Assegnazione a mansioni inferiori

Francesco Rotondi

Inquadramento

La determinazione dell'esatto inquadramento del lavoratore richiede la puntuale analisi delle mansioni in concreto svolte dal prestatore di lavoro, le quali - individuando i compiti e le attività che il lavoratore deve eseguire in adempimento dell'obbligazione di lavoro - consentono l'attribuzione di una determinata qualifica e, in quadro ancor più ampio, di una categoria. La facoltà, concessa al datore di lavoro, di modificare le mansioni del prestatore di lavoro risulta oggi ampliata rispetto al passato, allorquando (prima dell'intervento del d.lgs. n. 81/2015 che, all'art. 3, ha modificato l'art. 2103 c.c.) erano individuati precisi limiti (divieto di assegnazione a mansioni inferiori e limitazioni del potere del datore di lavoro di mutare le mansioni), parzialmente superati nel contesto della nuova disciplina introdotta nel 2015. Per effetto di tale novella legislativa, l'assegnazione del lavoratore anche a mansioni corrispondenti ad un livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, è ammessa nei seguenti casi: (i) in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che possano avere incidenza sulla posizione del lavoratore e (ii) ove ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva.

Formula

Egr. Sig./Gent.le Sig.ra

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OGGETTO: ASSEGNAZIONE A MANSIONI INFERIORI AI SENSI DELL'ART. 2103 C.C.[1]

Facendo seguito ai colloqui intercorsi ed in considerazione del processo di riorganizzazione in atto [2], con la presente Le confermiamo che, a far data dal ...., Le verranno assegnate le seguenti mansioni .... .... [3], inferiori rispetto al Suo attuale inquadramento, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2103 c.c.

Restano invariate tutte le altre condizioni contrattuali già in essere [4].

Voglia sottoscrivere copia della presente per ricevuta e per integrale accettazione del suo contenuto.

Distinti saluti.

Luogo e data ....

(Firma della Società) ....

(Firma del Lavoratore/trice per ricevuta e accettazione)

[1]La comunicazione deve essere effettuata in forma scritta, a pena di nullità.

[2]Ovvero nei casi individuati dalla contrattazione collettiva.

[3]Nella comunicazione dovranno essere specificate le mansioni inferiori purché rientranti nella medesima categoria legale.

[4]In particolare, dovrà essere mantenuto il trattamento economico già goduto dal lavoratore, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Commento

Categorie, qualifiche e mansioni

La legge (art. 2095 c.c. e art. 1 della l. n. 190/1985) individua le seguenti categorie di lavoratori: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Ulteriori categorie di prestatori di lavoro (ad esempio, gli intermedi) sono state individuate dalla contrattazione collettiva.

Nel quadro delle suddette categorie possono essere stabilite e raggruppate per gradi, secondo la loro importanza nell'ordinamento dell'impresa, le qualifiche (art. 96 disp. att. c.c.), le quali rappresentano il tipo e il livello della figura professionale e concorrono a determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell'impresa.

Le mansioni individuano l'insieme dei compiti affidati al prestatore di lavoro.

La determinazione dell'esatto inquadramento del lavoratore è il frutto di un percorso logico-giuridico che passa necessariamente attarverso la puntuale analisi delle mansioni in concreto svolte dal prestatore di lavoro, le quali – individuando i compiti e le attività che il lavoratore deve eseguire in adempimento dell'obbligazione di lavoro – consentono l'attribuzione di una determinata qualifica e, in quadro ancor più ampio, di una categoria.

Al riguardo, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda. L'accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell'inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, costituisce comunque giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da logica ed adeguata motivazione (Cass. n. 26233/2008; Cass. n. 17896/2007; Cass. n. 2859/2001); in termini, si è espressa anche la giurisprudenza di merito (Trib. L'Aquila, 22 maggio 2013).

Lo stesso Supremo Collegio ha confermato che il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda; non si può prescindere da tale procedimento. Consegue che è sindacabile in sede di legittimità la sentenza, con la quale il giudice di merito abbia deciso la controversia senza dare esplicitamente conto delle predette fasi (Cass. n. 6174/2016).

Il descritto procedimento non preclude, comunque, la possibilità di deroga in melius mediante assegnazione al lavoratore di un inquadramento superiore convenzionalmente attribuito (c.d. “inquadramento convenzionale”).

E ciò anche in ragione dell'assenza, nel nostro ordinamento giuridico, di una norma che imponga che ai lavoratori che svolgono identiche mansioni debba essere riconosciuto il medesimo inquadramento (Cass. S.U., n. 6030/1993; Cass. n. 16709/2002).

All'atto dell'assunzione, il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica al medesimo attribuite in relazione alle mansioni per cui lo stesso prestatore di lavoro viene assunto (art. 1 del d.lgs. n. 152/1997). Più in dettaglio, al lavoratore devono essere fornite le informazioni relative a: inquadramento, livello e qualifica attribuiti, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro (artt. 95 e 96 disp. att. c.c., r.d. n. 318/1942 e art. 1, comma 1 lett. f, del d.lgs. n. 152/1997).

Ai sensi delle disposizioni di cui al d.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, nella lettera di assunzione devono essere, altresì, indicate le mansioni, le quali possono essere determinate anche mediante rinvio all'inquadramento contrattuale previsto dal CCNL applicabile, sempre che le mansioni corrispondenti al livello contrattuale siano ben definite all'interno dello stesso contratto collettivo.

Mansioni ed esercizio dello jus variandi

In conformità al disposto di cui all'art. 2103, comma 1, c.c., il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In linea generale, il mutamento di mansioni non deve comportare alcuna diminuzione della retribuzione; sono, in ogni caso, fatte salve le specifiche e limitate eccezioni di cui all'art. 2103 c.c., come modificato dall'art. 3 del d.lgs. n. 81/2015, in attuazione della legge n. 183/2014 (Jobs Act).

In base alla succitata previsione codicistica (art. 2103 c.c.), a decorrere dal 25 giugno 2015, la facoltà di mutamento delle mansioni, concessa al datore di lavoro, supera parzialmente i limiti (divieto di assegnazione a mansioni inferiori e limitazioni del potere del datore di lavoro di mutare le mansioni) imposti dalla previgente disciplina e si disancora dal concetto di equivalenza delle mansioni.

Va ricordato che qualora il lavoratore svolga contestualmente mansioni c.d. “promiscue”, ossia mansioni rientranti in categorie contrattuali differenti, il corretto inquadramento del dipendente potrà essere determinato attraverso la verifica e l'individuazione delle mansioni caratterizzanti la prestazione, e quindi il corrispondente inquadramento sarà quello relativo alle mansioni svolte con prevalenza (Cass. n. 2637/2000).

Sul punto, nulla risulta innovato dal Legislatore del 2015.

Rispetto al divieto generale di assegnazione a mansioni inferiori, la Suprema Corte di Cassazione ha comunque sostenuto la non applicabilità dell'art. 2103 c.c. (nella versione anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 81/2015) laddove l'accordo corrispondesse all'interesse del lavoratore. In particolare, sul presupposto che il divieto di demansionamento dovesse essere interpretato alla stregua della regola dell'equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l'obiettivo di un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio posto di lavoro, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente espletate, non è stata ritenuta in contrasto con il dettato codicistico nelle ipotesi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l'esternalizzazione dei servizi ovvero la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali (Cass. n. 18387/2009).

In ossequio a tale principio, la Suprema Corte di Cassazione ha, quindi, espressamente ammesso il patto di demansionamento, con assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali il medesimo era stato assunto o che aveva successivamente acquisito nel corso del rapporto di lavoro, esclusivamente al fine di evitare un licenziamento, considerando prevalente l'interesse del lavoratore stesso a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall'art. 2103 c.c. – nella versione anteriore alla novella del 2015 (Cass. n. 8596/2007).

La nuova formulazione dell'art. 2103 c.c. consente ora al datore di lavoro di assegnare il lavoratore anche a mansioni corrispondenti ad un livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, nei seguenti casi:

- modifica degli assetti organizzativi aziendali che possano avere incidenza sulla posizione del lavoratore (art. 2103, comma 2, c.c.)

- ove ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva (art. 2103, comma 4, c.c.).

L'assegnazione a mansioni inferiori è consentita unicamente nelle ipotesi succitate. Restano in ogni caso confermati i casi eccezionali in cui, già prima del 2015, l'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori era stata ammessa dalla giurisprudenza (si veda Interpello Min. Lav., n. 39 del 21 settembre 2011; Cass. n. 14517/2011; Cass. n. 17095/2011) o dalla legge (sul piano normativo, si citano a titolo esemplificativo: l'art. 3, comma 4, l. n. 1204/1971, le cui disposizioni sono poi confluite nel d.lgs. n. 151/2001, artt. 7,11 e 12; l'art. 56, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 151/2001; l'art. 4, comma 11, legge n. 223/1991; l'art. 42 del d.lgs. n. 81/2008; l'art. 1, comma 7, della legge n. 68/1999; l'art. 52, d.lgs. n. 165/2001; l'art. 15 del d.lgs. n. 66/2003 in materia di lavoro notturno; l'art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148 in materia di “contratti di prossimità”).

Se, dunque, in passato, il potere di jus variandi del datore di lavoro era limitato all'assegnazione di mansioni superiori o equivalenti, il nuovo art. 2103 c.c. supera il “vecchio” concetto di equivalenza (di elaborazione giurisprudenziale nella vigenza dell'art. 2103 c.c. nella formulazione anteriore alla modifica del 2015), che viene ora sostituito da quello della riconducibilià delle nuove mansioni allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte dal prestatore di lavoro.

Anche in forza della nuova previsione dell'art. 2103 c.c., che senza dubbio attribuisce ora (rispetto al passato) un più significativo rilievo alla contrattazione individuale, il mutamento fondato sull'esercizio del potere organizzativo dovrà comunque essere giustificato da una reale modifica degli assetti organizzativi, senza implicare necessariamente la valutazione di quei riassetti che abbiano come conseguenza, ad esempio, la sola conservazione del posto. La nuova formulazione della disposizione codistica in commento è molto più ampia e pertanto suscettibile, in caso di contenzioso, di valutazione ad opera dell'organo giudicante, comportando la necessità di un'attenta valutazione preliminare e, quindi, di una motivazione formale dell'intera operazione di riassetto organizzativo che coinvolga la posizione del lavoratore.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo. L'eventuale mancato adempimento di detto obbligo non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni, potendo però determinare responsabilità sul piano degli obblighi imposti dal d.lgs. n. 81/2008, in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Da un punto di vista formale, il comma 5 del novellato art. 2103 c.c. prevede che, nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma della stessa norma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Quanto all'applicazione della nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., il Tribunale di Roma – il primo a pronunciarsi sul novellato art. 2103 c.c. – ha affermato che l'art. 2103 c.c., nel testo sostituito dall'art. 3 d.lgs. n. 81/2015, si applica ai rapporti di lavoro pendenti alla data di entrata in vigore del decreto: poiché il demansionamento del lavoratore integra illecito permanente, la prosecuzione, dopo il 24 giugno 2015, dell'adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti per contenuto professionale, ma non inferiori per livello, è legittima. Di conseguenza, nulla spetta per il danno prodottosi da tale data (Trib. Roma, 30 settembre 2015).

L'art. 2103, comma 6, c.c. identifica poi una serie di ipotesi in cui è possibile procedere al mutamento di mansioni nelle sedi di cui all'art. 2113, quarto comma, c.c. (ossia nelle sedi di conciliazione previste dalle disposizioni del codice di procedura civile ex artt. 185, 410, 411,412-ter e 412-quater c.p.c.), o avanti alle commissioni di certificazione di cui all'art. 76 del d.lgs. n. 276/2003. In queste sedi possono infatti essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore e per le seguenti motivazioni:

- conservazione dell'occupazione,

- acquisizione di una diversa professionalità,

- miglioramento delle condizioni di vita.

(si veda il Commento alla formula “Accordo modificativo di mansioni, categoria legale, inquadramento e retribuzione”).

Il comma 9 dell'art. 2103 c.c. conferma inoltre, come regola generale, la nullità di ogni patto contrario rispetto alla disciplina prevista dal legislatore, salve le specifiche eccezioni (ed in ciò sta l'elemento di novità), ossia “salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma” – e, dunque, le ipotesi di demansionamento consentite dalla legge o dai contratti collettivi – “e fermo quanto disposto al sesto comma”, e quindi i patti inviduali modificativi, formalizzati in sede protetta nei termini pocanzi indicati.

In conclusione, si può affermare che il nuovo art. 2103 c.c. consente ora la mobilità orizzontale e in alcuni casi e a determinate condizioni persino il demansionamento, avendo la modifica introdotta dal d.lgs. n. 81/2015 determinato un evidente ampliamento dei poteri del datore di lavoro nell'assegnazione anche di mansioni inferiori, nei casi comunque previsti dalla norma di riferimento, come novellata.

Dalla novella introdotta all'art. 2103 c.c. ed alla possibilità, nei casi previsti dalla norma, di assegnazione a mansioni inferiori, discende che l'obbligo di repechage dovrà essere esteso anche alle mansioni inferiori.

Al riguardo, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva onerato il lavoratore della manifestazione di volontà alla stipula di un patto di demansionamento) (Cass. n. 4509/2016).

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo di repechage a carico del datore di lavoro deve estendersi alla verifica della possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte, con il consenso del medesimo (Cass. n. 22798/2016).

In ogni caso, si esclude che debbano essere offerte al lavoratore tutte le mansioni disponibili. Così si è espresso il Supremo Collegio, affermando che “il demansionamento, a prescindere dall'accettazione o meno da parte del lavoratore e dunque dall'esistenza di un patto di demansionamento, è ammissibile sempre che ci sia una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti dal lavoratore. Il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche l'insussistenza di mansioni inferiori rientranti e compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore (così richiamando alcuni precedenti della medesima Corte, Cass. n. 21579/2008, Cass. n. 23698/2015). Non appare, inoltre, configurabile un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore” (Cass. n. 9467/2016).

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