Patto di non concorrenza con pagamento alla cessazione del rapporto di lavoro

Francesco Rotondi
Aggiornato da Alessandra Croce

Inquadramento

Con il patto di non concorrenza, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, datore di lavoro e lavoratore concordano l'impegno di quest'ultimo ad astenersi, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro e per un determinato periodo di tempo, dall'esercitare attività in concorrenza con il primo. La stipulazione del patto in questione può intervenire al momento dell'assunzione, e quindi contestualmente ad essa, o successivamente, sia nel corso del rapporto di lavoro, sia in occasione della cessazione del medesimo.

Formula

PATTO DI NON CONCORRENZA (CON PAGAMENTO ALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO)

TRA

la Società ...., con sede legale in ...., C.F ...., P.I ...., in persona del .... (di seguito anche solo la “Società”)

E

il/la Sig./Sig.ra ...., nato/a a ...., il ...., C.F. ...., residente in .... (di seguito anche solo il/la “Dipendente”)

(di seguito anche solo le “Parti” o singolarmente la “Parte”)

PREMESSO CHE

A) il/la Sig./Sig.ra .... è (o sarà) assunto/a dalla Società con contratto di lavoro subordinato a tempo ...., a far data dal .... (di seguito anche solo il “Contratto”);

B) in forza del Contratto, il/la Dipendente è assunto/a con qualifica di ...., inquadramento come ...., per lo svolgimento, in favore della Società, delle mansioni di ....

TUTTO CIÒ PREMESSO, LE PARTI STIPULANO E CONVENGONO QUANTO SEGUE

1) Il/la Sig./Sig.ra .... si obbliga, in caso di cessazione del rapporto di lavoro in essere con la Società (di seguito anche solo il “Rapporto”) e per la durata di mesi .... a non prestare, direttamente o indirettamente, attività lavorativa, sia in forma autonoma, che subordinata o parasubordinata, in favore di altre società e/o altri datori di lavoro o committenti operanti nel settore .... e con riferimento alle seguenti attività ....

2) L'obbligo di cui al punto 1 deve intendersi limitato alle seguenti aree territoriali/geografiche ....;

3) il/la Dipendente si obbliga, altresì, in caso di cessazione del rapporto di lavoro in corso, a non divulgare a terzi tecniche produttive, brevetti, invenzioni, procedure di lavoro o altre notizie di cui sia venuto a conoscenza nello svolgimento del Rapporto;

4) il/la Dipendente si obbliga a non esercitare né individualmente, né in forma associata o societaria, né per interposta persona, attività imprenditoriale in concorrenza con quella esercitata dalla Società per la durata di .... dopo la cessazione del rapporto di lavoro, nelle aree territoriali/geografiche di cui al punto 2. che precede;

5) A fronte delle obbligazioni assunte con la sottoscrizione del presente accordo e quale corrispettivo delle stesse, la Società corrisponderà al/alla Dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, la somma lorda di euro ....

6) Resta inteso e convenuto tra le Parti che la violazione delle obbligazioni nascenti dal presente patto di non concorrenza comporterà l'obbligo da parte del/della Dipendente di corrispondere alla Società la somma lorda di euro ...., a titolo di penale.

Luogo e data ....

(Firma della Società)

....

(Firma del/della Dipendente)

....

Commento

Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, il patto di non concorrenza trova la propria disciplina nel codice civile e segnatamente nell'art. 2125 c.c.

La detta norma codicistica recita espressamente: “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto in determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

Lo scopo del patto in esame è quello di estendere, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, il vincolo di non concorrenza che, in costanza di rapporto, è invece imposto al lavoratore dall'art. 2105 c.c.

Poiché il patto di non concorrenza, specie se stipulato all'atto dell'assunzione o nel corso del rapporto di lavoro, può contenere clausole pregiudizievoli per il lavoratore, il legislatore ha previsto una disciplina specifica, contenuta appunto nell'art. 2125 c.c., non ritenendo sufficiente (in considerazione anche della peculiare posizione del lavoratore) la tutela cotenuta nelle disposizioni che generalmente regolano gli accordi di non concorrenza e di cui all'art. 2596 c.c.

L'art. 2125 c.c. individua specifici requisiti cui è subordinata la validità del patto di non concorrenza.

In primo luogo, la forma: il patto di non concorrenza disciplinato nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato deve, infatti, essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità.

La sua stipulazione può intervenire in qualsiasi momento, all'atto dell'assunzione – e, quindi, contestualmente ad essa (con specifica clausola inserita nel contratto o con atto separato) – o successivamente, sia nel corso del rapporto di lavoro, sia in occasione della cessazione dello stesso.

Il patto di non concorrenza, essendo un contratto, necessita della sottoscrizione di entrambe le parti (datore di lavoro e lavoratore).

Non è invece richiesta la specifica sottoscrizione ai sensi dell'art. 1341 c.c. (Pret. Milano, 22 febbraio 1999; Pret. Torino, 8 febbraio 1979.).

Oltre alla forma, pena la nullità del patto sottoscritto, occorre che siano rispettati anche, congiuntamente, i vincoli di tempo, oggetto e territorio, e che sia previso un corrispettivo in favore del lavoratore per l'impegno dallo stesso assunto.

Quanto all'estensione temporale, il patto di non concorrenza non può avere una durata superiore (i) a tre anni per la generalità dei prestatori di lavoro e (ii) a cinque anni per i dirigenti; i termini decorrono dal primo giorno successivo alla cessazione dell'attività lavorativa. Tali limiti di durata sono inderogabili ad opera delle parti, con la conseguenza che eventuali limiti di durata superiori saranno ridotti ex lege ai limiti temporali previsti dalla norma.

Per quanto concerne l'ambito oggettivo del patto, per valutare la congruità della determinazione dell'oggetto si deve tenere conto sia del contenuto obiettivo del patto, sia delle capacità economica residua del lavoratore; la validità dell'accordo dipende dalla validità congiunta dei due parametri.

La giurisprudenza ha da tempo chiarito che il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve, quindi, limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Il patto è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (Cass. n. 13282/2003).

Il limite dell'ambito oggettivo del divieto di concorrenza viene di solito valutato congiuntamente al vincolo territoriale, in quanto occorre che al lavoratore venga lasciato uno spazio economico/reddituale alternativo oggettivamente praticabile.

In sostanza, il patto deve essere formulato in modo da lasciare al lavoratore un congruo spazio di attività in relazione alle sue competenze e al suo campo di specializzazione tecnica o professionale (Cass. n. 7835/2006. In termini si è espressa anche la giurisprudenza di merito: “Con riferimento al requisito del contenimento del patto di non concorrenza entro determinati limiti di oggetto, tempo e luogo, la giurisprudenza ha precisato che la sanzione di nullità deve essere comminata in tutte le circostanze in cui l'ampiezza del patto, in relazione alla specifica attività esercitata, sia tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni capacità reddituale” – Trib. Milano, 6 maggio 2015).

Il riferimento territoriale deve essere specifico – esso attiene, comunque, all'oggetto del patto di non concorrenza, ragione per cui deve essere determinato o, quantomeno, determinabile ai sensi dell'art. 1346 c.c. – e deve essere valutato, ai fini della validità del patto, congiuntamente ai limiti di oggetto ed allo scopo che si intende raggiungere (rapporto di proporzionalità inversa con l'oggetto in relazione al settore di riferimento, alle mansioni espletate, al grado di specializzazione delle stesse).

In proposito, dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che, anche per la validità di questo vincolo, si debba applicare il principio già espresso con riguardo all'oggetto, e quindi che non vi debba essere una eccessiva limitazione della libertà di lavoro del dipendente.

L'ambito di validità territoriale del patto non può essere valutato in astratto, ma caso per caso, avuto riguardo a tutti i diversi elementi che concorrono a determinare il contenuto del patto stesso.

lI Tribunale di Milano ha riconosciuto valido un patto di non concorrenza nel quale l'impegno del lavoratore era esteso a tutto il territorio europeo, in considerazione del carattere multinazionale della società stipulante e l'oggetto molto circoscritto delle attività inibita al lavoratore stesso (Trib. Milano, ord. 3 maggio 2005).

Infine, l'art. 2125 c.c. richiede, come si è detto, ai fini della validità del patto di non concorrenza, l'esistenza di un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro a fronte della limitazione dello svolgimento dell'attività di quest'ultimo.

In ordine al requisito in esame, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il corrispettivo del patto di non concorrenza debba essere proporzionale e congruo rispetto alla limitazione imposta al lavoratore. Da ciò deriva la nullità di pattuizioni non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro (Cass. n. 4891/1998; Cass. n. 7835/2006; Trib. Milano, 25 giugno 2003).

Ai fini di un eventuale giudizio di congruità, deve tenersi conto della misura della retribuzione, dell'estensione territoriale e oggettiva del divieto e della professionalità del dipendente (Trib. Milano 27 maggio 1999).

Se non è determinato l'ammontare del corrispettivo, o in caso di impossibilità nel determinarlo, il patto sarà considerato nullo, dovendosi escludersi una determinazione giudiziale dello stesso.

In ordine alle modalità di corresponsione del corrispettivo, il pagamento successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro è di solito la regola.

Tuttavia è ammesso anche il pagamento in costanza di rapporto di lavoro, anche se sul punto, la giurisprudenza non è unanime. Per ulteriori approfondimenti v. il commento sub formula “Patto di non concorrenza, pagamento in costanza di rapporto di lavoro”.

La giurisprudenza ritiene illegittime le clausole che attribuiscono al datore di lavoro la possibilità di recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza al momento della cessazione del rapporto di lavoro o anche durante il periodo di preavviso, trattandosi di clausole che non permettono al lavoratore di valutare l’esistenza dei vincoli dalla ricerca di un’altra opportunità lavorativa alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 15952/2004).

La Suprema Corte di Cassazione ha da tempo affermato che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Infatti, la limitazione allo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta - in base a quanto previsto dall’art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost., - entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo e compensata da un corrispettivo di natura altamente retributiva, con la conseguenza che è impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l'attribuzione patrimoniale pattuita (Cass. n. 9491/2003).

In conformità al disposto dell’art. 2125 c.c., la durata del patto deve essere “delimitata ex ante” e quindi non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venire meno in ogni momento della sua durata. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero seriamente ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte, anche considerando la forte penalità posta a suo carico in caso di inadempimento. Né la liberazione dal vincolo può assumere per il lavoratore una utilità tale da compensare la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi dopo la cessazione del rapporto, per essere costantemente soggetto alle determinazioni altrui (Cass. n. 15952/2004 cit.; Cass. n. 212/2013).

La nullità della clausola in esame per contrasto con norme imperative è stata ancora recentemente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. n, 10535/2020), oltre che dalla giurisprudenza di merito. Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 luglio 2020, ha ribadito che il patto di non concorrenza stipulato da datore e prestatore di lavoro ai sensi dell'art. 2125 c.c. non ammette l’inserimento di una clausola che, ai sensi dell'art. 1373 c.c., attribuisca al datore di lavoro la facoltà di recesso unilaterale alla data della cessazione del rapporto o per il periodo successivo, all’interno del limite temporale di vigenza del patto, posto che la norma di cui all'art. 2125 - norma speciale rispetto alla fattispecie generale prevista dall'art. 2596 e diversa da quella prevista dall'art. 2105 c.c. - deve essere interpretata secondo i principi ermeneutici di tale settore dell'ordinamento, in particolare tenendo presente il favor verso il lavoratore. La clausola suddetta, infatti, potrebbe costituire lo strumento attraverso cui eludere le garanzie che l’art. 2125 c.c. appresta al lavoratore, snaturando completamente il regolamento di interessi oggetto del patto, in quanto produttiva di un'indeterminatezza temporale dell'obbligo assunto dal prestatore di lavoro. Essa è, pertanto, nulla ai sensi dell'art. 1344 c.c.

Ulteriore ipotesi, diversa dal recesso unilaterale del datore dal patto, è patto di opzione con cui il datore di lavoro si riserva il diritto di scegliere, entro un termine definito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, se avvalersi o meno del patto di non concorrenza.

Come precisato dalla Suprema Corte di Cassazione, l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusi va iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta (Cass. n. 25462/2017). In applicazione di tali principi e ponendo “l’accento sulla valutazione della comune intenzione delle parti o sulla considerazione del comportamento delle stesse tenuto anche successivamente alla conclusione del contratto” l’opzione irrevocabile concessa al datore di lavoro per la formazione professionale ricevuta ed esercitabile entro 30 giorni dalla cessazione del rapporto, non esercitata dal datore di lavoro, con conseguente liberazione dal patto del lavoratore a conoscenza del mancato esercizio dell’opzione, non integra un’ipotesi di recesso unilaterale del datore di lavoro dal patto ma un diritto di opzione anche in considerazione del fatto che il patto di non concorrenza, nel caso esaminato dai giudici di legittimità, non era ancora perfezionato (Cass. n. 25462/2017).

La Suprema Corte ha ritenuto nulla la clausola di opzione ex art. 1331 c.c. quando tale clausola cela l’intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione, una volta superato il periodo di prova, all’adempimento dell’obbligazione contenuta nel patto stesso. In tal caso, l’esercizio della facoltà impropriamente denominata di opzione costituisce un recesso unilaterale ex art. 1373 c.c. la cui disciplina non è applicabile al patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., che integra una disposizione speciale con obbligo a carico del lavoratore da circoscriversi ex ante ad una durata determinata, disposizione inderogabile, altrimenti elusa dalla facoltà di recesso, che consentirebbe il venir meno in ogni momento della sua durata (Cass. n. 3/2018).

Sulla illegittimità della clausola di opzione, accedente al patto di non concorrenza si veda Cass. n. 8715/2017.

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