La testimonianza del minore vittima di reato e l'importanza del rigore metodologico nella valutazione della prova

26 Giugno 2018

La pronuncia in commento esamina il rigore metodologico che deve essere adottato in sede di valutazione della prova e, in particolare, della testimonianza di soggetti minori di età. In tali circostanze, infatti, all'ordinaria indagine sull'attendibilità soggettiva ...
Massima

Il processo in cui è vittima un minore non è né deve essere un processo di emozioni ma di autori e vittime di un reato circoscritto e determinato, saldamente ancorato alla realtà fattuale. La regola di giudizio compendiata dall'art. 533, comma 1, c.p.p. nella formula «al di là di ogni ragionevole dubbio» impone di pronunciare condanna solo quando il dato probatorio acquisito sia saldamente ancorato alla realtà fattuale, lasciando fuori eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.

Fonte: ilFamiliarista.it

Il caso

All'esito di giudizio abbreviato, il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Cosenza assolveva con formula dubitativa perché il fatto non sussiste un docente di arte accusato di aver molestato sessualmente alcune alunne di 11 e 13 anni mediante toccamenti asseritamente perpetrati nel corso delle lezioni. A fondamento della pronuncia assolutoria veniva posta un'attenta disamina delle prove dichiarative versate in atti (con la correlata esplicitazione dei criteri di valutazione adottati) che non aveva consentito di superare i profili di dubbio, contradditorietà e inverosimiglianza riscontrati nelle testimonianze dei soggetti minori d'età.

La questione

La questione oggetto della pronuncia in commento attiene al rigore metodologico che deve essere adottato in sede di valutazione della prova e, in particolare, della testimonianza di soggetti minori d'età. In tali circostanze, infatti, all'ordinaria indagine sull'attendibilità soggettiva del teste e oggettiva del narrato, si aggiungono ulteriori specifici criteri, che costituiscono delle linee guida funzionali al vaglio delle deposizioni dei giovani testi. Nel caso concreto, il vaglio giudiziale aveva avuto ad oggetto:

  • il profilo attinente all'intrinseca attendibilità delle persone offese e il confronto speculare con i testimoni di riferimento;
  • la verifica dell'ipotesi del c.d. contagio dichiarativo;
  • il riscontro dell'eventuale presenza nelle vittime di sintomi riconducibili all'abuso;
  • la verosimiglianza di un racconto nel quale il protagonista non aveva adottato alcuna cautela al fine di evitare di essere scoperto (il c.d. abusante ignorante o sprovveduto).
Le soluzioni giuridiche

Al fine di addivenire ad un giudizio rassicurante circa la colpevolezza o meno dell'imputato, il giudice osserva come la normativa avente a oggetto l'assunzione e valutazione delle prove testimoniali provenienti da soggetti minori di età sia assolutamente peculiare e, non potendosi ricondurre tout court alle regole generali che governano quella degli adulti, si caratterizzi per la commistione con profili di multidisciplinarietà, ben condensati nelle linee direttrici contenute nella Carta di Noto e, con riferimento alla materia degli abusi collettivi, nel Protocollo di Venezia. Quindi, esaminate le questioni strettamente afferenti al caso considerato, conclude nell'unico modo possibile, ossia con l'assoluzione dell'imputato, necessaria allorquando il dato probatorio acquisito non sia saldamente ancorato alla realtà fattuale, permanendo profili di dubbio, contraddittorietà ed inverosimiglianza nelle versioni rese dai testimoni minori d'età su aspetti tutt'altro che marginali.

Osservazioni

La materia degli abusi sui minori, e del connesso rigore valutativo che si impone nelle pronunce giudiziali in simili evenienze, ha assunto in questi ultimi anni un'importanza sempre crescente, spesso amplificata dal clamore mediatico riservato ad alcuni noti fatti di cronaca, in cui si è talvolta scongiurato il pericolo che venissero accreditate come veritiere ipotesi di falsi positivi. Così, le questioni giuridiche trattate nella pronuncia in commento si pongono come necessario sostrato su cui fondare il libero convincimento del giudice ma, pur nella complessiva condivisione delle argomentazioni addotte e dei risultati cui si è pervenuti, non mancano (a parere di chi scrive) alcune criticità.

La prima questione trattata è quella relativa all'intrinseca attendibilità delle persone offese e al confronto speculare con i testimoni di riferimento. Com'è noto, la valutazione dell'attendibilità soggettiva del giovane testimone deve essere desunta dalle sue caratteristiche personali, morali ed intellettive e dall'esistenza di motivi personali di rancore, di astio o di altri sentimenti verso l'accusato; l'attendibilità oggettiva del narrato, invece, deve essere colta dall'osservazione della genesi del racconto, della sua spontaneità, della coerenza interna, della specificità dei dettagli e, eventualmente, della sua corrispondenza rispetto ad ulteriori elementi acquisiti al processo, non senza tenere in precipua considerazione il più ampio contesto sociale, familiare e ambientale al fine di escludere l'intervento di fattori inquinanti in grado di minarne la credibilità. Da una parte, il giudice è chiamato ad operare un delicato vaglio su fattori di debolezza della prova che potrebbero definirsi intrinseci del racconto, quali:

  • la limitatezza della capacità mnestica del minore, da correlarsi necessariamente anche all'età del dichiarante;
  • la facilità di confusione tra ciò che è fantastico e ciò che è reale;
  • il maggiore o minore grado di suggestionabilità del giovane teste, sia nei confronti del mondo esterno, ma anche nel raffronto con gli adulti o personaggi per lui significativi.

Dall'altra, invece, particolare attenzione deve essere posta nella valutazione di fattori estrinseci, quali le metodologie utilizzate nella procedura di ascolto o altri fattori esterni di condizionamento del teste, tali da aver inficiato l'attendibilità, sul piano fattuale, del racconto reso.

Ad una tale argomentazione fa poi da contraltare l'ultima questione analizzata dal giudicante, il quale, del tutto correttamente, si interroga sulla verosimiglianza di un racconto nel quale il protagonista non avrebbe adottato alcuna cautela al fine di essere scoperto (abusante ignorante o sprovveduto). L'inverosimiglianza della collocazione spaziale delle condotte abusanti, la scarsa plausibilità della vicenda processuale, asseritamente verificatasi in ambiente scolastico, sottoposto a frequenti controlli e alla presenza di più persone che nulla avevano notato o segnalato, l'esistenza di un motivo specifico di astio o rancore verso l'imputato da parte delle vittime e la manifestata intenzione di reagire a tali atteggiamenti non potevano che influire sulla valutazione giudiziale.

Peraltro, data la peculiarità della situazione considerata, in cui le dichiarazioni accusatorie erano nate in un contesto scolastico e avrebbero visto coinvolte quali vittime una serie di alunne asseritamente abusate dal comune docente di arte con l'offerta di versioni dei fatti spesso contrastanti o del tutto inconciliabili, assolutamente corretta appare, poi, anche l'analisi relativa alla verifica dell'ipotesi del cd. contagio dichiarativo. Come ha avuto modo di osservare la Corte di cassazione, si tratta di un ‹‹sofisticato meccanismo psicologico che può verificarsi tramite uno scambio di informazioni e dati tra individui che porta a modifiche anche radicali nelle convinzioni relative a quanto accaduto e che, nella sua forma estrema, determina il formarsi di convincimenti che non corrispondono alla realtà dei fatti» (Cass., Sez. III, 18 settembre 2007, n. 37147). Nel caso in cui l'asserita violenza si sia perpetrata all'interno di un ambiente chiuso, quale quello scolastico, parrocchiale, ricreativo, culturale, ancora più forte è il pericolo di contaminazioni “incrociate” o da cd. “dichiarazioni a reticolo” e di “contagio dichiarativo”, dove la circolazione delle informazioni tra i minori o i genitori di soggetti frequentanti il medesimo ambiente può portare alla diffusione della notizia e al correlato aumento del sospetto di mendacio nascente da potenziali inquinamenti descrittivi del fenomeno. Al proposito, anche le indicazioni prevenienti dagli esperti del settore e contenute nella Carta di Noto, così come da ultimo modificata nella sua quarta versione il 14 ottobre 2017, sono nel senso che «nei casi di abusi e/o maltrattamenti collettivicioè dieventi in cui si presume che una o più persone abbiano abusato e/o maltrattato più minori, occorre acquisire elementi per ricostruire, per quanto possibile, la genesi e le modalità di diffusione delle notizie anche al fine di evidenziare o escludere una eventuale ipotesi di “contagio dichiarativo”» (art. 23).

Non insignificanti perplessità desta invece lo sviluppo argomentativo dedicato al tema del riscontro dell'eventuale presenza nelle vittime di sintomi riconducibili all'abuso. Il giudice, nel suffragare il proprio convincimento circa l'assoluzione dell'imputato, osserva criticamente come nel caso considerato nessuno dei genitori avesse notato nel comportamento dei figli alcuno dei "sintomi" che emergono di frequente in casi di abuso a sfondo sessuale, quali «incubi notturni, sensi di colpa, insulti autodiretti, inappetenza, nausea, vomito, rifiuto di andare a scuola, aggressività, rabbia, nonché comportamenti sessualizzati»; tutti sintomi che, si dice, sarebbero dovuti «emergere dapprima in ambito familiare» e che «per quanto i figli potessero vegognarsi a confidarli, si sarebbero comunque estrinsecati in cadute dell'umore, in mutismo, abbattimento, svogliatezza». Addirittura, si arriva a criticare l'operato del pubblico ministero che, «dinanzi alla conclamata assenza di sintomi, non ha ritenuto neppure di dover disporre consulenza, o richiedere perizia nelle forme dell'incidente probatorio, per verificare in alcuna delle ipotetiche vittime l'emersione di disturbo post-traumatico da stress compatibile con l'esperienza dell'abuso a sfondo sessuale». Ebbene, un'argomentazione siffatta non pare condivisibile dal momento che, invece, non sempre le dichiarazioni del fanciullo trovano un riscontro in elementi obbiettivi suscettibili di suffragare il racconto narrato e non è nemmeno corretto ricorrere all'identificazione del cd. Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) in ambito forense qualora l'evento traumatico non sia stato prioritariamente accertato, non essendo possibile, in simili evenienze, pervenire ad un sicuro giudizio di sussistenza di un nesso eziologico. Ciò è tanto vero che, contrariamente a quanto dichiarato, una delle maggiori difficoltà che è dato riscontrare nel vagliare la credibilità di un racconto di asserite violenze sessuali subite da parte di un soggetto minorenne è proprio quella relativa all'assenza di precisi indicatori d'abuso. Com'è stato osservato, si tratta di un aspetto «sul quale si accendono nelle aule dei tribunali interminabili e spesso oziosi dibattiti», volti a delegare all'esperto la ricerca dei predetti indicatori; «l'inconsistenza scientifica e l'illusorietà di questo costrutto, sottolineata in tutte le linee guida nazionali ed internazionali […] continua a sopravvivere nei quesiti posti all'esperto e spesso addirittura nelle sentenze dei giudici, autoalimentandosi a dispetto delle evidenze che ne sconsigliano apertamente l'utilizzazione in ambito sia clinico, sia giudiziario». Al proposito, sono le stesse fonti citate nella premessa contenuta nella sentenza in discorso a mettere in guardia circa l'erroneità di simile ragionamenti. In particolare, l'art. 18 della Carta di Noto evidenzia che «non esistono segnali psicologici, emotivi e comportamentali validamente assumibili come rivelatori o “indicatori” di una vittimizzazione». Così come, ai sensi del successivo art. 19, «non è possibile diagnosticare un disturbo post-traumatico da stress o un disturbo dell'adattamento ricavandone l'esistenza dalla sola presenza di sintomi, i quali potrebbero avere altra origine». Allo stesso modo statuiscono le Linee Guida SINPIA 2007, secondo cui «non esiste una sindrome clinica “caratteristica” ed indentificabile legata specificamente all'abuso sessuale. I disturbi psichici ad esso legati, che compaiono peraltro incostantemente ed in funzione dei fattori di rischio presenti e delle modalità (durata, intensità) con cui l'abuso è stato compiuto, possono corrispondere ad un ampio repertorio di risposte comportamentali comune anche ad altre condizioni cliniche […]. Non esistono indici comportamentali ed emotivi patognomonici di abuso sessuale; in un'elevata percentuale di casi non si manifestano condotte problematiche». Ancora, del medesimo tenore sono anche le Linee Guida Nazionali del 2010 sull'ascolto del minore come testimone (cfr. art. 4.3. Linee Guida Nazionali. L'ascolto del minore testimone, redatte dalla Consensus Conference, Roma, 6 novembre 2010), a mente delle quali «le evidenze scientifiche non consentono di identificare quadri clinici riconducibili a specifica esperienza di vittimizzazione, né ritenere alcun sintomo prova di un'esperienza di vittimizzazione o “indicatore” di specifico traumatismo. In definitiva non è scientificamente corretto inferire dalla esistenza di sintomi psichici e/o comportamentali, pur rigorosamente accertati, la sussistenza di uno specifico evento traumatico». In effetti, come è stato correttamente osservato, «l'abuso è il trauma per eccellenza, ma la diagnosi di abuso non esiste». Significativa, in tal senso, appare la sentenza della Suprema Corte che ha riguardato la vicenda nota alle cronache dei piccoli di Tivoli e che per l'importanza delle conclusioni raggiunte merita di essere riportata: «La ricerca del rapporto eziologico tra i disturbi emotivi dei bambini ed i reati era necessaria in quanto è noto che non esiste una sindrome da stress specificatamente riferibile all'abuso sessuale […] lo stato delle attuali conoscenze in materia non permette di individuare sicuri nessi di compatibilità tra sintomi di disagio ed eventi traumatici specifici [...] Il ragionamento del pubblico ministero contiene una petizione di principio perché trasforma l'oggetto da provare in criterio di inferenza: non è possibile da un indizio sicuro in fatto, ma equivoco nella interpretazione concludere per la certezza dell'evento che rappresenta il tema probatorio. Più in generale, costituisce un ragionamento circolare e non corretto ritenere che i sintomi sono la prova dell'abuso e che l'abuso sia la spiegazione dei sintomi›› (Cass., Sez. III, 18 settembre 2007, n. 37147; conf. Cass., Sez. III, 12 novembre 2014, n. 3394). Si tratta di una pronuncia che rappresenta un chiaro segnale di lucida argomentazione avverso quella che, come visto, è una prassi cui si ricorre con eccessiva e fuorviante facilità, ossia quella di procedere ad una sorta di arbitraria inversione del nesso di causalità e individuare il fatto storico di reato a partire dai presunti esiti che lo stesso abbia prodotto. Un tale ragionamento quasi sillogistico si mostra fallace ab origine. Infatti, data la multifattorialità del disturbo conseguente al presunto abuso, non si può inferire della presenza di una determinata causa a partire dalla valutazione dell'effetto; non si può considerare quale cartina al tornasole dell'avvenuto abuso l'eventuale sussistenza di sintomi, che, come detto, non possono essere considerati di valore inequivocabile. Ebbene, un simile modus procedendi (definito più vicino «alla pratica dei tarocchi che alla scienza medica e psicologica») determina il pericolo di riporre eccessive aspettative sulle potenzialità ermeneutiche della scienza nonché il rischio di stravolgimento del principio del libero convincimento giudiziale, che si concretizzerebbe nel caso in cui il giudice fosse portato ad adeguarsi alle valutazioni del tecnico senza porsi criticamente rispetto ai risultati dallo stesso raggiunti.

Guida all'approfondimento

Aa.Vv., Testimoni e testimonianze deboli, (a cura di) L. De Cataldo Neuburger, Padova, 2006;

G. B. Camerini, M. Pingitore, G. Lopez, La perizia sull'idoneità a testimoniare del minorenne nei casi di presunta violenza sessuale, in www.ilpenalista.it;

A. M. Capitta, La contaminazione della prova testimoniale, in Aa.Vv., Verso uno statuto del testimone nel processo penale, Milano, 2005, 247 ss.;

L. De Cataldo Neuburger, Esame e controesame nel processo penale, II ed., Padova, 2005;

D. Carponi Schittar, R. Rossi, Perizia e consulenza in caso di abuso sessuale sui minori, Milano, 2012;

F. Tribisonna, L'ascolto del minore testimone o vittima di reato nel procedimento penale. Il difficile bilanciamento tra esigenze di acquisizione della prova e garanzie di tutela della giovane età, Padova, 2017;

F. Tribisonna, L'inosservanza dei protocolli scientifici nei casi di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, in www.ilpenalista.it.

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