Carenza di legittimazione e poteri del giudice

27 Giugno 2018

Affinché il giudice sia in grado di esaminare la questione di merito, occorre che la lite sia costituita fra quei soggetti che siano legittimi contraddittori, ossia fra il soggetto legittimato ad agire e quello legittimato a contraddire. Nel caso in cui il giudice non rilevi tale corrispondenza in una delle parti, ricorre la fattispecie tipica della carenza di legittimazione, il cui regime processuale, come recentemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, si differenzia da quello operante nel caso di carenza di titolarità, inerente invece al merito della controversia.
La legittimazione quale condizione dell'azione

La legittimazione ad agire (o legittimazione attiva) consiste nella identità fra la persona dell'attore e la persona cui la legge conferisce, nel caso concreto, il potere di agire per quel dato fine (pertanto, a differenza della potestà di agire che è riconosciuta a chiunque uti civis, la legittimazione ad agire è propria solo del titolare della potestà di agire in vista di un determinato fine). La legittimazione ad agire rappresenta un aspetto ineliminabile del giudizio civile, come si desume “a contrario” dall'art. 81 c.p.c., secondo cui «fuori dei casi espressamente previsti dalla legge», ossia delle ipotesi di sostituzione processuale,«nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui».

La legittimazione a contraddire (o legittimazione passiva) consiste nell'identità della persona del convenuto con la persona di fronte a cui tale potere di agire è dato. Ad esempio, nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da un allievo (anche se cagionati a se stesso) ed imputabili a culpa in vigilando dell'insegnante, unico legittimato è il Ministero dell'istruzione ai sensi dell'art. 61 l. n. 312/1980 (Cass. civ., 6 novembre 2012, n. 19158; Cass., Sez. Un., 27 giugno 2002, n. 9346) e non anche l'istituto presso cui il docente presta servizio (Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9752), né l'insegnante (Cass. civ., 3 marzo 2010, n. 5067).

In particolare, secondo la costante giurisprudenza, legittimato (attivamente o passivamente) ad causam è colui che si attribuisce o nei cui confronti sia attribuita la soggettività (attiva o passiva) del rapporto giuridico controverso, e, pertanto, la condizione perché si riconosca all'attore la legittimazione ad agire è che egli si affermi titolare del diritto controverso, non già che egli lo sia effettivamente. Per riconoscere la legittimazione ad un soggetto è sufficiente, quindi, che costui si attribuisca la titolarità del diritto fatto valere, prescindendo dall'effettiva titolarità, in concreto, del rapporto dedotto in causa, che si riferisce invece al merito della causa; qualora, invece, già dalla prospettazione dell'attore risultasse l'inesistenza, in capo al medesimo attore, del diritto da lui azionato in giudizio, la domanda stessa dovrà essere dichiarata inammissibile (in tal senso, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in motivazione) per mancanza di legittimazione (attiva) ad agire (contra, Cass. civ., 15 novembre 2016, n. 23202; Cass. civ., 2 ottobre 2003, n. 14675; Cass. civ., 17 maggio 2001, n. 6766, secondo cui, invece, la domanda dovrà essere rigettata).

In sostanza, la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell'azione diretta all'ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare, in via preliminare, esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione e secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio (Cass. civ, 8 agosto 2012, n. 14243), prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza.

Analogamente, il presupposto della legittimazione passiva del convenuto attiene alla sua qualità di soggetto nei cui confronti l'attore ha il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sua prospettazione, una sentenza di merito, di accoglimento o di rigetto.

Il difetto di legitimatio ad causam, attenendo alla legittimità del contraddittorio, è rilevabile, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, con il solo limite della formazione del giudicato interno su tale specifica questione (Cass. civ., 4 maggio 2016, n. 8798; Cass., Sez. Un., 9 febbraio 2012, n. 1912, secondo cui, a norma dell'art. 382, ultimo comma, c.p.c., va disposta la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata ove si accerti il difetto di legittimazione dell'attore, che toglie in radice ogni possibilità di prosecuzione dell'azione). La partecipazione al processo di una parte priva di legittimazione determina nullità del procedimento e della sentenza, se la decisione è basata su domande, eccezioni, allegazioni o prove che quella parte ha introdotto nel processo e che il giudice non avrebbe potuto prendere in esame d'ufficio (Cass. civ., 6 novembre 1998, n. 11196; parzialmente difforme Cass. civ., 16 luglio 1998, n. 6955, secondo cui la partecipazione della parte priva di legittimazione, quando siano in causa anche le parti necessarie del rapporto dedotto in giudizio, non si riflette sulla validità della decisione, a meno che non venga dimostrato che la decisione sarebbe stata diversa senza quella partecipazione).

La legitimatio ad causam non va confusa con la legitimatio ad processum, che consiste, invece, nella capacità di stare in giudizio, ponendo in essere atti processuali in nome proprio o per conto di altri: ad esempio, il minore non ha la capacità processuale, ma è rappresentato in giudizio dal genitore esercente la responsabilità.

Legittimazione e titolarità

Colui che sostiene la propria estraneità al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, e, conseguentemente, il difetto di una propria titolarità rispetto ai diritti e agli obblighi che a quel rapporto si ricollegano, solleva una questione di merito e chiede che questa sia risolta con una pronuncia di rigetto della domanda proposta dall'attore; non solleva, invece, un problema di legittimazione in senso passivo, attinente alla regolare costituzione del contraddittorio.

Un esempio chiarirà la differenza tra le due fattispecie della legittimazione e della titolarità, sovente confuse nella pratica: se Tizio chiede il risarcimento dei danni nei confronti di Caio, assumendo che questi è l'autore del fatto illecito, Caio per ciò solo è da reputarsi legittimato (passivo), sulla base della prospettazione della domanda attorea; ragion per cui, se Caio, negando la propria responsabilità, assume che autore dell'illecito è esclusivamente Sempronio, egli solleva un'eccezione che non attiene al profilo della sua legittimazione passiva, bensì che involge una questione di merito inerente alla titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio; se, invece, Tizio assume che autore dell'illecito è Caio ma chiede il risarcimento del danno a Sempronio, quest'ultimo, già sulla base di quanto prospettato dall'attore, è carente di legittimazione passiva, in quanto già in astratto non è il contraddittore passivo della domanda risarcitoria proposta in giudizio.

Sulla base di tale principio, la carenza di legittimazione attiva si configura, ad esempio, nel caso di chi si dichiari detentore ed esperisca l'azione di manutenzione ex art. 1170 c.c., che compete normativamente al solo possessore (Cass. civ., 24 febbraio 1995, n. 2125). In sostanza, una questione di legittimazione si pone solo quando l'attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronuncia contro il convenuto pur deducendo la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (Cass. civ., 28 ottobre 2015, n. 21925, secondo cui, in tema di azione risarcitoria conseguente ad incidente stradale, la questione relativa alla proprietà del veicolo, ovvero ad altro diritto identificativo del soggetto tenuto al risarcimento del danno, involge la titolarità, dal lato passivo, del rapporto controverso ed attiene al merito della lite).

Contestazione della titolarità ed onere della prova

Fino a qualche anno fa era controverso, nella giurisprudenza di legittimità, quale fosse l'onere probatorio gravante sulle parti in caso di contestazione della titolarità, attiva o passiva, del diritto sostanziale dedotto in giudizio, atteso che, secondo la tesi minoritaria (Cass. civ., 10 luglio 2014, n. 15759), la relativa eccezione costituiva una mera difesa, con la conseguenza che incombeva sulla parte la cui titolarità era contestata dimostrare di possederla; l'orientamento maggioritario (Cass. civ., 28 ottobre 2015, n. 21925; Cass. civ., 27 giugno 2011, n. 14177), invece, assumeva che la contestazione suddetta costituisse un'eccezione in senso stretto, che doveva essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, gravando, così, sulla parte che la proponesse l'onere di provare la propria affermazione e, quindi, il difetto di titolarità di quel rapporto per la controparte.

La soluzione delle Sezioni Unite

Nel risolvere l'indicata questione, le Sezioni Unite (sentenza n. 2951 del 16 febbraio 2016) hanno evidenziato che le motivazioni delle sentenze che esprimono l'interpretazione maggioritaria muovono, generalmente, dalla distinzione tra legittimazione ad agire ed effettiva titolarità del rapporto, puntualizzando che la carenza della legittimazione ad agire è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d'ufficio dal giudice, mentre, per contro, la questione della titolarità del rapporto (tanto attiva che passiva) attiene al merito della decisione e, quindi, alla fondatezza della domanda in concreto proposta, e, da questa premessa, fanno derivare l'affermazione che la relativa questione rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata, con la conseguenza che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d'ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni in senso stretto.

Ad avviso delle Sezioni Unite, però, benché debbano condividersi, di tale orientamento, la distinzione tra legittimazione ad agire e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell'azione, nonché l'affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva, attiva ma anche passiva, attiene al merito della decisione, cioè alla fondatezza della domanda, «…il passaggio che non convince è quello per cui, attenendo al merito della decisione, la questione rientra nel potere dispositivo della parti e (è questo il punto più critico) nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Il fatto che la questione attenga al merito significa che rientra nel problema della fondatezza della domanda, della verifica della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio, ma non significa che la relativa prova gravi sul convenuto e che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un'eccezione, tanto meno in senso stretto».

In sostanza, oggetto di analisi, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione ad agire, è la domanda, nella quale l'attore deve affermare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio, rilevando in particolare la prospettazione (discorso analogo vale per la simmetrica legittimazione a contraddire, che attiene alla titolarità passiva dell'azione e che, anch'essa, dipende dalla prospettazione nella domanda di un soggetto come titolare dell'obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio). Pertanto, qualora l'atto introduttivo del giudizio non indichi, quanto meno implicitamente, l'attore come titolare del diritto di cui si chiede l'affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l'azione sarà inammissibile.

Qualora, poi, all'esito del processo, si accerti che la parte non era titolare del diritto che aveva prospettato come suo (o che la controparte non era titolare del relativo obbligo), tale accertamento, che attiene al merito della causa, non escluderà la legittimazione a promuovere il processo, nel senso che l'attore perderà la causa, con le relative conseguenze, ma aveva diritto di intentarla.

In definitiva, la legittimazione ad agire mancherà tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il diritto vantato in giudizio non appartiene all'attore; la titolarità del diritto sostanziale attiene invece al merito della causa, alla fondatezza della domanda.

Ribadito, pertanto, l'orientamento consolidato ed univoco della giurisprudenza per cui la carenza di legittimazione ad agire può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata d'ufficio dal giudice (non ponendosi, del resto, problemi probatori, perché si ragiona sulla base della domanda e della prospettazione in essa contenuta, ed essendo comprensibile che la questione non sia soggetta a preclusioni, in quanto una causa non può chiudersi con una pronuncia che riconosce un diritto a chi, alla stregua della sua stessa domanda, non aveva titolo per farlo valere in giudizio), resta controversa, sotto molteplici profili, la disciplina applicabile allorquando si tratta di stabilire se colui che vanta un diritto in giudizio ne sia effettivamente il titolare.

In proposito, la titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento costitutivo della domanda, e gli elementi costitutivi possono consistere in meri fatti (ad esempio, per invocare giudizialmente il riconoscimento di una pensione d'inabilità, bisogna presentare un certo grado di inabilità psico-fisica al lavoro e un reddito inferiore a determinati livelli) o in fatti-diritto (nella controversia all'attenzione delle Sezioni Unite, il diritto oggetto della domanda è il risarcimento del danno subito da un immobile e, tra gli elementi costitutivi della domanda, vi è il diritto di proprietà sul bene danneggiato. Per chiedere in giudizio il risarcimento del danno, quindi, la parte deve dimostrare, oltre ad una serie di elementi materiali, - il danno, il nesso di causalità - anche di essere titolare di un diritto reale sul bene danneggiato: diritto reale che non è il diritto oggetto della domanda, cioè della tutela giudiziaria, ma ne è un suo elemento costitutivo).

In generale, peraltro, chi fa valere un diritto in giudizio, non può limitarsi ad affermarne la sussistenza ma deve allegare che quel diritto gli appartiene: deve dimostrare, cioè, che vi sono ragioni giuridiche che collegano quest'ultimo alla sua persona, sicché, sul piano dell'onere probatorio, giusta la ripartizione fissata dall'art. 2697 c.c., la titolarità del diritto è un fatto, appartenente alla categoria dei fatti-diritto, che della domanda costituisce il fondamento.

In definitiva, pertanto, chi promuove un giudizio deve prospettare di essere parte attiva dello stesso (ai fini della legittimazione ad agire), e, poi, provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che lo rende parte.

Il convenuto, invece, qualora non condivida l'assunto dell'attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla, così esercitando una mera difesa.

Le Sezioni Unite hanno ricordato, sul punto, che “difese” sono, in generale, le posizioni assunte dal convenuto per contrapporsi alla domanda; che esse possono consistere nella esposizione di ragioni giuridiche o in prese di posizione rispetto ai fatti prospettati dall'attore; che queste ultime potranno, a loro volta, riguardare prese di posizione che si limitano a negare l'esistenza di fatti costitutivi del diritto (“mere difese”), oppure la contrapposizione di altri fatti che privano di efficacia i fatti costitutivi, o modificano o estinguono il diritto; che il codice civile, all'art. 2697, comma 2, c.c. definisce questa seconda operazione difensiva introducendo il termine eccezione, e pone l'onere della prova dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi che ne costituiscono l'oggetto a carico del convenuto; che, all'interno della categoria generale delle eccezioni, si delinea poi la sottocategoria delle eccezioni in senso stretto, che presenta un regime giuridico peculiare, a tal fine rilevando la norma per cui il giudice «non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti» (art. 112, seconda parte, c.p.c.), alla quale si ricollega la previsione per cui il convenuto, nella comparsa di risposta «a pena di decadenza deve proporre ..... le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio» (art. 167, comma 2, c.p.c.); che, sul piano pratico, la distinzione che più rileva non è tanto quella tra mere difese ed eccezioni, quanto quella che isola le eccezioni in senso stretto, soggette a decadenza, se non vengono tempestivamente proposte, e non rilevabili d'ufficio.

Riepilogando, quindi, può dirsi che la titolarità, costituendo un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, può essere negata dal convenuto con una mera difesa, e cioè con una presa di posizione negativa, che, contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167, comma 2, c.p.c. È vero, infatti, che il primo comma del medesimo art. 167 chiede al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, ma tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza.

In altri termini, la questione che non si risolva in un'eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine e può essere sollevata d'ufficio dal giudice, il quale potrà rilevare la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso se risultante dagli atti di causa (conf. Cass. civ., 15 maggio 2018, n. 11744). Essa può anche essere oggetto di motivo di appello, perché l'art. 345, comma 2, c.p.c. prevede il divieto di «nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio» (Cass. civ., 19 luglio 2011, n. 15832).

Tuttavia, proseguono le Sezioni Unite, la presa di posizione assunta dal convenuto con la comparsa di risposta può avere rilievo, perché può servire a rendere superflua la prova dell'allegazione dell'attore in ordine alla titolarità del diritto.

Occorre, in proposito, distinguere varie ipotesi.

A) Il convenuto riconosce il fatto posto dall'attore a fondamento della domanda oppure articola una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo: in entrambi i casi, la prova, il cui onere è a carico dell'attore, può dirsi raggiunta, né sarebbe consentito in seguito al convenuto, tanto meno in appello, proporre una nuova esposizione dei fatti questa volta compatibile con la negazione del diritto, in applicazione del principio secondo cui non egent probatione i fatti pacifici o incontroversi (Cass. civ., 10 luglio 2014, n. 15759).

B) Più complessa è, invece, la problematica relativa al principio di non contestazione. Il convenuto, come detto, deve tempestivamente prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda (art. 167, comma 1, c.p.c.) ed «il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m., nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita» (art. 115, comma 1, c.p.c.).

Il silenzio serbato dalla parte costituita costituisce condotta, comunque, diversa dal riconoscimento (espresso, implicito o indiretto), sicché la non contestazione pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in queste materie, il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (Cass. civ., Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377). Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116 c.p.c.), a fortiori ciò vale per la valutazione della mancata contestazione.

In particolare, occorre coordinare la valutazione della non contestazione con una serie di principi elaborati dalla recente giurisprudenza, secondo cui l'onere di specifica contestazione:

  1. va assolto nella prima difesa o udienza immediatamente successiva all'allegazione del fatto che si intende contestare (Cass. civ., 27 febbraio 2008, n. 5191);
  2. presuppone, tuttavia, che la parte sia in grado di effettuare tale contestazione, ossia che la stessa sia a conoscenza delle circostanze di fatto che rendono possibile la confutazione di quanto dedotto ed allegato da controparte (Cass. civ., 18 luglio 2016, n. 14652): in mancanza di una concreta conoscibilità dei fatti non può esigersi alcuna specifica contestazione, e ciò in quanto possono esservi dei casi intermedi, in cui la conoscenza è parziale o limitata, sicché può dirsi che la specificità della contestazione deve essere proporzionale al grado di conoscenza del fatto da parte di colui contro il quale viene dedotto;
  3. non opera in difetto di una specifica allegazione dei fatti che dovrebbero essere contestati; in particolare, la specificità dell'allegazione non può essere desunta anche dall'esame dei documenti prodotti, giacché l'onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni contenute negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti, onde consentire alle stesse e al giudice di verificare immediatamente, sulla base delle contrapposte allegazioni e deduzioni, quali siano i fatti non contestati e quelli ancora controversi (Cass. civ., 22 settembre 2017, n. 22055).

Proprio in ordine alla rilevanza del principio di non contestazione, si ravvisa una evidente differenza tra titolarità e legittimazione ad agire, in quanto il giudice può rilevare d'ufficio il difetto di quest'ultima in capo ad una delle parti, senza che assuma, in tal caso, valore la circostanza che la legittimazione non sia stata contestata dalla controparte: invero, il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti bisognosi di istruzione probatoria in un ambito dominato dalla disponibilità delle parti, al quale è estranea la legitimatio ad causam, che attiene al contraddittorio e deve essere verificata anche d'ufficio (Cass. civ., 17 maggio 2018, n. 12122; Cass. civ., 20 ottobre 2015, n. 21176). Con l'ulteriore precisazione che il controllo d'ufficio della legitimatio ad causam, demandato al giudice, non implica il dovere di procedere di ufficio ad atti istruttori ad hoc allorquando le parti si siano presentate in lite dichiarandosi in possesso delle qualità richieste e nessun contrasto sia sorto in proposito ovvero quando la tardività della contestazione non consenta lo svolgimento del contraddittorio sull'argomento, mentre il detto controllo può essere esercitato d'ufficio in ogni stato e grado del processo sulla scorta degli elementi acquisiti in causa (Cass. civ., 9 aprile 1982, n. 2201).

C) Diversa, infine, è la considerazione del silenzio quando la parte non si sia costituita in giudizio. Invero, l'art. 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Il principio di non contestazione, quindi, non si estende alla parte che sia rimasta contumace: la contumacia, infatti, costituisce comportamento neutro, nel senso che esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti. Sicché, la contumacia del convenuto non esclude che l'attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio (Cass. civ., 21 novembre 2014, n. 24885). Costituendosi tardivamente, peraltro, il contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate, nel senso che potrà pur sempre assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte, ma gli sarà preclusa la possibilità di basare tale negazione sull'allegazione e prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi non rilevabili dagli atti (Cass. civ., 20 dicembre 2017, n. 30545, la quale, in relazione ad un giudizio di responsabilità aquiliana per lesioni conseguenti a caduta su marciapiede, ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva ritenuto tardiva la contestazione, sollevata per la prima volta in detta fase dal condominio convenuto, sulla titolarità del diritto di proprietà del marciapiede teatro del sinistro; Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21096, secondo cui, nel giudizio per il risarcimento dei danni causati da un sinistro stradale, la mancata contestazione, ad opera della compagnia assicuratrice, della responsabilità del proprio assicurato, rimasto contumace, non esonera l'attore dall'assolvimento dell'onere probatorio a suo carico, evenienza ipotizzabile solo quando il difetto di contestazione sia riferibile alle parti avversarie regolarmente costituite in giudizio, potendo, pertanto, assumere rilievo come mera circostanza di fatto liberamente apprezzabile dal giudice, in applicazione dell'art. 2733, comma 3, c.c.).

Riferimenti
  • Carpi - Taruffo, Commentario breve al codice di procedura civile, 2017, sub artt. 81 e 115;
  • Mandrioli - Carratta, Diritto processuale civile, vol. I, 26° ed., 2017.

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