Appropriazione indebita di somme di denaro e applicabilità della nozione civilistica di “altruità”

Stefano Valentini
18 Giugno 2018

Il tema sottoposto al vaglio del giudice di legittimità nel caso di specie concerne l'individuazione della portata del termine altrui indicato nell'art. 646 c.p. per qualificare l'oggetto della appropriazione penalmente rilevante ...
Massima

Nell'ipotesi di mandato a vendere, commette il reato di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 c.p., comma 1, n. 11, il mandatario che, avendo ricevuto da terzi una somma di denaro quale corrispettivo della vendita dei beni ricevuti in conto vendita, per destinarla (mediante consegna) o altrimenti impiegarla nell'interesse del mandante, se ne appropri, dandole destinazione diversa o incompatibile con quella dovuta.

Il caso

Nel caso che qui ci occupa, l'imputato, titolare di una casa d'aste, era stato riconosciuto responsabile nei gradi di merito del reato di cui all'art. 646 c.p., aggravato dall'abuso di relazione d'opera, per essersi indebitamente appropriato di una somma corrispondente al prezzo percepito per la cessione di mobili antichi ricevuti in conto vendita e che pertanto avrebbe dovuto rimettere al proprietario che ne aveva fatto richiesta.

Nei motivi di ricorso la difesa si doleva del mancato riconoscimento dell'insussistenza dell'elemento soggettivo richiesto ai fini della punibilità del reato in contestazione – sostanzialmente la società aveva dovuto fare i conti con un grave momento di crisi, che l'aveva infine portata alla messa in liquidazione – e, con una memoria depositata fuori udienza, lamentava inoltre il difetto del requisito dell'altruità della somma in questione, trattandosi di denaro di proprietà dell'imputato, così come sancito dalla giurisprudenza civile formatasi in tema di mandato.

Ebbene, la Suprema Corte, pur affermando l'inammissibilità delle doglianze rappresentate nella memoria poiché non riconducibili a motivi nuovi rispetto al gravame depositato ma bensì deduzioni che andavano ad investire ragioni di diritto ed elementi di fatto non oggetto dell'originaria impugnazione, coglieva comunque l'occasione per sostanziare la nozione di cosa altrui rilevante ai fini della sussistenza del reato in esame, ripercorrendo i contributi offerti da dottrina e giurisprudenza relativamente alla interpretazione in ambito penale dei concetti di derivazione privatistica e soffermandosi, in particolare, sul tema del possesso di somme di denaro.

La questione

Il tema sottoposto al vaglio del giudice di legittimità nel caso di specie concerne l'individuazione della portata del termine altrui indicato nell'art. 646 c.p. per qualificare l'oggetto della appropriazione penalmente rilevante posta in essere dal possessore su denaro o altro bene fungibile.

Secondo l'impostazione difensiva, il contratto di mandato sarebbe fonte tra le parti di meri rapporti obbligatori, di tale che la somma di denaro relativa alla vendita dei beni in questione sarebbe appartenuta in realtà al mandatario, obbligato nei confronti del mandante esclusivamente a rimettergliela secondo i termini stabiliti dal contratto.

In forza della costante lettura della Cassazione civile, infatti, il principio della diretta imputazione al rappresentato degli effetti dell'atto posto in essere in suo nome dal rappresentante non comporta, nel caso di riscossione di somme da parte del mandatario, ancorché con rappresentanza, l'acquisto automatico delle stesse da parte del mandante e ciò in ragione della fungibilità del denaro, che fa di regola identificare nel detentore materiale di esso il dominus delle somme consegnate, e peraltro la legittimazione del rappresentante a ricevere dal terzo debitore il pagamento, con efficacia liberatoria nei confronti del rappresentato, non esclude che i rapporti interni con quest'ultimo siano disciplinati dalle regole del mandato, quale contratto a effetti obbligatori, da cui deriva l'obbligo di rimettere al mandante, previo rendiconto, le somme riscosse (così Cass. civ. 9775/2016, richiamando le argomentazioni di Cass. civ. 7510/2011).

La loro mancata restituzione configurerebbe pertanto un inadempimento di natura civilistica non riconducibile, come tale, alla previsione sanzionatoria dell'art. 646 c.p., che assume il requisito dell'altruità del denaro o della cosa mobile oggetto di appropriazione come elemento costitutivo del reato.

È del tutto evidente, infatti, che se il denaro faceva parte del patrimonio dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarlo o destinarlo a favore di un terzo, egli sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento ma non potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa (cfr. Cass. pen., 15815/2017).

Il problema interpretativo richiedeva quindi di accertare in che misura la regola civilistica dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili al patrimonio di colui che le riceve abbia rilievo anche per il diritto penale e concorra a integrare il concetto di altruità richiamato dall'art. 646 c.p., così da poter escludere o confermare, nel caso di specie, la configurabilità del delitto in contestazione.

Com'è noto, l'appropriazione indebita presuppone che l'agente abbia il possesso della cosa altrui oggetto materiale della condotta descritta dalla norma, la cui ratio consiste appunto nel reprimere il fatto di colui che dia alla res – e, per esplicita previsione normativa, anche al denaro – una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso (Cass. pen., 12896/2016).

La corretta enucleazione del concetto di altruità consente pertanto anche di sostanziare quello di possesso – da intendersi ai fini della sussistenza del reato in esame nel potere di autonoma disponibilità della cosa da parte dell'agente (cfr. Cass. pen., 6617/2017) – atteso che le due situazioni giuridiche, nell'architettura del reato in esame, si contrappongono delimitandosi vicendevolmente.

Le soluzioni giuridiche

La problematica non è nuova ed è stata approfonditamente esplorata in diverse occasioni anche da parte delle Sezioni unite (si vedano Cass. pen., Sez. unite 37954/2011 e Cass. pen., Sez. unite 1327/2005) nel cui solco interpretativo si colloca lo sviluppo motivazionale della sentenza in commento.

Preliminarmente occorre verificare quale significato assumano le nozioni e gli istituti di matrice privatistica recepiti dal diritto penale, in particolar modo proprio in materia di reati contro il patrimonio.

Il dibattito, puntualmente riferito dalla Corte nel provvedimento che si annota, vedeva originariamente contrapporsi la tesi pancivilistica, che presupponeva la mera accessorietà del diritto penale rispetto a quello civile, a quella autonomistica, che sosteneva invece la prevalenza dei canoni ermeneutici penalistici.

La lettura attualmente più accreditata è quella della tesi intermedia, che rimette all'interprete il compito di contemperare i concetti di derivazione privatistica e le esigenze di tutela proprie del diritto penale nel rispetto di una coerenza sistematica dell'ordinamento.

Sotto questo profilo, con particolare riferimento al concetto di altruità, il giudice di legittimità, in linea con l'orientamento prevalente, afferma in motivazione che non è possibile elaborarne una nozione valida in assoluto e, comunque, che non può ritenersi applicabile in ambito penalistico quella delineata dalla giurisprudenza civile richiamata dal ricorrente. Il diritto penale, infatti, accoglie una definizione di altruità più ampia, affrancata dal concetto di proprietà strettamente inteso, che deve essere di volta in volta determinata in base alla ratio della disposizione incriminatrice presa in esame (in questi termini Cass. pen., Sez. unite, 1327/2005).

L'elaborazione ermeneutica “classica”, legata a un sistema centrato sul diritto di proprietà, partiva dal presupposto che, ai fini della sussistenza del reato in contestazione, rilevava la posizione possessoria che fosse disgiunta dalla proprietà, di tale che il concetto di altruità non poteva che indicare la cosa di proprietà di altri, con la logica conseguenza che laddove il titolo del possesso fosse tale da trasferire nel possessore la proprietà del bene il reato non poteva ritenersi configurabile (Cass. pen., 27540/2009).

L'esigenza di scindere il binomio “altrui-proprietà di altri”, anche al fine di tutelare posizioni giuridiche ulteriori rispetto al diritto di proprietà in senso classico e di arginare condotte prevaricatrici connesse alla posizione possessoria, chiaramente incompatibili con la correttezza dei rapporti negoziali, hanno portato ad una dilatazione del concetto di altruità recepito in dottrina e giurisprudenza.

In questo senso autorevole dottrina, in materia di appropriazione indebita, è arrivata a identificare l'altruità della cosa nel vincolo di destinazione apposto a quest'ultima nell'interesse di altri. Analogamente la giurisprudenza ha avuto occasione di evidenziare che laddove l'agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita in tutti quei casi in cui la somma entra ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perché connotata da un vincolo specifico di destinazione (così Cass. pen., Sez. unite, 1327/2005).

E che, in materia di appropriazione indebita, il concetto civilistico di altruità non possa trovare univoca applicazione emerge chiaramente, come correttamente rilevato in sentenza, proprio dalla circostanza che la fattispecie de qua indichi esplicitamente il denaro tra le cose mobili oggetto della condotta sanzionata.

In tema di possesso di somme di denaro la Suprema Corte ha affermato che la specifica indicazione del denaro, contenuta nell'art. 646 c.p., rende evidente che il Legislatore ha inteso espressamente precisare, allo scopo di evitare incertezze e di reprimere gli abusi e le violazioni del possesso di denaro, che anche questo può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita, in conseguenza del fatto che anche il denaro, nonostante la sua onotologica fungibilità, può trasferirsi nel semplice possesso, senza che al trasferimento del possesso si accompagni anche quello della proprietà (così Cass. pen., 50672/2017).

Secondo la più recente lettura ermeneutica del giudice di legittimità tale situazione si concreta tutte quelle volte in cui la consegna del denaro sia accompagnata da una espressa limitazione del suo utilizzo o da un preciso mandato di dare allo stesso una particolare destinazione.

Il possesso così trasferito è incompatibile con atti di disposizione che travalichino il diritto poziore del proprietario con l'inevitabile conseguenza che la realizzazione di condotte in tal senso è suscettibile di configurare il delitto di appropriazione indebita.

In estrema sintesi, per dirla con la Cassazione, il denaro può pertanto essere oggetto di interversione del possesso e conseguente appropriazione indebita solo quando sia consegnato dal legittimo proprietario ad altri con specifica destinazione di scopo che venga poi violata attraverso l'utilizzo personale da parte dell'agente; solo ove il mandatario violi quindi il vincolo fiduciario che lo lega al mandante e destini le somme a scopi differenti da quelli predeterminati può integrarsi un condotta di appropriazione indebita (testualmente Cass. pen., 50672/2017).

In tale condotta, che si sostanzia nel dare al denaro una destinazione diversa da quella imposta dal mandante, disponendone così l'agente uti dominus, si manifesta quell'animus proprio del delitto in contestazione che sfocia nella interversione del possesso a seguito della rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle cose (così Cass. pen., Sez. unite, 37954/2011).

Il principio secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitigli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto per l'adempimento del suddetto mandato e lo utilizzi per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante (cfr. Cass. pen., 46586/2013), è sostanzialmente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, più volte intervenuta in materia (Cass. pen., 46586/2011; Cass. pen., 50156/2015; Cass. pen., 25281/2016).

E tale impostazione, come segnala la Corte in motivazione richiamando giurisprudenza sul punto, è pacificamente configurabile anche nel momento in cui il possesso venga conferito all'agente da soggetto diverso dal proprietario, proprio come si verifica nell'ipotesi del mandato a vendere, laddove il mandatario riceve da altri il denaro ed è tenuto a rimetterlo al mandante.

Con una recente pronuncia, la Suprema Corte, a integrazione del principio di diritto sopra enunciato, ha ritenuto fosse possibile aggiungere che commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario senza rappresentanza che si appropri delle cose ricevute durante l'esecuzione del mandato, con l'animus di trattenerle per sé e non ritrasferirle al mandante, tranne che egli non abbia diritto alla ritenzione per la natura del mandato conferitogli (mandato in rem propriam) o, limitatamente ai crediti, per soddisfarsi delle spese e dei compensi spettantigli (cfr. Cass. pen., 43119/2016).

Il giudice di legittimità è pervenuto a tale affermazione dopo aver argomentato che, se nel caso del mandato con rappresentanza è di palmare evidenza che il mandatario si appropria di cose o denaro di cui ha il possesso ma che sono già entrate a far parte del patrimonio del mandatario, non diversamente accade – a ben vedere – anche nel caso di mandato senza rappresentanza. Anche in questo caso, infatti, le cose o il denaro ricevuti in esecuzione del mandato appartengono alla sfera giuridica del mandatario, sia per via delle facoltà di riscossione (dei crediti) e di rivendica (delle cose mobili) riconosciutegli dalla legge pur in difetto di un acquisto diretto della titolarità dei diritti, sia perché il mandante – salvo che il mandato non sia in rem propriam – è comunque obbligato a ritrasferire al mandatario quanto acquisito nel corso del mandato (testualmente Cass. pen., 43119/2016).

Per completezza espositiva, si segnala una risalente pronuncia in materia, in forza della quale era stato ritenuto colpevole del delitto di appropriazione indebita colui che, sulla base di un rapporto societario, dopo aver venduto merce da altri affidatagli per la vendita e dopo averne riscosso il prezzo, non aveva provveduto a versare al consocio, sulle somme riscosse, la quota percentuale di esse (cfr. Cass. pen., 12 ottobre 1989).

Osservazioni

È del tutto evidente, peraltro – e la Corte nel suo provvedimento ne dà puntualmente atto – che, pur accogliendo una interpretazione amplia della nozione di altruità, sganciata dall'accezione strettamente civilistica, non è possibile ricondurre alla previsione sanzionatoria dell'art. 646 c.p. qualsivoglia diritto di credito, laddove l'inadempimento potrebbe eventualmente trovare tutela penale da parte dell'art. 641 c.p.

Qualora oggetto della condotta sia il denaro, ai fini della configurabilità del delitto in esame, come sopra già evidenziato, è necessario che l'agente disattenda, attraverso l'utilizzo personale, alla specifica destinazione di scopo ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna, non essendo sufficiente il semplice inadempimento all'obbligo di restituire somme in qualunque forma ricevute in prestito (cfr. Cass. pen., 24857/2017).

In questo senso non può ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni cui avrebbe dovuto fare fronte con quote del proprio patrimonio non conferite o vincolate a tale scopo (cfr. Cass.pen., Sez. unite, 37954/2011).

La Suprema Corte ha avuto occasione di specificare che ove la somma non sia stata corrisposta con uno specifico mandato atto a tracciare la destinazione finale della somma stessa – evenienza che, com'è noto, osta a che il bene fungibile si confonda nel patrimonio di chi lo possiede – ma sia stata erogata invece a titolo di prezzo, parziale o totale di una normale compravendita, il denaro è passato definitivamente in proprietà del ricevente, il quale a sua volta, non potrà che essere tenuto all'adempimento dell'obbligazione contratta, senza che possa incappare nella contestazione di 646 c.p. (cfr. Cass. pen. 15815/2017).

Analogamente nel caso di contratto di mutuo, laddove il denaro per definizione transita in proprietà del mutuatario, il quale è libero di disporne secondo i propri voleri, con la conseguenza che la mancata restituzione, da parte sua, di quanto ricevuto, non comporta alcuna interversione del possesso idonea ad integrare la fattispecie di appropriazione indebita (così Cass. pen., 24857/2017).

Il tema è stato sviluppato dalle Sezioni Unite – ai cui principi si è sostanzialmente uniformata la sentenza in commento – chiamate a pronunciarsi su una ipotesi di appropriazione contestata a carico del datore di lavoro con riferimento a quote della retribuzione del dipendente trattenute per essere versate ad un istituto di credito in adempimento di un mutuo.

Ebbene, secondo il giudice di legittimità, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di fare fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui rilevante ai fini della sussistenza del delitto di cui all'art. 646 c.p. (così Cass. pen., Sez. unite, 37954/2011).

In altre parole, il denaro trattenuto dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel patrimonio del primo, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono, di tale che questi non ne perde la proprietà, ma ha soltanto l'obbligo di versarle nella misura e alle scadenze pattuite o previste da disposizioni di legge (in questi termini Cass. pen., Sez. unite, 1327/2005).

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