Lettera di licenziamento per giusta causa

Francesco Rotondi
aggiornato da Alessandra Croce

Inquadramento

Il licenziamento, nella forma individuale, integra un'ipotesi di recesso datoriale dal rapporto di lavoro subordinato, disciplinata dalla legge attraverso norme, dirette a limitarne l'esercizio, che trovano ragione d'essere nelle istanze di tutela del prestatore di lavoro. Il licenziamento “per giusta causa” è intimato quale massima sanzione disciplinare applicabile dal datore di lavoro, in esito all'esperimento della procedura prevista dall'art. 7 della l. n. 300/1970, quando sia imputabile al prestatore di lavoro una condotta tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere nell'ambito del rapporto di lavoro, da non consentire più quindi la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto medesimo.

Formula

Egr. Sig./Gent. Sig.ra

....

....

....

Lettera raccomandata A/R

OGGETTO: LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Facciamo seguito alla nostra lettera di contestazione del ...., a Lei trasmessa a mezzo .... il .... e da Lei ricevuta il .... (oppure a Lei consegnata il ....) che qui di seguito trascriviamo integralmente ad ogni effetto:

.... [1].

Non essendoci pervenute Sue giustificazioni a riguardo,

(oppure

Non potendo ritenere le Sue giustificazioni, pervenuteci il ...., sufficienti a destituire di fondamento gli addebiti a Lei contestati, in quanto .... [2] ),

i fatti a Lei contestati devono dirsi confermati e integranti gravissime violazioni di .... [3]

Considerata la gravità del Suo contegno, tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, cosicché non è consentita la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto stesso, con la presente, Le comunichiamo il licenziamento per giusta causa ai sensi e per gli effetti dell'art. 2119 c.c. e .... (eventualmente citare anche la previsione del CCNL ove la condotta sia espressamente punita con la sanzione del licenziamento per giusta causa).

Le spettanze di fine rapporto Le verranno regolarmente corrisposte nei consueti tempi tecnici.

La Sua documentazione di lavoro sarà disponibile presso i nostri uffici di ....

Distinti saluti.

Luogo e data ....

Il datore di lavoro ....

[1]Riportare integralmente il testo della contestazione disciplinare elevata e inviata/consegnata al lavoratore. Contestazione, questa, che rientra nell'ambito del procedimento disciplinare prescritto dall'art. 7 della L. n. 300/1970. Per l'applicabilità del procedimento anzidetto anche nell'ipotesi di giustificato motivo soggettivo, si veda il commento alla formula “Lettera di licenziamento per giustificato motivo soggettivo”.

[2]Spiegare puntualmente, con sufficiente dettaglio, le ragioni per le quali le giustificazioni non possono accettate ed essere ritenute sufficienti a destituire di fondamento gli addebiti mossi al lavoratore.

[3]Riportare le violazioni (contrattuali, di legge e di contratto collettivo) indicate nella lettera di contestazione disciplinare.

Commento

Principi applicabili e tipologie di licenziamento

Il licenziamento, nella forma individuale, integra un'ipotesi di recesso datoriale dal rapporto di lavoro subordinato, disciplinata dalla legge attraverso norme, dirette a limitarne l'esercizio, che trovano ragione d'essere nelle istanze di tutela del prestatore di lavoro derivanti dalla condizione di forza contrattuale posseduta dal datore di lavoro in seno al rapporto stesso.

Conseguenza della condizione di squilibrio contrattuale delle parti del rapporto di lavoro è, anzitutto, la regola di giustificazione necessaria del licenziamento intimato al lavoratore. Cosicché, fatti salvi i casi di licenziamento ad nutum (si rinvia al commento alla formula “Lettera di licenziamento ad nutum”) – che rappresentano ipotesi ormai residuali, essendo lo stesso consentito solo nei confronti dei dirigenti, del personale domestico, dei lavoratori delle organizzazioni di tendenza e dei lavoratori che abbiano raggiunto i limiti di età per la pensione e sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto (si rinvia al commento alla Formula Lettera di licenziamento per raggiunti limiti di età pensionabile) – il licenziamento è consentito soltanto nel caso in cui sussista una giusta causa o un giustificato motivo, soggettivo o oggettivo. Nozioni, quelle di giusta causa e di giustificato motivo, che sono state tipizzate dal legislatore e che sono rimaste invariate anche a seguito delle ultime riforme realizzate con la l. 28 giugno 2012, n. 92 e con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, di attuazione della Legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (legge che ha dato il via ad un ampio processo di riforma della disciplina del lavoro, noto come Jobs Act).

Come si vedrà, per quanto rileva in questa sede, ciò che è cambiato, già con la l. n. 92/2012 (art. 1, comma 41) è la decorrenza della data di efficacia del licenziamento. Infatti, tale provvedimento normativo, introducendo un'eccezione al principio generale secondo cui il licenziamento, quale atto recettizio, produce i suoi effetti dal momento in cui giunge a conoscenza del destinatario (e, quindi, del lavoratore), fa decorrere gli effetti del provvedimento espulsivo che sia però stato “intimato all'esito del procedimento disciplinare di cui all'art. 7 l. n. 300/1970, oppure all'esito del procedimento di cui all'art. 7 della l. n. 604/1966 (procedimento previsto per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo)” (e, quindi, solo in questi casi) “dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato ...”.

Ai sensi e per gli effetti dell'art. 2119 c.c., ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, nelle ipotesi nelle quali si verifichi una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Il preavviso è necessario, invece, nelle altre ipotesi di licenziamento, disciplinate dall'art. 3 della l. 15 luglio 1966, n. 604, quelle nelle quali il recesso avviene per giustificato motivo soggettivo, giacché determinato da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”, o oggettivo, giustificato cioè da “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. E, in mancanza del quale, spetta al lavoratore un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, calcolata secondo i criteri indicati dal codice civile all'art. 2121 c.c.

I termini e le modalità del preavviso sono previsti dai contratti collettivi.

L'indennità sostitutiva del preavviso è comunque dovuta, senza alcun obbligo di prestazione di attività lavorativa, in specifiche ipotesi, e segnatamente in caso di: morte del lavoratore (art. 2118, comma 3, c.c.), dimissioni del lavoratore per giusta causa (art. 2119, comma 1, c.c.), dimissioni presentate dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento (d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 55) e dimissioni rassegnate dalla lavoratrice a seguito di licenziamento per matrimonio dichiarato nullo (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 35).

Concorrono allo scopo di riequilibrare la posizione delle parti del rapporto di lavoro e, anche, di conferire certezza alla scelta di risolvere il rapporto stesso, le disposizioni che regolano la forma e le procedure da osservare ai fini dell'irrogazione del licenziamento, oltre che l'ipotesi di ripensamento della determinazione risolutiva datoriale.

Da un punto di vista formale, il licenziamento deve essere comunicato per iscritto al prestatore di lavoro. Il Tribunale di Catania, con la sentenza del 27 giugno 2017, ha ritenuto legittimo il licenziamento comunicato ad un lavoratore con un messaggio WhatsApp.

Il licenziamento, inoltre, come previsto dall'art. 2, della l. n. 604/1966, nella versione novellata dalla l. n. 92/2012, deve anche recare la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. La motivazione (a differenza di quanto accade nel recesso in prova, si veda il commento alla formula “Lettera di licenziamento per mancato superamento della prova”) deve essere specifica e i motivi comunicati sono immodificabili.

Il licenziamento intimato per mancanze del lavoratore ha natura ontologicamente disciplinare, siano tali mancanze configurabili come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa (salvo che quest'ultima si concreti in fatti diversi dall'inadempienza contrattuale del lavoratore) e per giustificato motivo soggettivo debbono essere osservate le previsioni dell'art. 7 della legge n. 300/1970, e quindi la specifica procedura disciplinare prevista dalla detta norma e per la quale si rinvia al Commento alla Formula Lettera di contestazione disciplinare.

Nelle ipotesi, invece, di licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, comma 8, della legge n. 300/1970, si applicano le disposizioni dell'art. 7 della legge n. 604/1966, che prevedono l'obbligo dell'esperimento di una procedura ad hoc, ai fini della conciliazione, con il coinvolgimento della Direzione territoriale del lavoro – si vedano i commenti alla formula “Lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (comunicazione preventiva alla sede territoriale dell'Ispettorato del Lavoro)” e alla formula “Lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (procedura ex art. 7 legge n. 604 del 1966, la quale non deve essere azionata nelle ipotesi in cui si tratti di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110 c.c. – si veda il commento alla Formula Lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto – di licenziamenti ed interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all'art. 2, comma 34, della l. 28 giugno 2012, n. 92 e di licenziamenti che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – cfr. art. 7, comma 6, della l. n. 604/1966 e art. 3, comma 3, d.lgs. n. 23/2015)”.

Come si è anticipato, di regola, il licenziamento produce i suoi effetti dal momento in cui il lavoratore ne viene a conoscenza.

Al riguardo, il Tribunale Roma (23 giugno 2016, n. 6243) ha affermato che “è noto che la efficacia del licenziamento, atto unilaterale recettizio, suppone che la manifestazione negoziale sia portata a conoscenza del destinatario nelle forme stabilite dalla legge e che, pertanto, possa trovare applicazione anche la norma di cui all'art. 1335 c.c. Qualsiasi dichiarazione diretta ad una determinata persona, si reputa, infatti, conosciuta, quando giunge all'indirizzo del destinatario tranne che questi non provi di essere stato senza sua colpa nell'impossibilità di averne notizia: non è richiesta quindi la effettiva conoscenza, essendo sufficiente che il destinatario sia stato posto nella condizione di poter, appunto, conoscere la dichiarazione a lui diretta”.

Tuttavia, nelle ipotesi di licenziamento intimato all'esito del procedimento disciplinare di cui all'art. 7 della l. n. 300/1970 oppure all'esito del procedimento di cui all'art. 7 della l. n. 604/1966, il recesso “produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva . Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato”.

La legge fa salvo l'effetto sospensivo disposto dalle norme del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, recante il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, ed il caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro (art. 1, comma 41, l. n. 92/2012).

Il legislatore ha provveduto a disciplinare anche l'ipotesi di revoca del licenziamento, con identica disposizione dello Statuto dei lavoratori (nella versione risultante dalle modifiche operate dalla l. n. 92/2012) e del d.lgs. n. 23/2015.

È stabilito, a riguardo, che, in tale ipotesi, e purché la revoca venga effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del licenziamento, “il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti“per il licenziamento (si rinvia alla Formula Lettera di revoca del licenziamento).

Il licenziamento per giusta causa

La definizione di giusta causa è contenuta nell'art. 2119 c.c., il quale – come anticipato – dispone che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

In ragione del tenore letterale della detta disposizione codicistica, si desume che nella nozione di “giusta causa” possono rientrare anche comportamenti non necessariamente integranti inadempimento contrattuale, ma tali comunque da incidere in modo definitivo sul rapporto di lavoro, in quanto idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, anche facendo temere per un puntuale esatto adempimento delle prestazioni future ad opera del prestatore di lavoro.

Per verificare l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, consistente in una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, in particolare nella compromissione di quello fiduciario, “occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare” (Cass. n. 14177/2014).

Come ancora recentemente ribadito dai giudici di legittimità, “In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (confermato il licenziamento di una lavoratrice di Poste Italiane, che aveva compiuto ripetute violazioni di diverse e fondamentali procedure di sicurezza per un importo di notevole entità, pari a quasi 390mila euro)” (Cass. n. 10846/2017).

La valutazione del complesso di tali elementi del rapporto rispetto alla possibile lesione vincolo fiduciario anche rispetto alle condotte extra-lavorative va valutata in relazione al caso concreto.

Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato che “In tema di licenziamento per giusta causa, nella valutazione dell'idoneità della condotta extra-lavorativa del dipendente ad incidere sulla persistenza dell'elemento fiduciario, occorre avere riguardo anche alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento richiesto dalle mansioni espletate.” (Cass. n. 1978/2016).

L'esistenza e la portata del danno non sono tuttavia determinanti, non essendo necessario che la condotta ritenuta dal datore lesiva del vincolo fiduciario e tale da determinare il licenziamento con effetto immediato abbia prodotto necessariamente un danno.

Anche a fronte di danno di lieve entità è stata riconosciuta la sussistenza di una giusta causa di licenziamento: “In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento (confermato il licenziamento del lavoratore addetto ad un supermercato che aveva tentato di sottrarre beni per meno di dieci euro)” (Cass. n. 24014/2017).

Ancora di recente la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che “In tema di licenziamento per giusta causa, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo valore determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento (nella specie, la Corte ha ritenuto giustificato il licenziamento del lavoratore che aveva raggiunto l'esercizio commerciale di cui era socio durante l'orario di lavoro) (Cass. n. 13613/2017; si vedano anche Cass. n. 13168/2015; Cass. n. 892/2013; Cass. n. 22798/2012).

Si precisa che non costituiscono giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda.

Il licenziamento può rappresentare la massima sanzione disciplinare comminata dal datore di lavoro, nell'esercizio del potere conferitogli dalla legge e con l'osservanza della procedura stabilita dall'art. 7 della l. 20 maggio 1970, n. 300 (per quanto concerne le questioni attinenti alle modalità di esercizio del potere disciplinare si rinvia ai Commenti alle Formule Lettera di contestazione disciplinare e Provvedimento disciplinare dell'ammonizione scritta).

A questo riguardo, è stato chiarito che “deve essere considerato licenziamento disciplinare, per il quale devono operare le garanzie previste dal secondo e terzo comma dell'art. 7 Stat. Lav. per la contestazione dell'addebito e l'esercizio del diritto di difesa, ogni licenziamento che sia motivato dal datore di lavoro con l'imputazione al dipendente di un grave inadempimento in senso lato, quale giustificato motivo soggettivo ovvero giusta causa del recesso”. Viceversa, “esulano dal licenziamento ontologicamente disciplinare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, perché dipendente da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e la giusta causa che si concreti in fatti diversi dalla inadempienza contrattuale del lavoratore” (Trib. Bari 4 maggio 2017).

Nel caso in cui intenda intimare un licenziamento disciplinare, il datore di lavoro deve, quindi, preventivamente, contestare l'addebito al lavoratore e sentirlo a sua difesa. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

La contestazione deve essere immediata. È stato osservato, a tale proposito, che “dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'interpretare il requisito della immediatezza in senso “relativo”, ritenendo che la contestazione debba essere tempestiva rispetto all'accadimento del fatto o alla notizia di esso, attesa l'esigenza di garantire al lavoratore incolpato una possibilità di utile difesa, altrimenti pregiudicata o ostacolata dall'eccessivo intervallo temporale tra la conoscenza del fatto ed il momento in cui il dipendente, ricevendone la contestazione, è messo nella condizione di giustificarsi”. In termini, si è espresso il Tribunale di Larino in data 22 febbraio 2017, il quale, sul punto, ha richiamato gli arresti della Suprema Corte di Cassazione (per tutte, Cass. n. 10017/2016, secondo cui “il principio della necessaria immediatezza della contestazione ha lo scopo di garantire la possibilità di un'utile difesa da parte del lavoratore e, quindi, l'effettività del contraddittorio, nonché la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell'esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede”. D'altro canto, secondo quanto osservato dalla Suprema Corte di Cassazione, “un fatto non tempestivamente contestato l. n. 300 del 1970, ex art. 7 non può che essere considerato come “insussistente” non possedendo l'idoneità ad essere verificato in giudizio. Si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il Giudice accerti la sussistenza o meno del “fatto”, e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il “fatto” è “tanquam non esset” e quindi “insussistente” ai sensi a dell'art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del “fatto contestato” (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell'art. 7” – Cass. n. 2513/2017).

Quanto all'osservanza delle previsioni relative all'affissione del codice disciplinare prescritta dalle disposizioni dell'art. 7, comma 1, l. n. 300/1970, si rinvia al commento alla formula “Lettera di contestazione disciplinare”.

Si rammenta, in questa sede, come la giurisprudenza di merito, richiamando il costante indirizzo interpretativo della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui “in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere alla pubblicità del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta” (per tutte, Cass. n. 18462/2014), abbia sostenuto che il principio appena richiamato fosse “sempre riconosciuto con riguardo alle sanzioni espulsive, quando esse sono comminate per comportamenti che la coscienza sociale considera lesivi delle regole fondamentali del dovere civile e che sono, comunque, contraddistinti da rilevanza penale o che costituiscono gravi violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore” (in questi termini, Trib. Matera, 2 marzo 2017).

Viceversa, secondo la Suprema Corte – ribadito come il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare non trovi applicazione ove il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che integrino violazione di norme penali o che contrastino con il “minimo etico” – serve dare “adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali” (Cass. n. 4826/2017).

Come si è visto, a conclusione del procedimento disciplinare, può essere irrogata la sanzione del provvedimento espulsivo, nella sua forma più grave, ossia il licenziamento per giusta causa, senza preavviso, quando si verifichi una situazione tale da ledere irrimediabilmente ed irreparabilmente il vincolo fiduciario che deve sussistere nell'ambito del rapporto di rapporto di lavoro, al punto che la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto diviene impossibile.

Diversamente, allorquando l'inadempimento imputabile al lavoratore sia sì grave, al punto da determinare il datore di lavoro all'adozione del provvedimento espulsivo, ma non tale da determinare l'interruzione del rapporto con effetto immediato, potrà essere irrogato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con diritto del lavoratore al preavviso (si veda il commento alla formula “Lettera di licenziamento per giustificato motivo soggettivo”).

Si ricorda che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa. Muovendo da tale principio, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che detta elencazione “non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (Cass. n. 2830/2016. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la rilevanza dirimente oltre che la stessa riconducibilità all'ipotesi di “rissa”, prevista come giusta causa di licenziamento dal CCNL di categoria, del comportamento di un lavoratore che aveva dato una mera “spallata” ad un collega, senza che tale evento avesse avuto ulteriori ripercussioni sulla serenità dell'ambiente di lavoro).

Più di recente, la Suprema Corte, nel ribadire la rilevanza meramente esemplificativa delle ipotesi di cui al CCNL, ha precisato che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha mera valenza esemplificativa e non esclude la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, “alla sola condizione che il grave inadempimento o il grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (Cass. n. 19022/2017; è stata confermata, nella specie, la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a una lavoratrice accusata di aver omesso di registrare e di versare in cassa il corrispettivo della vendita di pacchetti di sigarette).

Incombe sul datore di lavoro l'onere di provare in giudizio la sussistenza della giusta causa (o del giustificato motivo soggettivo) di licenziamento.

Profili sanzionatori

Il legislatore disciplina nel dettaglio le conseguenze che discendono dalla violazione delle norme predisposte per l'esercizio del recesso datoriale.

I regimi sanzionatori differiscono, a seconda della dimensione dell'impresa, della fattispecie di licenziamento, della tipologia di vizio che attiene allo stesso e, da ultimo, a seguito del d.lgs. n. 23/2015, della data di assunzione del lavoratore (o di conversione del contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, o di integrazione del requisito dimensionale di cui all'art. 18, commi 8 e 9, della l. n. 300/1970, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 23/2015 e specificato, più nel dettaglio, nel commento alla Formula Lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (recesso rientrante nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015).

Prima del detto decreto del 2015, il quale ha predisposto un inedito articolato destinato a sostituire, a seconda del dato dimensionale datoriale, le disposizioni dell'art. 18 della l. n. 300/1970 e dell'art. 8 della l. n. 604/1966, la scelta del regime sanzionatorio applicabile per l'ipotesi di licenziamento illegittimo si risolveva, anzitutto, in base al numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.

E, infatti, salvo le ipotesi di licenziamento disciplinate dal comma 1 dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con riguardo ai licenziamenti intimati da datori di lavoro non integranti il requisito dimensionale di cui ai commi 8 e 9 dello stesso art. 18, trovava applicazione la tutela obbligatoria, prevista dall'art. 8 della l. n. 604/1966, secondo cui, ove accertato non ricorrere gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcirgli il danno, pagando un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, stabilita avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento ed alle condizioni delle parti.

Nelle ipotesi in cui i requisiti dimensionali risultavano integrati, a trovare applicazione erano, invece, le disposizioni dello Statuto dei Lavoratori e, quindi, la graduazione di tutele, di natura reale ed indennitaria, previste - a seconda della fattispecie di licenziamento e della tipologia di vizio che attiene allo stesso - dall'art. 18, nel testo risultante dalla riforma operata dalla l. n. 92/2012.

Con tale intervento, infatti, la norma statutaria abbandonava l'impostazione che voleva l'affermazione assoluta del principio di stabilità reale del posto di lavoro, in favore di un articolato impianto sanzionatorio.

L'intento era quello di limitare l'operatività del rimedio ripristinatorio del rapporto entro precisi confini, rendendolo, da regola, eccezione. Proposito, invero, proseguito, e meglio implementato, col successivo d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Decreto, quest'ultimo, a seguito del quale la scelta del regime sanzionatorio applicabile nelle ipotesi di licenziamento illegittimo si è complicata ulteriormente, giacché, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto), continuano a valere le considerazioni sin qui svolte con riguardo all'operatività dell'art. 18 della legge n. 300/1970 e dell'art. 8 della legge n. 604/1966, mentre a quelli assunti successivamente, e delle altre ipotesi stabilite dalla legge (cfr. art. 1, d.lgs. n. 23/2015) si applicano le nuove disposizioni del decreto, che sostituiscono, senza abrogarle, le previsioni degli artt. 8 e 18 anzidetti.

La disciplina dello Statuto dei lavoratori

L'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo risultante dalle modifiche operate con la l. n. 92/2012, prevede un articolato sistema di tutele, nel quale alle misure che contemplano la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, il cui campo di applicazione, risulta, come anzidetto, ormai soltanto residuale, si affiancano misure di tipo esclusivamente risarcitorio.

La reintegrazione nel posto di lavoro è contemplata dalla norma – a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro e, pure, ove si tratti di dirigenti – per i casi di licenziamento nullo perché discriminatorio (ai sensi dell'art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108), perché intimato in concomitanza col matrimonio (ai sensi dell'art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), o in violazione dei divieti di licenziamento predisposti dalla legge a sostegno della genitorialità (di cui all'art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, affidato alle disposizioni del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 e successive modificazioni), ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge o ad un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c. (art. 18, comma 1, l. n. 300/1970).

La stessa conseguenza è prevista con riguardo alle fattispecie di licenziamento intimato in forma orale, nelle quali il recesso è dichiarato inefficace, pure in questi casi, quale che sia il numero dei dipendenti impiegati alle dipendenze del datore di lavoro (art. 18, comma 1).

Nelle ipotesi suddette, alla reintegrazione, che, per tal ragione, si dice integrare una tutela “piena”, la legge affianca, oltretutto, la previsione della condanna del datore di lavoro al “risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”. Risarcimento che, in ogni caso, non può essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, comma 2, l. n. 300/1970).

Il ripristino del rapporto di lavoro è contemplato anche con riguardo ad alcune tipologie di licenziamento disciplinare, in relazione alle quali è stabilito, per l'appunto, che ove, all'esito del giudizio di accertamento, non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti a sostegno del recesso del datore di lavoro, “per insussistenza del fatto contestato” ovvero “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, il giudice annulli il licenziamento, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970).

In tali ipotesi, alla reintegrazione, dando luogo, perciò, ad una tutela “attenuata”, si affianca il pagamento di un'indennità risarcitoria, parimenti commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dalla quale, tuttavia, viene dedotto non soltanto “quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”, ma, pure, “quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Con l'ulteriore precisazione per cui la misura dell'indennità non può, in ogni caso, superare il limite di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970).

Lo stesso regime sanzionatorio si applica, necessariamente, nelle ipotesi in cui risulti accertato il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, pure ex artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, o in violazione dell'art. 2110, comma 2, del codice civile (art. 18, comma 7, l. n. 300/1970).

Diversa è, invece, la fattispecie in cui accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, in relazione alla quale è stabilito che il giudice “può” fare applicazione della tutela che contempla il ripristino del rapporto (art. 18, comma 7, l. n. 300/1970).

Fuori da quelle specificamente nominate, “nelle altre ipotesi” in cui si accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro e (“nelle altre ipotesi”) di giustificato motivo oggettivo in relazione alle quali non opera la tutela ripristinatoria del rapporto, il rapporto è dichiarato risolto con effetto dalla data del licenziamento. A ristoro del pregiudizio patito dal prestatore di lavoro, è prevista la condanna del datore di lavoro al pagamento di “un'indennità risarcitoria onnicomprensiva”, nella misura determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, che il giudice deve parametrare “in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo” e, ove si tratti delle “altre ipotesi” di giustificato motivo oggettivo anzidette, pure, in relazione alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione ed al comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 604/1966 (art. 18, commi 5 e 7, l. n. 300/1970).

Quella appena rammentata è detta tutela indennitaria “piena”, dalla quale è tenuta distinta la tutela, parimenti indennitaria, ma c.d. “ridotta”.

Quest'ultima è accordata dall'ordinamento nelle ipotesi di violazioni formali o procedurali e, segnatamente, in quelle nelle quali il licenziamento venga dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione prescritto dall'art. 2, comma 2, legge n. 604/1966, della procedura di cui all'art. 7, legge n. 300/1970 o di quella imposta dall'art. 7, legge n. 604/1966. In tali ipotesi, sussistendo, comunque, la risoluzione del rapporto, a rimedio del pregiudizio subito dal lavoratore è contemplata sì l'attribuzione di “un'indennità risarcitoria onnicomprensiva”, ma, questa volta, determinata, a seconda della gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (art. 18, comma 6, l. n. 300/1970).

Fuorché nelle ipotesi di tutela reintegratoria “piena”, le cui disposizioni, come anzidetto, si applicano a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le ulteriori tutele sin qui rammentate trovano applicazione soltanto con riguardo ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che integrino i requisiti dimensionali prescritti dallo Statuto dei Lavoratori (art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970).

La disciplina del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (a decorrere dal 7 marzo 2015)

Al recesso datoriale dal rapporto di lavoro instaurato a decorrere dal 7 marzo 2015 si applicano le disposizioni del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, di attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Jobs Act).

Disposizioni che, più precisamente, si applicano ai lavoratori, che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di cui si tratta, coincidente con l'entrata in vigore del decreto. Ma, pure, negli altri casi previsti dalla legge e, quindi, nei casi di conversione, successiva alla data anzidetta, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato. E, da ultimo, nelle ipotesi in cui il requisito occupazionale di cui all'art. 18, commi 8 e 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non sussistente, venga integrato in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del decreto. Con la conseguenza che, in tali ipotesi, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente alla data di cui si tratta, è disciplinato dalle nuove disposizioni (art. 1, d.lgs. n. 23/2015).

Le disposizioni trovano applicazione, oltretutto, con riferimento ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto (art. 9, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).

Il decreto in commento non modifica le nozioni di giusta causa e giustificato motivo, né la necessaria giustificazione del licenziamento.

Ai licenziamenti che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 si applicano le regole sui termini di preavviso.

Ad essi non si applicano, invece, le disposizioni di cui all'art. 7 della legge n. 604/1966 – si veda il commento alla formula “Lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo con preavviso (tutele crescenti)”.

In ordine al regime sanzionatorio, le norme del decreto del 2015 sostituiscono, senza abrogarle, le previsioni degli artt. 8 della l. n. 604/1966 e 18 della l. n. 300/1970.

Il detto decreto – dando attuazione alla delega, e, segnatamente, all'art. 1, comma 7, lett. c, della l. n. 183/2014, che voleva la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio – esclude che, nelle ipotesi di licenziamenti economici, il prestatore di lavoro possa essere reintegrato, spettando, a quest'ultimo, unicamente una riparazione di tipo economico, di importo certo e crescente con l'anzianità di servizio. E, infatti, “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (..), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento” e l'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, è dovuta nella misura di due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Misura, questa, comunque, compresa tra quattro e ventiquattro mensilità (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015) e aumentata dalla novella introdotta dall' art . 3, comma 1 , del d.l. 12 luglio 2018, n. 87 , convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 , a sei mensilità nel minimo e a trentasei mensilità nel massimo.

Il diritto alla reintegrazione è previsto, invece, nelle ipotesi di licenziamenti nulli, giacché discriminatori (a norma dell'art. 15 della l. n. 300/1970) o perché riconducibili agli altri casi di nullità tipizzati dalla legge, per quelli inefficaci, perché intimati in forma orale, e “per le ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68” (art. 2, commi 1 e 4, d.lgs. n. 23/2015).

Ipotesi, quelle in cui del licenziamento sia stata accertata la nullità e l'inefficacia, nelle quali al prestatore di lavoro spetta, pure, il risarcimento del danno e, quindi, “un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”. Risarcimento che, in ogni caso, non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).

Ma la reintegrazione è comminata, in via di eccezione, e solo ove ricorrano i presupposti previsti dal decreto delegato, pure nel caso di licenziamenti disciplinari o, comunque, irrogati per fatti imputabili al lavoratore.

E, infatti, assurge a regola il fatto che, come per il licenziamento economico, nelle ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del recesso per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il rapporto debba essere dichiarato estinto, con il pagamento (come per il licenziamento economico) dell'indennità nella misura prevista dall'art. 3, comma 1. A fare eccezione sono “esclusivamente” le ipotesi (di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (secondo il Tribunale di Lodi – sentenza del 16 febbraio 2017 n. 34 – “l'onere della prova della legittimità del licenziamento disciplinare è integralmente in capo al datore di lavoro anche in regime di contratto di lavoro cd. a tutele crescenti. La locuzione “direttamente dimostrata”, utilizzata dal Legislatore del 2015, non determina uno sdoppiamento dell'onere probatorio tale per cui spetterebbe al datore di lavoro la dimostrazione dell'esistenza del giustificato motivo o della giusta causa e a carico del lavoratore la dimostrazione dell'insussistenza del fatto contestato”).

In dette ipotesi, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di un'indennità risarcitoria.

Indennità, quest'ultima, che la legge commisura “all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni”. A questo riguardo, è ulteriormente precisato che, in ogni caso, l'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non possa superare le dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).

Il rimedio anzidetto che, per le ipotesi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, contempla il ripristino del rapporto illegittimamente risolto non trova applicazione, tuttavia, nei casi in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui commi 8 e 9 dell'art. 18, legge n. 300/1970, rispetto ai quali valgono specifiche indicazioni, pure, quanto all'ammontare delle indennità (cfr. art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Nei casi suddetti, l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1 e dall'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 è dimezzato e, in ogni caso, non può eccedere il limite di sei mensilità.

Sulla legittimità art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 si è recentemente  pronunciata la Corte Costituzionale, la quale -  con sentenza n. 194 del 26.09.2018 - ha affermato che l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui determina l'indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo (nella specie, per giustificato motivo oggettivo) in “un importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” - indennità, quindi, che assume i connotati di una liquidazione legale, forfettizzata e standardizzata, in quanto ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio - contrasta:

  1. con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse, in violazione dell'art. 3 Cost.;
  2. con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell'inidoneità dell'indennità in esame a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, in violazione degli artt. 3,4, primo comma e 45, primo comma, Cost.;
  3. con gli artt. 76 e 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.

Ad avviso della Corte, dunque, “il denunciato art. 3, comma 1” - sia nel testo originario del 2015 sia come successivamente modificato anche dal Decreto Dignità e dalla legge di conversione n. 96/2018 - “deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo” limitatamente “alle parole <<di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio>>”.

Pertanto, ritiene la Corte costituzionale, “Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va qualificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.

Una tutela di tipo meramente economico è prevista, invece, per le ipotesi di vizi formali e procedurali e, segnatamente, nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione (ex art. 2, comma 2, della l. n.l. n. 604 del 1966) o della procedura di cui all'art. 7 della l. n.l. n. 300 del 1970. Ipotesi, queste, nelle quali il rapporto di lavoro è dichiarato estinto alla data del licenziamento, con condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità, non soggetta a contribuzione previdenziale, dell'ammontare pari ad una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio ed in misura, in ogni caso, compresa tra due e dodici mensilità (art. 4, d.lgs. n. 23/2015).

Con la sentenza n. 150 del 16 luglio 2020, la Corte Costituzionale, riprendendo le argomentazioni e le censure svolte con riguardo all'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».  Ad avviso della Corte, «l'anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore h inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio» (Corte cost. n. 150/2020).

L'impugnazione, il rito speciale e l'offerta di conciliazione

Concorrono a conferire stabilità e certezza giuridica alla decisione risolutiva datoriale le disposizioni che regolano gli specifici termini fissati per l'impugnativa del licenziamento illegittimo.

L'art. 6 della legge n. 604/1966 stabilisce, infatti, che il licenziamento debba essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, a mezzo di atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a palesare la volontà del lavoratore, anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale. Impugnazione, questa, che diviene, però, inefficace nell'ipotesi in cui ad essa non faccia seguito, entro i centottanta giorni successivi, il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato. Ove questi ultimi vengano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato, parimenti a pena di decadenza, nel termine di sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

La legge n. 92/2012, all'art. 1, comma 47 e ss., aveva introdotto uno speciale rito, applicabile alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori instaurate successivamente al 18 luglio 2012, con l'obiettivo di semplificare ed accelerare il contenzioso (per la cui disamina si rinvia all'apposita sezione).

Valgono, anche per i licenziamenti che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015, le disposizioni che regolano gli specifici termini fissati per l'impugnativa del licenziamento illegittimo, di cui all'art. 6 della legge n. 604/1966.

Non trovano applicazione, invece, le disposizioni della l. n.l. n. 92/2012 (art. 1, commi da 48 a 68), che avevano introdotto lo speciale rito, applicabile alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 dello Statuto instaurate successivamente al 18 luglio 2012. Sicché, con riguardo ai licenziamenti di cui al detto decreto del 2015, si applica il rito di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c. (art. 11, d.lgs. n. 23/2015).

Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, all'art. 37, comma 1, lett. e):

- disposto l'espressa abrogazione dell'art. 1, commi dal 47 al 69 della l. 28 giugno 2012, n. 92 (cd. Rito Fornero) e

- ha contestualmente aggiunto (all'art. 3, comma 32) al Libro II, Titolo IV, del codice di procedura civile il Capo I-bis (“Delle controversie relative ai licenziamenti”), nel quale sono contenuti l'art. 441-bis (rubricato “Controversie in materia di licenziamento”), l'art. 441-ter (rubricato “Licenziamento del socio di cooperativa”) e l'art. 441-quater (rubricato “Licenziamento discriminatorio”), applicabili alle controversie in materia di licenziamento instaurate successivamente al 28 febbraio 2023.

Salvo quindi quanto disposto dalle nuove norme del codice di procedura civile, come meglio in prosieguo illustrate, a fronte dell'abrogazione del cd. Rito Fornero, dal 1° marzo 2023, il rito delle controversie in materia di licenziamento sarà quello del lavoro.

Si veda, per approfondimenti, la formula “Ricorso ex legge 28 giugno 2012, n. 92 art. 1, comma 48”.

Le disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 contemplano, poi l'offerta di conciliazione ad opera del datore di lavoro.

Secondo quanto dispone l'art. 6 del d.lgs. n. 23/2015, è consentito al datore di lavoro di offrire al lavoratore un importo, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all'art. 2113 c.c. ed all'art. 76 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, la cui accettazione comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all'impugnazione, anche se già proposta (si rinvia al commento alla formula “Offerta di conciliazione”).

Tale importo, come statuito al comma 1 del ciato art. 6, non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche,non è soggetto a contribuzione previdenziale, ed è di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, aumentata a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 87/2018 ad una misura non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità.

Nelle aziende che non raggiungono i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18 l. n. 300/1970, commi ottavo e nono, tali importi sono dimezzati e non possono superare il limite delle sei mensilità.

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