla luce dei vincoli posti dalla Cedu, così come interpretata dalla Corte Edu (cfr. sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), è diritto dell'imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (cfr. Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2014, n. 12213; Cass. pen., Sez. III, 8 ottobre 2014, n. 6809).

In sostanza, la dimensione normativa dell'accusa, al pari di quella fattuale, è strettamente connessa all'equità del processo penale, in quanto contribuisce a mettere l'accusato in grado di predisporre la propria linea difensiva, senza correre il rischio di subire condanne “a sorpresa” anche sul piano della riqualificazione giuridica del fatto.

La decisione in commento si confronta con le argomentazioni dell'orientamento minoritario ritenendo di poterle superare alla luce di una (ritenuta più corretta) interpretazione convenzionalmente orientata del principio di correlazione fra accusa e sentenza.

Punto di partenza del ragionamento della Corte è una concezione sostanzialistica dell'imputazione, la cui completezza dovrebbe essere stimata alla luce delle possibilità defensionali dell'imputato. Detto in altre parole, l'imputazione è completa anche se rinvia ad atti (intelligibili, non equivoci e conoscibili da parte dell'imputato) contenuti nel fascicolo processuale perché in tal modo è comunque consentito all'accusato di elaborare una strategia difensiva in relazione ad ogni elemento di accusa (cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 gennaio 2017, n. 10033, che ha ritenuto chiaramente contestato il fatto in relazione a un'imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale costruita mediante riferimento alle immobilizzazioni risultanti dal bilancio di una specifica annualità).

Questo sul piano fattuale. Da punto di vista giuridico, in ragione del noto principio iura novit curia, al giudice è consentito attribuire al fatto contestato una veste giuridica diversa rispetto alla qualificazione offerta dal pubblico ministero. Tale esito non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce degli artt. 111, comma 2, Cost. e 6 Cedu (quest'ultimo come interpretato dalla Corte europea), qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (cfr. Cass. pen., Sez. unite, 26 giugno 2015, n. 31617, che ha escluso la violazione dell'art. 521 c.p.p. in un caso in cui l'imputato era stato condannato in primo grado per il reato di concussione e in appello per quello di corruzione). Ciò in quanto la Corte di Strasburgo ha più volte chiarito che la violazione dei parametri convenzionali si realizza soltanto nei casi in cui la nuova definizione giuridica del fatto addebitato assuma la caratteristiche di un atto a sorpresa per l'accusato.

Coordinando le due direttrici ermeneutiche con riferimento agli elementi circostanziali, la sentenza in commento ritiene che un'aggravante sia correttamente contestata quando all'accusato siano garantiti «una effettiva conoscenza dei contorni fattuali dell'accusa e il pieno svolgersi del diritto di difesa, alla luce delle implicazioni giuridiche che scaturiscono dal raffronto fra la vicenda concreta attribuita all'imputato e la fattispecie incriminatrice».

Tale soluzione viene ritenuta armonica rispetto al sistema di garanzie di matrice convenzionale.

Si osserva, infatti, che un processo equo ai sensi dell'art. 6 par. 3 Cedu, come interpretato dai giudici di Strasburgo (cfr. Corte Edu, sent., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia e 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia), presuppone una contestazione che consenta all'imputato di conoscere non soltanto i fatti materiali che gli vengono attribuiti, ma anche la loro qualificazione giuridica, in quanto anche la dimensione giuridica della contestazione è necessaria per consentire all'interessato di approntare in modo adeguato la propria difesa.

Tuttavia, «ciò non implica né l'immutabilità della originaria qualificazione, né, a maggior ragione, l'impossibilità di operare qualificazioni non esplicitate attraverso richiami normativi nell'accusa contestata, quante volte ciò sia prevedibile, anche alla luce della necessaria assistenza tecnica della quale dispone l'imputato, e si accompagni alla predisposizione di adeguate garanzie difensive».

Dunque, ad avviso della decisione in esame, nella valutazione della prevedibilità della riqualificazione giuridica del fatto gioca un ruolo fondamentale l'assistenza tecnica del difensore, in quanto depositario di quelle conoscenze giuridiche necessarie a stimare la possibilità che il giudice ravvisi una circostanza aggravante nei fatti addebitati pur in assenza di una formale contestazione della stessa.

Del resto, nel nostro ordinamento la peculiare rilevanza dell'assistenza difensiva è tale da non consentire all'imputato l'autodifesa esclusiva (l'imputato che non ha nominato un difensore di fiducia è obbligatoriamente assistito da un difensore designato d'ufficio: art. 97, comma 1, c.p.p.), neppure mediante proposizione del ricorso per cassazione (art. 613 c.p.p.), recentemente sottratto all'iniziativa personale del condannato proprio in ragione dell'elevato livello di qualificazione professionale richiesto dall'esercizio del diritto di difesa in cassazione, tanto più in sistema che ammette il patrocinio a spese dello Stato (cfr. Cass. pen., Sez. unite, 21 dicembre 2017, n. 8914).

Dunque, conclude la Corte, «il fatto che la difesa, nella determinazione delle proprie strategie, ritenga di lasciare in un cono d'ombra la questione della (più grave) qualificazione giuridica dei fatti, rappresenta una scelta insindacabile, i cui effetti, però, non possono evidentemente tradursi in una limitazione dei poteri del giudice».

Osservazioni

La soluzione adottata dalla pronuncia in commento si colloca sul solco tracciato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità: per la contestazione di una circostanza aggravante non è indispensabile né una formula specifica ed espressa, enunciante letteralmente l'aggravamento del reato rispetto alla forma semplice dello stesso, né l'indicazione della disposizione di legge che la prevede. È sufficiente, invece, che nell'ambito di tutte le formulazioni della contestazione del fatto siano contenuti con indicazione chiara elementi integranti la circostanza aggravante in maniera idonea a dimostrare e a portare a conoscenza dell'imputato, a garanzia del suo diritto di difesa, che tale circostanza è compresa nella contestazione.

Si tratta di un orientamento condivisibile in quanto, al di là del ricorso a formule sacramentali, l'indicazione in imputazione di tutti gli elementi naturalistici che rilevano ai fini della integrazione di una fattispecie circostanziale consente senza dubbio all'imputato di prevedere che il giudice potrà ritenere in sentenza sussistente l'elemento accessorio contestato in fatto e quindi di predisporre una linea difensiva anche in relazione a tale eventualità.

Del resto, non solo l'imputato è tenuto a conoscere la legge penale (art. 5 c.p.), di talché, a di fuori dei casi di ignoranza incolpevole, dovrebbe sapere che quel dettaglio fattuale a lui addebitato (es. l'aver commesso il furto con altre persone o l'aver rubato un'autovettura parcheggiata sulla pubblica via) è considerato dall'ordinamento come costitutivo di un elemento circostanziale aggravatore; ma egli è anche obbligatoriamente assistito da un soggetto – il difensore – tecnicamente qualificato per cogliere tutte le implicazioni giuridiche del fatto imputato al proprio assistito.

Quanto detto sopra vale sia per le circostanze integrate da elementi fattuali (numero di soggetti agenti, uso di armi, violenza sulle cose, ecc.) che per quelle consistenti in elementi quantitativi (ingente quantitativo, rilevante gravità, ecc.), sebbene non manchino pronunce che, con riferimento alla seconda categoria, ritengono necessaria una specifica contestazione (cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. II, 2 dicembre 2004, n. 29; Cass. pen., Sez. II, 16 luglio 2015, n. 43920, che, ai fini della contestazione dell'ipotesi di cui all'art. 61 n. 7 c.p. hanno ritenuto insufficiente la mera indicazione nel capo d'imputazione dell'importo della somma sottratta alla persona offesa, essendo necessario, ai fini della corretta formulazione dell'addebito, che sia esplicitata la valutazione circa la rilevante gravità del danno, così da consentire l'esercizio del connesso diritto di difesa; ma si veda contra Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 13913).

Ciò che lascia perplessi è piuttosto l'apertura, anche in tema di circostanze aggravanti, a forme di contestazione “implicita”. Non si tratta del caso in esame ma si rinvengono nei repertori giurisprudenziali pronunce che sostengono che l'oggetto del processo non sia fissato dalla formulazione dell'imputazione ma si estenda agli atti compiuti durante l'intero procedimento in base ai quali è stato reso in concreto possibile all'imputato di avere piena consapevolezza del thema decidendum, così da potersi difendere in ordine a un determinato fatto, inteso come episodio della vita umana e purché tali integrazioni della imputazione, desunte da elementi esterni alla stessa, non determinino una modificazione dell'essenza del fatto incidendo sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato o ponendosi in posizione di incompatibilità o eterogeneità con il fatto enunciato nella imputazione (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 26 settembre 1996, n. 9213).

In tal mondo viene addossato all'imputato l'onere di difendersi rispetto a tutte le possibili ricostruzioni storiche di un accadimento vagamente identificato, con tutte le evidenti ricadute negative per l'effettività del contraddittorio e del diritto di difesa.

Tuttavia, la l. 479/1999, ravvisando una stretta correlazione tra la compiuta enunciazione del fatto ed il consapevole esercizio del diritto di difesa dell'imputato e volendo superare la prassi delle imputazioni generiche (costruite mediante una parafrasi del dettato normativo), era intervenuta sulla richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 c.p.p.), sul decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.) e sul decreto di citazione diretta a giudizio (art. 552 c.p.p.) prevedendo che tali atti contenessero «l'enunciazione, in forma chiara e precisa […] delle circostanze aggravanti [...] con l'indicazione dei relativi articoli di legge» e presidiando la specificità dell'imputazione con una nullità (presto depotenziata dalla giurisprudenza che l'ha qualificata come relativa).

Se dunque non vi sono ostacoli ad imputazioni dalle quali evincere la contestazione di una circostanza aggravante pur in assenza di una specifica ed espressa enunciazione letterale e/o dell'indicazione della disposizione di legge che la prevede, qualche riflessione maggiore dovrebbe essere condotta sulla possibilità per il giudice di ritenere sussistente una circostanza aggravante cogliendone i riferimenti fattuali al di fuori del perimetro dell'imputazione, attingendo agli atti processuali.

Guida all'approfondimento

FARINI-TOVANI-TRINCI (a cura di), Compendio di diritto processuale penale, VI ed., Roma, 2018;

TRINCI, Art. 521, in Beltrani (diretto da), Codice di procedura penale commentato, Giuffrè, 2017.

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